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Siamo andati a letto presto


4 Lug , 2023|
| 2023 | Terza Pagina

“È il tuo modo di vendicarti?” – chiede Max.

“No. È solo il mio modo di vedere le cose.” – risponde Noodles

Nel 1988 Sergio Leone tenne una lunga conversazione con gli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia. Sono quasi due ore folgoranti: parlando di C’era una volta in America, non solo emerge uno spaccato straordinario sull’arte cinematografica, ma  – come spesso capita con quel film-icona, con il quale in tanti ci siamo identificati, senza smettere mai di ragionarne – è come se ci venissero per l’ennesima volta offerte le chiavi di un film-mondo, entro il quale ritrovare la scissione tra realtà e sogno, la forza della memoria e il rapporto tra potere e amicizia, il senso della temporalità che forgia la nostra stessa esperienza e il sentimento della nostra soggettività. Consiglio a tutti di vederla, così come quelle, tra le altre, di Marcello Mastroianni e Monica Vitti, che sono adorabili e sprizzano intelligenza, humour, semplicità, stile.

Perché ancora continuiamo a specchiarci in Noodles e Max? E perché quella storia di gangsters sembra la storia più universale che sia mai stata raccontata? Com’è stato possibile che un romano di Trastevere abbia colto, con quell’inquadratura sul Manhattan Bridge a Dumbo, l’Immagine definitiva, dell’America sì, ma anche del perenne bisogno di un Grande Racconto (precisamente ciò che ci manca, oggi)? E cosa c’entra con il potere, quella storia la cui realizzazione cinematografica divenne un’ossessione per Leone, tanto che la sua genesi è leggendaria quasi quanto il film (cfr. il recente volume che ne ricostruisce la complessa vicenda: P.Negri Scaglione, Che hai fatto in tutti questi anni. Sergio Leone e l’avventura di «C’era una volta in America», Torino, Einaudi, 2021)? Proverò a condividere alcune riflessioni scaturite dalla visione di quella lontana lezione di Leone, che mi hanno offerto lo spunto per tornare sull’ambiguità mai sciolta di C’era una volta in America (che è più di quello che racconta) e del suo enigmatico e meraviglioso finale (l’ultima inquadratura – il sorriso di De Niro – è una scheggia di spirito assoluto). Per Leone il cinema è sogno, cioè racconto di una realtà trasfigurata: addentrarsi nel mistero del tempo attraverso la malia delle immagini (quelle stesse che ci appaiono in sogno: quindi quando andiamo al cinema è come se sognassimo, e quando sogniamo in qualche modo stiamo assistendo inconsapevoli al nostro cinema interiore). Tutto ciò ha implicazioni politiche e antropologiche non da poco, perché intercetta potenze inconsce, tanto individuali quanto collettive. Soprattutto in certi Paesi – come il nostro, ma anche come gli USA –, nei quali la popolazione sa, sente che esiste una storia oscura del potere su più livelli, e che tale opacità è ancora ben presente, condizionante, e soprattutto indicibile. La storia raccontata in C’era una volta in America ne è in qualche modo la conferma mitopoietica.

Se il cinema è mito, è anche, inevitabilmente, la preservazione (o la ricerca) di una realtà alternativa. Quella di Noodles, che rimane fedele a ciò in cui vuole credere, anche se la sua non è la vera realtà dei rapporti di potere, palesemente insostenibile. Max, che lui ha amato, lo invita ad aprire gli occhi, a riconoscere la realtà del senatore Bailey (Max ha capito che la vita è trasformazione, e perciò accetta di violare il patto sacro con l’amico). Deborah, che forse conserva dentro di sé la memoria remota dell’amore negato per lo “scarafaggio”, cioè il giovanissimo Noodles, invece lo invita a uscire di scena, a scegliere di non conoscere. Perché chi sa soffre.

Quindi Noodles non si inventa, nella fumeria d’oppio, una spiegazione che lo assolva dal senso di colpa, ma semmai intuendo quasi sciamanicamente, grazie all’oppio, ciò che il tempo rivela, attraversandone la porta, sceglie di tenersi stretta la sua realtà di perdente. Quel sorriso è l’adesione quasi fanciullesca a una realtà favolistica e anarchica, sottratta alle logiche del potere reale, prosaico. L’unica realtà accettabile è quella della fedeltà giovanile alle proprie promesse, che mantiene liberi. Anche se la realtà gli scorre accanto, complessa e ambigua, anche se non ha potuto far altro che andare a letto presto la sera (anzi, proprio per questo), è impossibile non provare un’infinita tenerezza per Noodles, identificarsi in lui, appunto perché anti-eroe. Il cinema è un modo per velare la realtà, che altrimenti sarebbe inaccettabile, e allo stesso tempo per alludere al suo volto deturpato. Tutto è stato sognato, e proprio perciò è vero.

L’ossessione di Leone era anche il suo limite: l’America come luogo del sogno, cioè del cinema, e Grande Semplificazione. Che consente una visione delle relazioni di potere e di ciò che è intimo, autentico in noi molto netta, e allo stesso tempo antiretorica. Limite grandioso, che lo rende iconico. Però spiega perché il suo cinema sia accuratissimo, esteticamente pregevole, ma favolistico, apparentemente senza complessità storico-politica (ma la cosa è voluta). Ciò che conta è il mito del gangster come anarchico, uomo che risponde solo a se stesso e ai suoi amici/complici. Esattamente come nel western di Leone, svuotato e reinventato al di fuori di ogni retorica (che era invece tipica dei film precedenti del genere), in cui la realtà si svela nella sua asprezza e brutalità, e il buono è forse meno buono di come sembra e il cattivo non del tutto cattivo (e certamente non il solo).

Forse per questo Leone non capisce la grandezza di Lancaster nel Gattopardo. O perlomeno sembra assolvere gli americani che non la capiscono (come emerge esplicitamente dalla conversazione con gli allievi del Centro Sperimentale). L’americano deve essere americano, il siculo siculo: non c’è pedagogia possibile, immedesimazione culturale, non si può impersonare quanto ci è estraneo. Se il cinema è favola, e l’accesso a quella sorta di iper- o surrealtà che il cinema consente è tutto ciò che conta, la dimensione tragica, ma mediata, della politica e della storia (ma anche dell’arte drammatica) non conta, o perlomeno sta sullo sfondo. Anche perché il tempo non è lineare. Il conflitto non è tra destini individuali e collettivi, come in Visconti (e in Verga, Tomasi di Lampedusa), ma tra icone di un tempo transtorico, archetipi, forse ombre cinesi. Epos, non storia. Ma in questa assenza di dialettica c’è sì un impoverimento, se si vuole (ad esempio rispetto alla profondità storico-romantica di Visconti), ma anche una scarnificazione lirica che funge da denuncia, da svelamento per riduzione all’Origine e all’Elementare. Un gesto metapolitico e antimoralistico, che di fronte alla realtà a-dialettica e allo stesso tempo non sognabile, cioè non riscattabile neppure in sogno, attuale, acquisisce una valenza politica premonitoria. È rimasto solo Max, in questo Occidente umbratile. Anzi, il camion dell’immondizia che, forse, l’ha inghiottito. Leone probabilmente aveva intravisto tale esito, e si era rifugiato con Noodles nella fumeria d’oppio, cioè nella realtà immaginata e custodita dal sogno del cinema.

Mi correggo: chi è rimasto è il senatore Bailey (Max è svanito nella memoria di Noodles). Il neoliberismo (che in tale contesto uso in senso estensivo, come simbolo del traviamento dall’interno della modernità occidentale) ha moltiplicato all’infinito quelli come il senatore. Ma probabilmente Leone direbbe che è la logica disumanizzante di ogni potere, che la corruzione si modernizza, facendosi sistema, corrompendo i sindacati, proprio dopo il proibizionismo, che il dominio strutturale del denaro e del consumo spazza via anche i vecchi gangster, che laddove vige l’irresponsabilità del potere eretto a dispositivo di ripulitura di ogni nefandezza è vano ipotizzare argini o mediazioni, così come ogni fedeltà alla philia: ecco l’origine dell’elemento adialettico, anarchico e apolitico di Noodles (e del film stesso, quasi pasoliniano in questo, seppur in tutt’altro stile). 

Siamo andati a letto presto la sera, in questi ultimi trent’anni (ma, a ben vedere, la cosa è iniziata prima, il 9 maggio del 1978). Vivendo una vita che non era la nostra, la realtà ci è scorsa accanto. Se, come Paese, riceveremo un biglietto inatteso (come, nel film, quello che riceve Noodles), accetteremo la decadenza come inesorabile, aderendovi, o saremo capaci di riattivare una dialettica storica del “politico”, con tutti i prezzi che bisogna essere disposti a pagare? Di sicuro, quello che è stato possibile a Noodles, e in fondo con lui anche a Sergio Leone, che ne aveva una consapevolezza dolorosa, lancinante – rifugiarsi romanticamente nella memoria di ciò che abbiamo sognato, dell’Origine perduta, e nel mistero proustiano del tempo -, è da una parte la tentazione più grande, dall’altra un’operazione sempre più difficile. Del resto, tra lo stato di natura dopo la civilizzazione che l’Occidente americano ci impone, e il gattopardismo della nostra antica storia, forse la vera alternativa “progressiva” sarebbe quella del finale gramsciano di Rocco e i suoi fratelli, che ipotizza un sogno a occhi aperti di emancipazione sociale che, seppur in modo complesso, senza cancellare le ferite, sia in grado di trascendere la rovina dei destini individuali, recuperando radici culturali popolari ed edificando nuove appartenenze collettive moderne.  Peccato che quel finale, pur commovente e motivante, sia la parte più caduca di quest’altro capolavoro del cinema italiano.

Voglio pensare che uscire dalla fumeria d’oppio sarebbe possibile, e non troppo azzardato. Certamente, ne è venuto il tempo.

Di:

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