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Ricordo di un maestro. Esistenza e filosofia in Mario Tronti
Quando se ne va un grande pensatore è sempre difficile, nel ricordarlo, decidere da dove cominciare, da quale corno afferrare il discorso: quella relazione, spesso conflittuale, tra vita e opera che attraversa l’esistenza del grande filosofo si ripresenta, infatti, anche nella sua fase conclusiva, alla morte, quando sono gli altri a dover parlare per lui. Il giovane Lukács, ricordando il suo più caro amico, il critico d’arte Leo Popper, morto in giovane età, scriveva che ‘egli, della sua vita, lasciava solamente frammenti’: decisivo nell’esistenza di quest’ultimo, infatti, era sempre stato il problema dell’opera, della forma e questo, quindi, doveva essere anche il suo lascito più duraturo. Forse, però, per l’occasione di questo scritto, proprio prendendo a prestito la metodologia dell’autore trattato (una metodologia trontiana, potremmo dire), questi due ambiti, quello della vita e quello dell’opera, dovrebbero legarsi, compenetrarsi: come se essi, pur nella rigorosa distinzione che attiene a livelli differenti, dovessero, anche nel ricordo, richiamarsi a vicenda. D’altronde, entrando nell’oggetto, Tronti non si sarebbe mai considerato un filosofo puro: al fondo delle sue riflessioni teoriche vi era sempre il problema del ‘che fare‘ all’interno della contingenza storica.
Spesso, inoltre, era lui stesso a parlare dell’importanza di andare a cogliere gli aspetti esistenziali degli autori trattati: il problema dell’esistenza, dell’antropologia, nell’ultimo periodo, stava divenendo uno dei suoi nuclei teorici più rilevanti. Sosteneva, infatti, che il capitalismo stava assorbendo l’intero essere umano – costituendosi, cioè, come l’unica forma di vita possibile – e, allora, pensiero rivoluzionario e filosofia dell’esistenza dovevano stringersi sempre di più. Per ricostruire un nuovo terreno di scontro, cominciava a divenir necessaria, innanzitutto, la costruzione di un’antropologia antagonista (eretica): Marx, e quindi Lenin, divenivano così inscindibili dal problema Dostoevskij. Solamente da un tempo inquieto sarebbe potuto sorgere, di nuovo, un orizzonte conflittuale: la rivoluzione russa del 1917 insegnava.
Era questo, inoltre, il motivo per cui era alla ricerca di pensatori inquieti, non -convenzionali, che si esponessero al limite: vivere a fondo la crisi, non eluderla, questo è stato uno dei suoi moniti. In un’epoca che tendeva (e continua-a-tendere) all’omologazione, si appassionava alle antropologie residuali, liminari: opposizioni spontanee al corso della storia, alla ricerca di una forma antagonista. Questo, tuttavia, non significa che egli parteggiasse per l’illimitato, per il colpo di pistola o lo stile barocco: il pensiero della crisi, infatti, era inscindibile dalla questione del rigore. Quanto più si saliva nel pensiero, quanto più si anelava a destrutturare (e distruggere) il mondo delle convenzioni, tanto più divenivano importanti metodo ed analisi scientifica: la logica, cioè, era necessaria anche, e soprattutto, nel momento in cui il tempo storico rigettava i sistemi definitivi. La sua anima probabilmente è stata sempre quella del saggista – un pensiero rigorosamente coerente che, tuttavia, poteva solo anelare alla compiutezza: sulla scia di quell’ultimo tempo storico che gli è toccato vivere.
Così, il suo pensiero maturo si strutturava in modo dualistico: in esso, infatti, si tenevano insieme elementi apparentemente antitetici – contemplazione e combattimento, antagonismo e spiritualità. Una struttura composita, impossibilitata ad una sintesi definitiva, che era, innanzitutto, una risposta alla contingenza: una scelta di vita, potremmo dire, prima ancora che intellettuale. Al fondo, infatti, vi era quella ricerca/tentativo liminare di poter-sopravvivere in un contesto storico avverso – da qui il problema, in Tronti sempre più insistente, dell’interiorità, della spiritualità, della necessità di costruire fortezze interiori – senza, tuttavia, abbandonare mai quel punto di vista conflittuale, antagonistico, la cifra fondamentale del suo pensiero. Amava ricordare quel passaggio della Bahagavita: “preparati alla guerra con la pace nel cuore”.
Il Nemico era la forma di vita borghese: questa è sempre stata la guerra da combattere. La nuova società che anelava a costruire avrebbe dovuto, innanzitutto, significare la configurazione di un altro modo di stare al mondo. Questo era il suo vero metro di distinzione, anche nelle relazioni private: Tronti, infatti, non ha mai smesso di distinguere, non ha mai perduto la memoria di ciò che è essenziale. Combatteva, in un modo tutto suo, quotidianamente, contro la cultura estetica che stava imperando: ‘odiare con tenerezza’, scrisse in uno dei suoi ultimi saggi. Ci si trovava immerso in questa cultura, essendo essa ormai divenuta la forma-mondo, e, pur tuttavia, la rigettava: provava, cioè, tra mille difficoltà, ad esserne dentro e contro. Detestava, quindi, quei circoli specialistici che esaltavano il suo pensiero barbaro per mero principio di autorità: Tronti criticava simultaneamente il divenire di moda quanto la fascinazione per il voler rimanere minoranza – il suo problema, piuttosto, è stato sempre quello dell’egemonia, della costruzione di un’antropologia politica alternativa, che avesse la forza, nella durata, di resistere agli attacchi esterni. Comprendeva, però, che quella cultura estetica stava assorbendo tutto, che, cioè, si era rimasti in pochi, tendenti alla sparizione, egemonizzati da categorie che non sono le nostre, costretti a pensare con pensieri che non sono i nostri.
Anche per questi motivi, nell’ultima fase della sua riflessione, guardava costantemente all’indietro, in direzione del grande Novecento: l’epoca presente, senza apparenti vie di uscita, necessitava, infatti, che si andasse alla ricerca nel passato di frammenti di futuro. Nostalgia dell’antico ed anelito di un diverso avvenire si stringevano, sempre più, nella sua filosofia: un pensiero costantemente alla ricerca di inneschi, nuove bombe, che potessero rimettere in moto il processo rivoluzionario. Era, e si dichiarava, profondamente, un uomo del ‘900, ma il suo spirito è rimasto giovane, mai stanco, fino al termine della sua esistenza. Si appassionava conseguentemente agli studenti in formazione, a cui tutte le possibilità erano ancora aperte – in essi ritrovava embrioni di futuro che riguardavano la sua stessa storia: la guerra, ed il conflitto, infatti, sarebbero potuti tornare, e allora bisognava attrezzarsi intellettualmente, umanamente a una guerra di lunga durata. Si rivolgeva agli studenti che incrociava nel suo cammino in questi termini: ‘quando gli operai entravano in sciopero, dicevano: dureremo un minuto in più del padrone. Così bisogna fare’. A dimostrazione di come gli occhi fossero rivolti all’indietro, ma il corpo, costantemente, spinto in avanti.
Riguardo, ora, la memoria futura dello stesso Tronti, bisognerà lottare affinché egli non venga assorbito, interamente, dalla cultura estetica: che non diventi, cioè, un autore di moda, depurato. Dalla sua opera non si dovranno, quindi, estrapolare frasi ad effetto o belle pagine: si dovrà, piuttosto, seguire il filo logico del suo pensiero, assumendolo nella sua forma dura. Il suo era un pensiero barbaro, anche se metodico (ritorna l’anima saggistica), ed in questi termini dovrà esser studiato.
Lukács, in un passaggio giovanile all’interno del saggio intitolato Cultura estetica, scriveva a proposito della possibilità incarnata dal comunismo: ‘la speranza che sopraggiungano dei barbari i quali mandino brutalmente in frantumi tutte le raffinatezze’. Questo passaggio, probabilmente, è anche una delle summe del complesso pensiero di Mario Tronti: quel ‘comunismo come forza barbara’ a cui egli, nel corso di tutta la sua esistenza, ha tentato di legare il suo alto pensiero.
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