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Francesco Nuti o delle epoche di decadenza


7 Lug , 2023|
| 2023 | Terza Pagina

L’esistenza di Francesco Nuti si conclude nel medesimo giorno di quella di Silvio Berlusconi: di fronte alla rilevanza mediatica di quest’ultimo non vi può essere spazio, nella narrazione egemone, per un attore/regista già da tempo dimenticato – egli, così, non può che congedarsi dal mondo nella malinconia, nel silenzio, nell’oblio. Ma la sua morte, in questo modo, ci ricollega alla sua vita, e, ancora, più in profondità: ci riconduce ad un’epoca – alle forme culturali ed artistiche di una generazione. La fine di Nuti, cioè, è simbolica nel modo più paradossale: lo è proprio perché custodisce in sé una cultura fondata sull’impossibilità del simbolo.

È negli anni ’80 del secolo scorso che si consuma quel passaggio, quello scarto antropologico decisivo, dei destini della storia del mondo: la nostra eredità proviene da quella cesura. Il mondo della crisi che aveva costituito lo sfondo storico-esistenziale del primo Novecento aveva, infatti, avuto una sua parziale ricomposizione al termine del secondo conflitto bellico. Era tornata, pur nel massimo grado di conflitto sociale e politico, l’età delle distinzioni nette, delle suddivisioni, dei limiti e dei confini: il tempo dei grandi sistemi, di Hegel e di Marx, del sublime cantautorato, dei film d’autore, del movimento culturale/politico all’interno, pur sempre, di ordini e visioni del mondo ben costituite.

Poi, però, quel mondo si spezza, si schianta, o, forse, meglio tramonta: il 1977, un anno caduto anch’esso nell’oblio, segna, probabilmente, il vero spartiacque della storia del nostro paese. Cacciari riporta in scena, filosoficamente, gli autori della crisi: da Nietzsche a Wittgenstein ad Heidegger. Il nuovo mondo che si preannuncia, infatti, sembra richiedere, diverse categorie interpretative: ci si ricollega, in questo modo, al primo Novecento, ai suoi autori – quella crisi, cioè, che, in qualche modo, sembrava esser stata ricomposta, ora può riesplodere, seppur in altre forme. Andrea Pazienza, nel fumetto, è forse tra coloro che colsero meglio questo tempo di scarto, così come in ambito musicale si possono menzionare Edoardo Bennato prima (più legato a ciò che è stato) e Vasco Rossi poi (più legato a ciò che sarà): questi artisti, cioè, colsero, il tramonto e la decadenza di una cultura, riuscendo, simultaneamente, ad intravedere quella successiva malinconia che ci avrebbe accompagnato, permeando, ancora oggi, le nostre esistenze.

È su questo sfondo che nel cinema italiano, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, cominciano ad affermarsi quelli che vengono definiti, in modo improprio, i nuovi comici: da Troisi a Benigni, Da Verdone a Moretti, e quindi anche Francesco Nuti. E qui è il lato estremamente affascinante: che questa novità, cioè, parli, non possa che parlare, della fine, del tramonto – come ognuno di loro, dunque, pur nelle loro differenze, anche di rilievo (da qui l’inesattezza di questa formula tendente all’unità nuovi comici), ci parli, tuttavia, di una parte, di una sezione, di quest’epoca che declina, decade. Ritornano, quindi, la malinconia, l’allegoria, il chiaroscuro, il carattere incompiuto dell’esistenza, e quindi, ancor più in profondità, la frantumazione del Senso, la dissoluzione di una Kultur. Questi sono autori che, probabilmente, sarebbero stati apprezzati da Benjamin, o dal giovane Lukács: nuove forme, riattualizzate, di quelli che erano stati i loro studi sul romance ed il dramma non-tragico.

In questo sfondo si delinea la figura Francesco Nuti, precursore di una comicità malinconica, di quella relazione, oggi attualissima, tra ironia e disgregazione di una cultura, tra mondo chiuso e necessità di costruirsi fortezze interiori. Mediante l’esistenza, tramite, cioè, la messa in forma di vicende legate al sensibile, al biografico, all’intimo, egli, in realtà, ci ha parlato della cultura, e quindi della disgregazione, di un’epoca. Nel suo modo, sempre originale, di descrivere e raccontare relazioni – amori che sfumano, che sfuggono, impossibilitati a compiersi – è riuscito a descrivere gli scarti, i passaggi antropologici, di una società in transizione. Quel carattere incompiuto assume, cioè, in lui una sua simbologia – come se solamente descrivendo la frantumazione e le fratture si potesse comprendere ed interpretare la totalità dell’epoca. E così, la fine della sua esistenza, nel silenzio, si lega ad alcuni nuclei profondi della sua opera: frammentazione, decadenza, tramonto.

Ora, però, è arrivato, anche per noi, il momento di scavare nelle rovine, come quegli autori sopra citati del primo Novecento, di andare, cioè, alla ricerca di questi ruderi, del materiale di scarto, dimenticato: di non abbandonarci, in definitiva, a ciò che impone la narrazione egemone. Perché lì, in quegli anni, si è consumata la frattura (probabilmente lo scarto decisivo) di cui siamo eredi, e perché, forse, dunque, cominceremo a leggere meglio la nostra epoca recuperando le forme intellettuali ed artistiche di quegli anni di crisi: interpreteremo la nostra età, cioè, meglio con queste categorie apparentemente antiche, eppure attualissime (più attuali, sicuramente, di quello che oggi viene definito come massimamente contemporaneo). Qui, in questo spazio, vi sarebbe l’esempio di una relazione proficua con il passato. Fare questo, tuttavia, significa separarsi, costruirsi un fuori, divenire apparentemente inattuali – e quindi, nel profondo, attuali – fuoriuscire da quel circolo di immediatezza in cui vaghiamo: scorgere nell’oblio e nel dimenticato le scintille per un altro, e diverso, avvenire. 

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