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Lettera ad Alejandra Pizarnik


21 Giu , 2023|
| 2023 | Terza Pagina

Mia cara Alejandra,

il tuo Ponte sognato (La Noce d’Oro, 2022) è l’inizio di un atto di rivolta nell’apprendistato letterario di un genio.

Quando vedrai le sabbie del deserto, rileggerai Proust per mesi senza sosta, perdonerai a Dostoevskij di aver disprezzato il nulla, e leggerai per la terza volta I fratelli Karamazov, sceglierai l’impossibile – come sempre hai fatto – al di là della grazia e del perdono, della religione e del mondo, saprai di essere stata arsa dal fuoco sacro, che fu di Hölderlin e di Rilke, di Rimbaud e di Artaud.

E non potrai scriverci un romanzo, non basteranno le parole, sarà sempre un eccedere, una débâcle surrealista – disfatta di una sopravvissuta alla visione.

Ti ho sentito correre fuori da ogni disciplina, nei giardini oscuri dove attendevi l’arrivo di Lui, o anche solo uno sguardo.

Lo sguardo dell’altro che si trova di fronte, diffusione dell’incoerenza, alle 14:30 al bar Florida, dove i camerieri passano la scopa e le monete tintinnano, piatti impilati nella loro eterna rotondità.

L’ingordigia ti dominava, ti faceva vergognare di esistere, cercavi di smettere di mangiare, ma non riuscivi.

Mangiare tutto con voracità era una maniera non letteraria di accogliere, di colmare.

Leopardi e Van Gogh, ti chiedevi, in una seduta di analisi, sarebbero stati identici senza la loro mostruosità?

Ma cosa importa del dolore, della malattia, – assediata dall’idea del suicidio -, cosa importa del suicidio?

Era un eccesso di vita a condurti nel labirinto, sul precipizio, al margine.

Eri una studentessa famelica, erotizzavi ogni rapporto, avevi una sacra brama di godimento, di una felicità materica senza sconti, mai realista.

Cos’è un diario? Annotazioni oniriche, spergiuri contro la poesia argentina, dichiarazioni d’amore letterario per Vallejo, salmodiando il canto dell’estremo che non conosce commiato.

Cristina Campo più tardi ti avrebbe chiesto di trovare una mediazione, sarebbe stato il modo – l’unico – per la salvezza.

Nei cortili di Buenos Aires osservavi le donne, non potevi giurare di amare i corpi, ne avresti presi in prestito alcuni, ti maledicevi per la tua incapacità di amare; ti davi della nevrotica, dell’isterica, della narcisista.

Invocavi la follia, la tregua dalla vita adulta, non volevi appartenerle, esserne annientata.

Questo romanzo – il tuo più forte desiderio – non poteva essere scritto.

Oscillavi tra poesie metafisiche e diari – confessioni -, una specie di teatro di marionette in cui tutti si ammazzano dalle risate.

Non potevi esserci nel mondo, avevi l’impressione di essere stata scacciata, di non potervi accedere.

Perdevi la notte nell’alcol, nell’orgia, rovesciando vertigini, accettavi il destino.

Pensavi a Dio e alla morte, volevi distruggere il ponte che separa il sogno dall’azione.

Conoscevi a memoria la distanza tra l’io che scrive e l’io che vive – due persone diverse – e perciò la scrittura, la vera, l’unica, era postuma.

Avevi un patto con l’Aldilà, ti avevano rivelato il corso degli eventi, nonostante i tuoi infiniti dubbi, ti avevano accolta nell’eternità, il sacrificio era l’adesso. La tua sete di vita andava frantumata.

O la vita, o la scrittura.

Vivevi una doppia vita – come la Veronica di Kieślowski -: da un lato le orge, il desiderio carnale; dall’altro l’ascetismo, lo studio silenzioso, l’umiltà.

Ti sentivi isolata, molto peggio che sola.

Ogni faccenda umana ti sembrava assurda: avere un lavoro, una famiglia, tutto ciò che per gli altri era un obiettivo reale per te costituiva un intralcio.

Avresti voluto assolverti, ma il suicidio bussava a tutte le tue porte.

Era il 1960, pensavi ancora di potergli sfuggire, stanca di esperire corpi senza trattenerli, ti sentivi sfregiata dal contatto, avresti abbandonato ogni certezza, la tua terra madre, per Parigi.

Non sapevi realmente chi fossi: le identità in te coincidevano e si sgretolavano.

La ragazza borghese di origine ebraica si scontrava con la surrealista francese, con la perduta magia visionaria, estatica della più grande poetessa argentina.

Non avevi contezza della protervia del tuo talento, eri il tramite di una voce antica, sacerdotessa in dimensioni sospese, eretica, mai sazia ricercatrice di perle nell’abisso.

Volevi vivere come tutti, ma non eri certa che la tua esistenza sarebbe mai stata come la loro. Loro era un pronome impersonale.

Ridestavi dal sottosuolo l’attesa, il vuoto.

Parigi era l’inizio di una nuova vita. Sarebbe stata l’ultima? 

Di:

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