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Eclissi dello scopo istituzionale (da Valditara a Montanari)
Scuola e Università sono, tecnicamente, delle istituzioni: da noi sono (fortunatamente) in larga maggioranza pubbliche. Ora qualunque istituzione pubblica ha un suo proprio scopo o finalità (istituzionale appunto). Sarebbe bene non dimenticarselo; e non dovrebbero mai dimenticarselo le persone che siano ai vertici delle istituzioni. Ancor prima queste persone dovrebbero avere piena cognizione dello scopo o fine dell’istituzione (pubblica) che governano o contribuiscono a governare. Può non piacere questa postulazione di rigore; ma il diritto – che mediamente piace poco ai dirigenti politici o ai titolari di alte cariche – è questo ed è funzionale a realizzare un certo ordine oggettivo e non quello che soggettivamente sia gradito a questi stessi dirigenti o titolari.
Ma qual è lo scopo delle istituzioni deputate alla cura dell’istruzione pubblica? La risposta è già nella domanda; però non basta enunciare, occorre agire affinché sia impartita, di massima ai giovani, la miglior istruzione possibile nel contesto politico-costituzionale corrente. Ciò esige che non vi sia contraddizione insanabile tra docenti, programmi, organizzazione da una parte e fondamentali di una repubblica democratica, dall’altra. Ciò implica, per esempio, che le idee possono, anzi devono, esservi tutte, o quasi, rappresentate, senza discriminazioni, cioè paritariamente. Ma ciò implica anche – è un altro esempio – che le istituzioni deputate all’istruzione debbono adeguatamente istruire: fornire effettivamente sapere, corredare culturalmente chi non lo sia (e per questo va a scuola o all’università); e siccome sia nelle scuole che nelle università è obbligatorio valutare, ci si attende che queste valutazioni ci siano, valutazioni serene e imparziali, ma irrinunciabili, valutazioni sulla quantità e qualità di sapere assimilato (e, naturalmente, ciò implica anche la valutazione dei docenti e dei programmi che debbono essere essi stessi funzionali allo scopo).
Giuseppe Valditara è il ministro in carica dell’istruzione e del merito. Non so se questa aggiunta – il merito – sia stata voluta dal ministro; ma noto incidentalmente che è perfettamente inutile se si ha presente, e se si voglia seriamente perseguire, lo scopo istituzionale. Allora quel ‘merito’ nella titolazione del ministero è più che altro uno slogan politico: in quanto tale è fuori luogo.
Per chi conosca le vicende dell’università italiana la nomina a ministro può essere apparsa incongrua rispetto al criterio meritocratico in quanto Valditara è stato l’ispiratore e il relatore della legge 240 del 2010, la legge Gelmini di riforma dell’università: una legge che ha scompaginato l’organizzazione delle nostre università introducendo regole e procedure che hanno reso ancor più macchinosa l’azione amministrativa e, in sintesi, producendo complessivamente un peggioramento rispetto alla situazione precedente.
Venendo all’oggi, l’impressione è che il ministro Valditara sembra piuttosto attento all’educazione morale degli studenti: tutta la diatriba sul voto in condotta, sulla necessità di adibire i sospesi a percorsi di rieducazione e prima ancora sulla necessità della presenza dello psicologo di classe, ma anche sul valore dell’umiliazione degli studenti quale fattore fondamentale della crescita, lasciano intendere che al ministro sfugga lo scopo istituzionale o, almeno, sia da lui avvertito come un prospetto di second’ordine.
Strano, perché da un ministro di destra e da un professore quale egli è ci si sarebbe attesi altre prese di posizione: più rigore negli studi, più valore dei voti di profitto, più vigilanza sui docenti. Insomma un’iniezione di serietà in classe a cominciare dalla scuola dell’obbligo, nel presupposto che impegnare di più i nostri ragazzi avrebbe avuto (forse) anche un effetto educativo. Per ora niente di tutto questo: l’auspicio, del ministro, di una grande alleanza fra famiglie, studenti, docenti, parti sociali, è il riconoscimento che il sistema pubblico di istruzione non ce la fa a svolgere la sua funzione istituzionale e chiama in soccorso soggetti estranei e portatori di istanze estranee e parziali rispetto all’interesse generale che la scuola deve perseguire attraverso un’organizzazione efficiente e imparziale e avvalendosi di persone responsabili, come additato dall’art. 97 della Costituzione.
Tommaso Montanari è uno storico dell’arte, presente e attivo da anni nel dibattito pubblico: incarichi vari, collaborazioni giornalistiche, comparsate televisive, prese di posizione spesso coraggiose, spesso di rottura, sempre, o quasi sempre, di parte. Studioso e intellettuale di indubbio valore, come d’altronde il ministro Valditara: entrambi parecchio ambiziosi.
Nel 2021 Montanari è stato eletto a larghissima maggioranza rettore dell’Università per stranieri di Siena. Di lui si è parlato molto in queste ultime settimane per la decisione di non esporre la bandiera italiana a mezz’asta nella sua università per il lutto nazionale deliberato dal Consiglio dei ministri per onorare la memoria di Silvio Berlusconi. Montanari ha spiegato a televisioni, radio, social, giornali le ragioni della sua scelta: ragioni che mi sento di condividere, in tutto o quasi. E allora bisognerebbe congratularsi con lui? Affatto. Ma non perché non ha voluto che la bandiera non venisse abbassata: ho appena condiviso le ragioni e per questo ritengo improvvido quanto disposto dal governo. Montanari ha sbagliato perché non si è limitato (giustamente) a non uniformarsi, ma perché ha sfruttato l’occasione per propalare, per l’ennesima volta, le sue note posizioni politiche: cioè ha fatto propaganda. E ha fatto propaganda approfittando della carica di rettore accademico (il che ha fatto fin dall’inizio del suo mandato come evidenzia la lettura della prolusione pronunciata il giorno del suo insediamento). Ma la carica di rettore di un’università pubblica (cioè funzionale alla generalità a prescindere da ogni ideologia, fatta eccezione per quelle intrise di violenza) non è assimilabile a quella di segretario di un partito o movimento politico.
Valditara, Montanari: fanno confusione e confondono. Probabilmente per passione, per difficoltà ad essere ed apparire indipendenti, anche se, aggiungerei, il ruolo di ministro è ontologicamente diverso da quello di rettore universitario (che non è politico, ma amministrativo). Comunque sia, l’esito è che l’istituzione pubblica compromette la sua identità e, dunque, il suo scopo; diventa, cioè, meno pubblica, meno affidabile, meno credibile, in una parola, devia e questo non è un bene né per la Repubblica, né per la comunità generale.
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