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Fuga da Barbieland. Come Barbie ci insegna a liberarci dalla vita di plastica
Il film di Barbie è straripante e fa rumore. Molto più del previsto, tanto da essersi trasformato in un vero e proprio momento culturale. Un risvolto decisamente inaspettato per un brand movie, ma non così assurdo se consideriamo che la regista (e co-sceneggiatrice) è Greta Gerwig.
Quello di Gerwig è un film molto ambizioso anche se tutt’altro che perfetto. Affronta molti temi impegnativi, forse troppi: l’impatto negativo di Barbie sugli standard di bellezza, le contraddizioni di Mattel, il cinismo del capitalismo che spreme dollari dalle insicurezze delle persone (persino la felpa di Ken è stata prontamente messa in commercio), e poi il patriarcato come sistema di potere, la mascolinità tossica, le difficoltà di essere donna e anche le difficoltà di essere uomo, l’assurda condanna di chiunque, uomo o donna che sia, non raggiunga il successo. Il tutto cercando di non prendersi troppo sul serio.
Insomma, l’impressione è che Gerwig, di fronte all’opportunità di lavorare sulla bambola (e lo stereotipo femminile) più famosa del mondo, non abbia saputo scegliere. Il risultato è un film ipercinetico e un po’ confusionario, con qualche difetto di trama e alcuni personaggi senza una reale collocazione.
Malgrado ciò, l’opera rimane godibilissima, divertente e brillante. Soprattutto nella rappresentazione del sistema simbolico maschilista che impregna la nostra società (grattacieli, punching bag, cavalli, macchinoni: “Maschio! Maschio! Maschio!”). È un film innegabilmente, e meritoriamente, femminista che però non cede alla tentazione di demonizzare gli uomini. Piuttosto, concentra le sue attenzioni sulla condizione umana.
Come in molti suoi film precedenti (Lady Bird, Piccole Donne, Frances Ha, Mistress America), Gerwig tenta di raccontare i rapporti intricati tra la nostra identità, la nostra immagine, i ruoli e le norme sociali. Tra il sé e l’immagine di sé: percepita, inseguita, imposta, raccontata, millantata.
Questa volta però, prova ad andare più a fondo ed esplorare il tema del risveglio spirituale. Così, velo dopo velo, maschera dopo maschera, Gerwig affronta i problemi sociali legati agli stereotipi di genere, il loro impatto sulla nostra identità e il nostro benessere e infine lo scollamento tra il sé e l’immagine di sé per arrivare a scoprire la nostra vera essenza. Finché Barbie, spogliata da tutte le sovrastrutture, si riscopre solo Barbara.
All’inizio troviamo Barbie intrappolata a Barbieland, in un eterno presente in cui ogni giorno si ripete uguale a sé stesso. Lei però è del tutto inconsapevole della sua prigionia dorata e anzi, si è auto-convinta di vivere “Il miglior giorno di sempre, come lo era ieri, lo sarà domani e dopodomani e persino i mercoledì e ogni giorno da oggi e per sempre”. Life in plastic, it’s fantastic.
Gerwig ci offre subito uno spunto di riflessione: l’alienazione non è per forza grigia, triste e amara (la deprimente vita d’ufficio spesso raffigurata nel cinema) ma può anche essere, e spesso è, rosa, allegra e zuccherosa.
Un sottile velo di gioia glassata nasconde ai suoi occhi la totale mancanza di significato della sua esistenza. Un teatro dell’assurdo destinato a riprodursi senza senso poiché senza tempo. E infatti è proprio l’improvvisa emersione del tempo a dare una direzione a Barbie. “Gli irrefrenabili pensieri di morte” squarciano il velo del suo mondo artificioso, costringendola a prendere coscienza dello scorrere del tempo e di tutto ciò che ne consegue.
“Felt so alive, turns out I’m not real”
– Billie Eilish, What was I made for?
Gerwig, ovviamente, usa Barbie e la metafora della bambola per parlare di noi. La vita di plastica è la nostra vita. Viviamo in una società che ha rimosso la morte facendone un tabù. Una rimozione ben illustrata dalla reazione delle altre Barbie, raggelate dal tentativo di Barbie di condividere i suoi pensieri di morte.
Eppure se l’autocoscienza è ciò che ci rende umani non possiamo definirci davvero umani se non prendiamo coscienza della nostra finitezza. In questo senso sapere di morire (non in astratto, ma in concreto) è precisamente ciò che ci rende umani. Il rifiuto della morte ci riduce al rango di automi, o poco più. Una società senza morte non è altro che una società di plastica, una simulazione, che possiamo chiamare Matrix oppure Barbieland. A Barbieland siamo tutti bambole di plastica e, anzi, siamo tutti la stessa bambola. Con qualche superflua variazione sul tema, spesso relativa alla nostra professione: Barbie astronauta, Barbie giornalista, Barbie avvocato. O Ken turista, Ken surfista, Ken dentista. Ma restiamo tutti invariabilmente Ken e Barbie, bambole senza reale identità, tutte uguali, sovrapponibili, intercambiabili. Gusci vuoti che vivono ogni giorno meccanicamente la stessa vita di plastica.
E quindi la morte, ripristinando la necessaria prospettiva, diventa il motore della vita. L’intera proiezione dell’ologramma zuccheroso e depensante di Barbieland comincia a vacillare: Barbie non fluttua più, i suoi piedi tornano letteralmente per terra e crolla anche l’ideale di bellezza da lei incarnato con la comparsa della temutissima cellulite.
Entra in scena Barbie Stramba, una bambola già risvegliata che conosce le regole di Matrix e proprio per questo viene emarginata e derisa. Barbie Stramba offre a Barbie una scelta: pillola blu o pillola rossa, scarpa col tacco o sandalo Birkenstock.
La simbologia della scarpa è divertente ma anche azzeccata. Con quale calzatura vuoi camminare su questa terra? Quella che ti costringe in un’immagine stereotipata di bellezza e ti riduce ad un oggetto che deve essere anzitutto bello? Oppure quella comoda, più adatta alla vita quotidiana, benefica per la schiena e le articolazioni ma universalmente o quasi considerata anti-estetica, soprattutto su una donna? Vuoi concentrarti su di te o sull’immagine di te?
La scelta di verità, però, è complicata, dolorosa, incasinata. Pensare davvero alla propria essenza implica un’assunzione di responsabilità decisamente spaventosa. E perciò Barbie cerca inizialmente di rimettersi il velo per dimenticare e tornare all’ordinario sonnambulismo. Ma una volta aperta la porta delle domande esistenziali neanche la pillola blu può farti tornare indietro – un altro punto che Gerwig centra perfettamente – e Barbie è costretta ad intraprendere il suo viaggio per “scoprire la verità sull’universo”.
Insieme a lei, un po’ per caso, si incammina anche Ken e i due cominciano a “vedere”. Ciascuno per conto proprio, ciascuno secondo il proprio punto di vista.
Entrambi vengono a contatto con il sistema simbolico che fa da architrave alla nostra società, con le sue rappresentazioni di genere e i suoi ruoli sociali schematizzati. Barbie si scontra con l’immagine della donna (che lei stessa incarna), Ken con l’immagine dell’uomo (che vorrebbe incarnare) ed entrambi vengono schiacciati dal peso di aspettative irrealistiche e contraddittorie.
A Barbie viene data l’occasione di dimenticare tutto e tornare nella sua prigione “rosata”, rientrando docilmente nella sua scatola. Ma a quel punto, e non è un caso, ha già fatto troppa esperienza della verità e sceglie di restare sveglia, malgrado tutto.
Sia lei che Ken giungono infine a capire che il difetto non risiede nel sé ma nell’immagine del sé. Si autorizzano a non aderire a quell’immagine e ad “essere abbastanza”, così riescono ad emanciparsi dalla propria maschera sociale.
Questo però non li rende liberi. Non ancora. C’è una seconda maschera da svestire. Quella più difficile.
Se la prima era una maschera indotta da fattori esterni, quindi esogena, la seconda è invece una maschera che ha origine al nostro interno e perciò endogena.
Questa maschera è composta dall’insieme delle convinzioni che nel tempo abbiamo accumulato su noi stessi e con le quali abbiamo finito per identificarci. A ben vedere, però, queste caratteristiche sono solo un insieme di automatismi che mettiamo in atto inconsapevolmente, senza farci pensiero. Proprio come quando torniamo a casa in macchina e si attiva il “pilota automatico”.
Questo insieme di meccanismi forma la nostra maschera personale, comunemente nota come “ego”. Noi crediamo di essere il nostro ego, ma si tratta di un’illusione, di un’ennesima immagine. Una prigione che ci tiene ingabbiati dentro automatismi inconsci e ci tiene lontani non solo dalla nostra essenza, ma anche dalla libertà.
Essere “chi si è davvero”, invece, significa esistere nella consapevolezza dei nostri perché. Così, dopo aver decostruito la maschera sociale, Gerwig ci invita a decostruire, con uno slancio di consapevolezza, anche la maschera personale. Perché ci comportiamo come ci comportiamo? A quali bisogni rispondono le nostre azioni?
Questa volta la parabola è quella di Ken. Ken si guarda dentro e trova paura. Una paura tremenda di non essere cool, e quindi di non essere visto, e quindi di non essere amato e perciò di non avere valore in sé. Ha paura di non essere nulla. E perciò cerca rassicurazioni nello sguardo di Barbie.
Eccola, la motivazione profonda. Una motivazione che depurata da tutte le maschere ci appare al contempo tenera e patetica, sicuramente infantile, e che Ryan Gosling interpreta splendidamente.
Una volta scoperchiato il meccanismo tutto diventa chiaro e i Ken s’illuminano: “Litigavamo solo perché non sapevamo chi fossimo”. E’ una battuta importante: se non eravamo noi, allora chi stava litigando realmente?
In un sol colpo Gerwig ci dice che i conflitti hanno sempre una matrice egoica e che questi io-bellici che litigano non siamo davvero noi ma, appunto, le nostre maschere personali. Quello che litiga è il sé spaventato in stato di cattività, rinchiuso dietro le sbarre dell’ego.
Una volta sciolte le catene che ci incattiviscono, torniamo a rivolgerci all’altro con amore.
E quindi? Siamo liberi?
Sì, ma siamo nudi e spaesati, in piedi sul ciglio dell’abisso, posti di fronte al mistero della nostra esistenza. Ci tocca affrontare il nulla, affrontare la morte. E fa paura. Questa è l’ora delle domande esistenziali: qual è il senso di tutto ciò? Chi sono io? Qual è il mio scopo?
Un’irrequietezza dell’anima che Billie Eilish coglie magnificamente nella canzone che fa da sfondo all’epilogo (e le cui note, ci accorgiamo ora, ci hanno accompagnato durante tutto il film):
I used to float, now I just fall down
I used to know but I’m not sure now
What I was made for
What was I made for?
Non sappiamo più chi siamo e allora rivolgiamo le nostre domande a Dio (qualunque nome o forma gli si voglia attribuire). Così per Barbie è tempo di incontrare il Creatore, nel suo caso l’inventrice di Barbie, Ruth Handler.
BARBIE: “Forse non sono più Barbie”
RUTH (DIO): “Essere un umano può essere piuttosto spiacevole. Gli esseri umani inventano cose come il patriarcato e Barbie per affrontare quella parte spiacevole. E poi si muore”
BARBIE: “Io vorrei tanto far parte delle persone che creano valore e non essere una cosa creata. […] Mi dai il permesso di diventare umana?”
RUTH (DIO): “Non ti serve il mio permesso”
BARBIE: “Ma tu sei la creatrice, non devi controllarmi?”
RUTH (DIO): “Io non posso controllare te più di quanto non possa controllare mia figlia”
Barbie scopre di essere libera, davvero libera, anche dalla mano del fato. Scopre che il suo valore le è connaturato (“Quindi essere umana è una cosa che scopro dentro di me?”) e così si affranca, infine, anche dall’angoscia esistenziale.
Così la nostra eroina attraversa la soglia, si lascia alle spalle la vita di plastica e rinasce nel mondo reale con il suo vero nome, Barbara, e un paio di Birkenstock ai piedi. Pronta ad abbracciare una vita finalmente autentica. Vera perché mortale, bella perché mortale. Come l’anziana signora incontrata alla fermata del bus, in una scena che Gerwig ha definito “il cuore del film”.
Questo è il tema di fondo di Barbie. Un tema che però, va detto, viene sovrastato dall’esuberanza estetica del film e rimane in definitiva difficile da scorgere.
A diluirlo ulteriormente ci ha pensato, poi, la colossale campagna di marketing messa in campo da Mattel e Warner Bros, che appare quantomeno antitetica rispetto al significato del film.
L’intero sforzo promozionale gira intorno all’aspetto esteriore. Il diluvio di rosa, i trend Barbiecore e #Barbieoutfit, i “pink carpet”: tutto è stato scientemente costruito per vendere il Barbie lifestyle e spingere milioni di adolescenti e giovani adulti a rimanere ipnotizzati dalle proprie maschere, identificandosi con l’immagine di sé, piuttosto che incamminarsi sul sentiero della ricerca interiore, come pure il film suggerisce. Così ad ogni proiezione assistiamo a sfilate di spettatrici vestite da bambole-Barbie, non di rado con abiti succinti e oggettificanti.
L’emblema di questa operazione è la schiera di scatole Barbie formato gigante distribuite nei cinema e nelle quali gli spettatori (ma soprattutto le spettatrici) sono invitate ad entrare per farsi ritrarre come bambole su uno scaffale. La stessa confezione-prigione nella quale i vertici di Mattel tentano, nel film, di rinchiudere Barbie e dalla quale lei invece fugge, rifiutandosi di tornare ad essere solo una brava bambolina innocua.
L’aspetto più sconcertante, e triste, di questa vicenda è constatare che uscendo dalla sala, quando si suppone che il pubblico abbia colto almeno in parte il senso del film, la gente sgomita ancora per mettersi in posa dentro la cabina glitterata. Forse in fondo preferiamo Barbieland alla vita reale. Peccato.
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