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Lettera a Maurice Blanchot
Mio caro Maurice,
la tua scrittura del disastro (Il Saggiatore, 2021) è l’unico vero libro sulla scrittura; fa venir voglia di dare fuoco a qualsiasi manuale di scrittura creativa. Naturalmente, lo sai, la scrittura entra solo a un certo punto nell’argomentazione di carattere filosofico, da Sartre a Lévinas, per poi incontrare la poesia, la forma più antica del racconto, laddove ogni racconto è perduto. Il disastro si prende cura di tutto, mentre leggevi Goethe, Schlegel, Valéry era il disastro a custodirti. Non il pensiero divenuto folle, ma ciò che sempre porta la propria follia. Non ti ancoravi al pensiero del suicidio in quanto rifugio, sottraevi il tragico e il catastrofico disinteressandoti a ogni movimento interiore, il disastro era l’unica possibilità di entrare nella scrittura. Il disastro disorienta, è la zona neutra in cui l’io perde ogni consistenza. Il disastro è l’esposizione alla passività della passione. Non eri tu a parlare ma lasciavi in te parlare il disastro. E, così, la scrittura passa per la non scrittura, affronta il coraggio di non descrivere, di non dire, di farsi frammento. Eludevi il pensiero del suicidio poiché il suicidio sempre ti sovrastava: non ti ucciderai, il tuo suicidio ti precede. E rievocavi il rito della ripetizione non religiosa: tornando diveniva ogni volta diversa, come voleva Gilles Deleuze; il disastro è l’improprio, l’impersonale. Ciò che dicevi agli scriventi, al proliferare di storie, è che bisogna accoglierlo, il disastro, caderci dentro, solo da quel punto di non ritorno si può iniziare a scrivere, solo lì si avrà qualcosa da dire, non nella bellezza ma nel disdire, nel perdersi. Il disastro è ciò che si distende senza distruggersi, è già vivere nella morte, creare nel distruggersi, non necessita di alcuna costruzione né di alcuna distruzione. Ritorna, disastro dopo il disastro. È il limite, sottrazione a qualsiasi esperienza. È l’oscuro, porta la luce. Nel momento in cui la scrittura diventa nome si annienta, il carnaio dei nomi, dicevi, le teste mai vuote. La soglia da te evocata era il rapporto tra l’opera d’arte e l’incontro con la morte. Avvicinarsi al pericolo, venir rivoltati. Per Schlegel era il passaggio al limite, per Novalis il riposo dello spirito, il punto privo di contraddizione. Raggiungevi il non potere, non l’impotenza, ma l’altrimenti dal potere, non il delirio, ma il fuori dal solco. Si ha il potere solo a condizione di non farne uso, tale è il carattere del divino: l’astenersi, l’allontanarsi dalla gestione. Presentivi il segno del disastro, a partire da cui nulla sarebbe stato de-finito. Non ti opponevi a nulla. Colui che critica o che respinge il gioco è entrato nel gioco. Il tormento ricopre l’ignoranza, dicevi, io non sono il centro di ciò che ignoro, ciò che ignoro mi tormenta. Entravi nella magia della cabala: fai che tutto sia più di tutto e rimanga il tutto, ecco, il desiderio. La via del disastro sfocia nel non potere, nella non scrittura: non ricompensa né punizione, ma lungo cammino. Scrivere nell’incertezza, nella necessità. La passione, la non azione è l’intensità senza padronanza, senza sovranità. Si può scrivere, dicevi, solo nella decadenza del volere, scrivere dopo aver smesso di scrivere, quando si accede alla passività del nulla attendere. La gratuità, uno stato di Grazia, al di là della serietà e al di là del gioco. Ti chiedevi dove fosse la scomparsa del potere: nella scrittura o nella non-scrittura, nel vivere o nel morire, o quando il morire non ti lascia morire? La pazienza, patire e passione, in te diventava – seguendo il solco tracciato da Lévinas – farsi carico del rapporto con l’Altro, assumerlo senza dominarlo o subirlo. Nella pazienza interrompevi il legame tra te e l’io paziente. Nessun io, nessun me. La scrittura e la passività presuppongono entrambe la cancellazione del soggetto. Il patire della passione era la conversione di alcuni stati di psicosi: l’ubbidienza all’altrove, l’attesa mistica, lo sradicamento dell’io da sé. La passività è infinita e smodata, senza tempo, spazio o misura. Qui deborda l’essere al limite dell’essere, il disastro non in quanto evento ma in quanto immemorabile. Il passato vissuto come mai stato riporta in vita il presente come redivivo. Tra il medesimo e l’Altro, il rovesciamento fa sì che l’Altro sia me. La morte dell’altro perciò prefigura una doppia morte: l’Altro è la morte che pesa su di me, l’ossessione della morte. Pensavi a Jean Paul Sartre, che dell’Altro ha fatto una filosofia, un vocabolario. L’Altro era ciò che non potevi raggiungere, il Separato, l’Altissimo, il Santo di cui parla Lévinas, nella sua poetica del volto, del lontano, del ripugnante che si fa vicino, prossimo. Ancora, è Lévinas a sostituire l’idea dell’Altro allo Stesso, così come lo Stesso si sostituisce all’altro imprimendone i tratti della trascendenza. Incorporeo e distrutto, senza io, senza lacrime, debole, non opponevi resistenza al dominatore, ne facevi un altro linguaggio che attraversa il morire e non si mostra. L’ispirazione, questa lunga notte dell’insonnia in cui mediante la non scrittura lo scrittore va nell’erranza che non può avere fine, nel sogno. Chiedere allo scrittore se sia uno scrittore sarebbe tesserne l’elogio funebre, condannarlo a morte. Demolivi ciò che restava della brama di gloria, di prestigio; lasciavi il potere di donare, il dono dell’identità che si dissipa. Abbandonavi ogni compromesso, ogni sapere, ogni fede. Pensavi all’amore del giovane Werther, alla tentazione di Goethe di finir male, la tentazione di morire. L’io responsabile d’altri supera la tentazione abitando la morte, vivendo nel morire, domanda senza risposta. L’Altro non risponde. Eri nella stessa lotta di Bartelby, lo scrivano di Melville. Donandoti alla non azione sottraevi l’Uno a ogni dialettica. Solitudine che risplende, vuoto del cielo, morte differita: disastro.
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