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L’anima del potere e della sconfitta


26 Giu , 2023|
| 2023 | Visioni

La pubblicità è l’anima del commercio, si dice. E lui, il Silvio nazionale, a forza di spot elettorali, jingles, gadgets fece in modo che lo diventasse anche della politica. Finendo così col conquistare, dopo già un decennio buono di telefilm, soap opera e quiz a premi, anche il consenso di gran parte degli italiani. Cominciando dal nome di quel partito-azienda nuovo di zecca, Forza Italia, che evocava il mondo del pallone: tanto caro agli italiani quanto a lui, presidente di quel Milan vincente che proprio allora conquistava coppe e scudetti.

Una ventata di nuovo made in USA che col videomessaggio della “discesa in campo” del 1994 travolse la politica italiana reduce dallo tsunami di Mani Pulite. Quell’onda devastante che investì il sistema politico nato nel dopoguerra, squassando la Prima Repubblica, il Pentapartito, e ciò che rimaneva della democrazia di massa. Ma soprattutto quell’onda che la sinistra dell’epoca non vide arrivare.

Una sinistra, appena uscita dalle macerie del Muro di Berlino e dalla Svolta della Bolognina, che non si avvide di ciò che si muoveva nelle viscere del paese, e che a un certo punto quell’onda pensò persino di poter cavalcare al grido di ‘Viva la società civile, abbasso la partitocrazia’ (questo più o meno il motto della “gioiosa macchina da guerra” occhettiana che andò a sbattere contro la gioiosa macchina di voti berlusconiana). Un calcolo sbagliato perché non considerava il rischio che assieme all’acqua sporca della partitocrazia si sarebbe finito col buttare via anche il bambino, ovvero i partiti. E soprattutto sbagliato, perché non teneva conto del totale rigetto della politica da parte degli italiani. Che a quel punto non sentivano più il bisogno di corpi intermedi (dai quali, secondo molti nostri connazionali, ormai proveniva solo un insopportabile puzzo di marcio) ma di un uomo della provvidenza. Un leader. Che avrebbe liberato l’aria da quel puzzo. Ma che al contempo avrebbe reso d’un colpo preistorica, in un clima di depoliticizzazione già montante, la funzione di mediazione dei partiti tra società e politica.

Da lì, almeno un ventennio a farsi dettare l’agenda da quel leader. Che anche se non veniva nominato, come s’impose di fare Veltroni durante la campagna elettorale del 2008, era sempre presente, in quanto perno del quadro politico nazionale. Un centro di gravità permanente, potremmo dire, attorno al quale una sinistra in disarmo che aveva largamente rinunciato a qualsiasi forma di pensiero e d’alternativa non poté che risultare perdente. Soprattutto sul piano dell’egemonia culturale, che registrò il trionfo delle televisioni – capaci di plasmare l’immaginario collettivo dall’imprenditore del Nordest all’operaio della Fiat passando per la casalinga di Voghera – su ogni residuo intellettualismo. Ma anche sul piano politico: dove l’ubriacatura neoliberista del fronte progressista produsse una sorta di spinta emulativa. A cominciare dalle regole del gioco democratico, che prevedevano la scelta maggioritaria con approdo ad un sistema bipolare (già compiuta con la legge del ’93 per l’elezione diretta dei sindaci), e il rafforzamento del potere esecutivo a scapito, evidentemente, di quello parlamentare. La deregolamentazione del lavoro, la privatizzazione di beni e attività pubbliche e i tagli al welfare, figlie di quella stagione a cavallo del secolo chiamata globalizzazione, che pure ebbe molti estimatori tra ex e post comunisti. La sostanziale condiscendenza verso uno strisciante processo di revisionismo storico sulla Resistenza. L’istituzione dei Centri di Permanenza Temporanea, dove dal ’98 si cominciò a rinchiudere gli immigrati, aprendo così la strada ad una stagione di politiche improntate al securitarismo. E poi la riforma del Titolo V della Costituzione, in cui era possibile vedere i prodromi dell’autonomia differenziata. La progressiva aziendalizzazione di scuola, università e sanità. Fino al Jobs Act con la definitiva abolizione dell’Articolo 18. Senza dimenticare la partecipazione militare alla “guerra umanitaria” in Kosovo, con il tremendo bombardamento di Belgrado, che anticipò di alcuni anni le guerre americane per la “libertà duratura” contro il terrorismo appoggiate dai governi di centrodestra (ma presto sostenute in maniera bipartisan da quasi tutta la politica italiana).

Mentre lo scontro tra berlusconiani ed anti-berlusconiani insomma dominava la scena pubblica nazionale, dividendo gli italiani, le scelte politiche fondamentali di chi si alternava alla guida del paese seguivano sostanzialmente una traiettoria unica. Una traiettoria dentro la quale, la sola battaglia che rimase a larghi settori della sinistra, di fronte ai processi del Cavaliere, fu quella per l’affermazione dell’uguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge, invece di quella per l’uguaglianza di ogni cittadino in una società più giusta. Salvo poi, non riuscire mai ad approvare, anche quando al governo, una legge sul conflitto di interessi.

Berlusconi, si è detto, aveva intuito che la pubblicità, il marketing, in una società dove tutto è merce, dove l’immagine conta più di ogni altra cosa, era destinata a diventare l’anima della politica post-ideologica. L’anima del potere, persino.

Ma se la sinistra italiana non avesse venduto la sua di anima, forse sarebbe stata un’altra storia.

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