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Come cambia l’industria
Come cambia l’industria di Vincenzo Comito è un contributo molto utile e interessante. Pur essendo fondato su una profonda conoscenza delle dinamiche reali dell’industria contemporanea, e ricco di informazioni statistiche molto aggiornate, il volume è agile, scritto con uno stile molto scorrevole e accessibile ai non specialisti.
Il lavoro si concentra su tre settori tra loro eterogenei, ma attraversati da rapide linee di movimento che hanno tra loro molti punti in comune: i semiconduttori, l’automobile e la carne. In tutti e tre il leit motiv e’ lo stesso: forte accelerazione tecnologica, ruolo fondamentale degli investimenti in R&S, gigantesche economie di scala che comportano una concentrazione industriale sempre maggiore.
L’attuale sviluppo delle tre attività, che fino a non molto tempo fa – data la loro grande eterogeneità – seguivano percorsi molto disgiunti tra loro, stia ormai convergendo verso una sempre maggiore interdipendenza intersettoriale asimmetrica, che vede l’auto e la carne (come praticamente ogni altra componente della economia moderna, tra cui anche l’agricoltura e i servizi) incorporare sempre di più le tecnologie sviluppate dall’ industria dei semiconduttori.
Inoltre, in questo settore, il più decisivo – e in misura minore in quello dell’auto – il panorama e’ dominato dalla rivalità strategica tra USA e RPC. Al contrario, il ruolo dell’Europa, già modesto fino a pochi anni fa, soprattutto a causa della imperante ideologia neoliberale e alla conseguente assenza di politiche industriali su scala continentale[1], appare destinato ad una inevitabile marginalizzazione. Le botte finali le stanno il revival del protezionismo e delle politiche industriali negli USA (all’insegna dell’America First) e l’ intensificazione della subalternità ai padroni di oltre Atlantico manifestatasi in occasione della guerra in Ucraina, che sta già causando perdite di competitività dovuti ai grandi aumenti dei costi di approvvigionamento energetico e delle spese militari. In questo contesto l’Italia non fa certo eccezione, ed anzi ha imboccato da tempo il sentiero di declino sul quale adesso sembrano dirigersi a grandi passi anche la Gran Bretagna e la Germania.
Quello dei semiconduttori è un settore di altissimo livello tecnologico, estremamente dinamico, molto intensivo in termini di ricerca e di innovazione, che produce componenti sempre più indispensabili e fondamentali per tutti gli altri comparti produttivi delle economie avanzate. Di conseguenza, i semiconduttori costituiscono attualmente il fulcro della guerra commerciale- tecnologica-geopolitica[2] scatenata dagli USA contro la Cina per tentare di strozzarne lo sviluppo scientifico e tecnologico, e mantenere così il tradizionale dominio planetario fondato sull’ordine basato sulle regole.
L’autore osserva che:
la produzione di semiconduttori è diventata da tempo ormai nella sostanza l’attività più importante che ci sia al mondo a livello industriale; essi costituiscono oggi i mattoni di base di tutta la civilizzazione numerica… I chip appaiono fondamentali per prodotti quali auto, giochi elettronici,
lavatrici, spazzolini elettrici, ma anche ovviamente le produzioni
e i servizi più sofisticati, dalla robotica all’intelligenza artificiale,
all’esplorazione spaziale, alla ricerca sulle biotecnologie; ancora,
essi rappresentano complessivamente il prodotto più scambiato
al mondo come valore dopo l’automobile e il petrolio.(p.33).
Il settore appare[3] attualmente dominato dall’Asia, con al centro la potentissima azienda taiwanese Tsmc, e con la Cina in veste di inseguitore tecnologico ancora abbastanza distanziato, che si vede costretto a correre in mezzo a un campo minato fatto di sanzioni, embarghi, e altre misure commerciali ( e a volte giudiziarie) ostili. La RPC, dal canto suo, dispone però di alcuni vantaggi strategici importanti:
- la vastità e il dinamismo del suo mercato;
- la sua capacità di produrre a costi competitivi chip di livello tecnologico medio-alto molto richiesti nella gran parte delle industrie di produzione di massa;
- la sua ampia e crescente disponibilità’ di forza lavoro relativamente a basso costo e di ogni livello di qualificazione, dagli operai specializzati agli ingegneri;
- il controllo sostanziale sulla industria delle terre rare, materiali indispensabili per la produzione dei chips.
In prospettiva, tuttavia, il vantaggio strategico più importante di cui dispone la Cina e’ il suo avanzatissimo sistema nazionale di innovazione (SNI), il più potente, vasto e dinamico del mondo[4], che le permette tra l’altro di destinare risorse sempre crescenti alla R&S e in particolare a quelle sue componenti volte ad accelerare l’innovazione indigena nei semiconduttori e in altri settori di alta priorità strategica.
Tirando le somme, dunque, Comito ritiene che
La lotta appare per molti versi incerta, ma
pensiamo … che la Cina, all’interno del continente (asiatico), riuscirà, nell’arco
di 5-10 anni, a scalare molte posizioni, come si intravede da d-versi segni, mentre, d’altro canto, l’Ue difficilmente otterrà di raggiungere tutti gli obiettivi sperati. Sembra profilarsi, a causa soprattutto della strategia Usa, una regionalizzazione sia pure probabilmente parziale del settore e
una tendenza all’autosufficienza…, Ma la demondializzazione non appare un’opzione razionale né per gli Usa né per la Cina… Si tratta di un’industria «naturalmente» integrata a livello mondiale e sarebbe, tra l’altro, molto costoso per ogni Paese mettere a punto una catena del valore nel settore completamente domestica. (p. 66).
Il settore dell’auto è il caso più rappresentativo (anche per il suo peso tuttora rilevantissimo in termini di quota di PIL e di occupazione in molti paesi industriali avanzati, e anche in virtù di fattori immateriali legati alla sua valenza simbolica centrale nell’immaginario collettivo come archetipo del sogno americano e delle potenzialità libertarie e progressive del capitalismo) di una industria considerata da molti, a torto, come matura e decadente, ma che in realtà è nel pieno di radicali trasformazioni tecnologiche e di enormi rivolgimenti strutturali.
Dal punto di vista dei rapporti di forza, il mutamento strutturale più evidente è costituito dal protagonismo della Cina…
diventata più di recente e di gran lunga il principale mercato e il più grande produttore
del mondo; le cifre per il 2021 registrano 26,1 milioni di auto
vendute nel Paese, con un incremento di circa il 4% rispetto al-
l’anno precedente, contro 9,2 milioni negli Stati Uniti e 16,3 mi
lioni considerando tutti i Paesi europei…. i produttori cinesi hanno avuto
molti difficoltà, all’inizio, a conquistare delle quote importanti del
mercato nazionale …e sono riusciti a superare parte delle dif
ficoltà inserendosi con un certo successo nella fascia delle vetture
economiche e poi dei suv, mentre ora l’arrivo dell’elettrico le ve
de esercitare un nuovo, molto più importante, protagonismo, con
un dominio quasi assoluto nel comparto. (p.79)
L’elettrico pare rappresentare il futuro dell’auto a livello mondiale, grazie a una serie di vantaggi economici ma soprattutto ecologici rispetto alle auto tradizionali[5]. L’attuale dominio cinese e’dovuto a alla applicazione di politiche industriali lungimiranti e fortemente interventiste, tra cui l’obbligo imposto a tutte le aziende di produrre automobile elettriche o ibride in percentuali sempre crescenti, e la promozione del comparto delle batterie. Proprio il ritardo ormai accumulato nel campo delle batterie pare indicare che la tardiva reazione interventista di Biden[6] sia destinata all’insuccesso.
L’autore esamina anche il caso di Stellantis, nata nel 2021 dalla fusione tra la francese Psa e il gruppo italo-americano-britannico-olandese Fca. L’autore osserva come i francesi godano di una posizione dominante, e che l’operazione ha salvato i produttori da quella che altrimenti sarebbe stata una morte certa. Tuttavia, le prospettive del nuovo gruppo appaiono comunque assai problematiche. Dal punto di vista dell’interesse nazionale, sarebbe necessaria una partecipazione del governo italiano nel capitale di Stellantis, ma questa prospettiva appare remota, tenendo conto della perenne indigenza dello stato europeo che più di ogni altro promuove l’evasione fiscale e anche dell’orientamento ideologico del presente governo.
Il terzo settore, quello della carne, non è nemmeno considerato comunemente come industriale in senso proprio. Tuttavia, da attività tradizionale e antichissima prettamente legata alla terra e al settore primario, con ritmi e operazioni quasi immutati da millenni, il settore della carne si e’ trasformato in una attività agroindustriale fortemente capitalizzata e concentrata, e (in alcuni comparti) altamente tecnificata:
…secondo le statistiche della Fao, più del
50% della superficie agricola mondiale è occupata oggi da unità
produttive dalle dimensioni di più di 500 ettari, mentre quelle infe
riori ai due ettari rappresentano l’87% delle stesse, ma occupano
soltanto il 12% della superficie agricola. In Francia nel 1970 si
contavano 1,6 milioni di unità produttive, mentre nel 2020 non ne
restavano che 389.000 e il processo va ancora avanti … (p. 134).
Negli ultimo decenni la produzione e il consumo di carne sono molto aumentati (soprattutto in Cina, dove ancora negli anni ’70 l’accesso della popolazione a proteine animali era minimo). Tuttavia, grandi fasce della popolazione mondiale ne sono ancora in gran parte esclusi, con gravi conseguenze sulla malnutrizione e sulla salute dei bambini in particlare.
D’altra parte, l’aumento ulteriore della produzione di carne si scontrerebbe con evidenti limiti fisici ed ecologici, soprattutto nel caso dell’allevamento bovino. Le nuove tecnologie consentono alcuni guadagni in termini di efficienza e produttivita’, ma non rappresentano una panacea. Inotre la produzione di carne, anche grazie ad alcune sue caratteristiche tecniche, comporta in molti casi forme estreme di sfruttamento e mancanza di elementari misure di sicurezza per i lavoratori, anche in paesi del Nord globale come gli USA e l’Italia.
Vengono quindi proposte delle alternative, dalla conversione universale al vegetarianismo alla produzione di nuovi alimenti artificiali, sorta di “pseudo-carni” ottenute processando cellule animali o vegetali. Qualche passo avanti e’ stato fatto, ed alcune aziende di discrete dimensioni si sono affermate sul mercato in alcuni paesi. Tuttavia, questi risultati embrionali sono ancora lontani dall’avere un impatto globale significativo, e si scontrano a loro volta con la contraddizione di essere basati (almeno per ora) su tecnologie inquinanti e dispendiose, che spesso forniscono alimenti ultra processati e perciò poco sani. Ogni progresso e’ reso più difficile dalla presenza di corporazioni potentissime che usano ogni mezzo per continuare l’andazzo basato sulla depredazione della natura e lo sfruttamento dei lavoratori piu’ marginali, dalle pistole degli assassini brasiliani ai lobbisti molto attivi nei parlamenti nazionali ed europei.
Nelle conclusioni l’autore osserva che le grandi trasformazioni attualmente in atto rappresentano una transizione verso un futuro incerto, in cui si palesano anche
rilevanti minacce a livello tecnologico, sociale, lavorativo, ambientale, politico (p.29)
soprattutto a causa del crescente controllo esercitato da piccoli gruppi di capitalisti e dalla emarginazione di molte categorie di lavoratori.
Di fronte a questa situazione poco incoraggiante, non si può non concordare con Comito quando conclude che di fronte a queste sfide epocali
è richiesto, pena il fallimento, un più forte, e in alcuni casi decisivo, ruolo dei pubblici poteri a livello nazionale e internazionale. (p.30).
[1] Con qualche eccezione, ad esempio l’Airbus.
[2] Per adesso, non militare, ma la situazione potrebbe cambiare molto presto.
[3] Naturalmente, in realtà, senza nulla togliere al ruolo decisivo svolto da decenni di efficaci politiche industriali nazionali, l’eccellenza tecnologica delle industrie taiwanesi (e, in misura minore, di quelle coreane e di altri paesi asiatici) va vista in termini globali come una componente della complessiva strategia egemonica della superpotenza USA.
[4] Vedi Gabriele 2020. Il fatto che il SNI cinese sia il più avanzato del mondo non significa che la Cina abbia già un rango assolutamente dominante in termini tecnologici e di innovazione globali , anche se questo e’ effettivamente il caso in alcuni settori importanti, come le ferrovie ad alta velocità’ e la maggior parte delle attività legate alle energie rinnovabili.
[5] Questo non significa, naturalmente, che le auto elettriche costituiscano una soluzione ottimale da un punto di vista ambientale. E’ però plausibile che la tecnologia del settore possa evolvere in senso più ecocompatibile nei prossimi anni.
[6] Comito cita il presidente, che ha dichiarato “Noi non lasceremo che essi vincano questa gara” (p. 82).
Riferimenti
Vincenzo Comito, Come cambia l’industria, Futura 2023
Alberto Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China –
Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, Springer, 2020
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