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Addio a Carlo Mazzone: icona popolare del calcio italiano


20 Ago , 2023|
| 2023 | Sport

Carlo Mazzone ci ha lasciato. E il destino ha voluto che ci lasciasse il giorno di inizio del nuovo campionato di serie A. Come a suggellare una vicenda personale, prima da giocatore, poi da allenatore, interamente intrecciata al gioco del calcio, la partita della sua vita si è chiusa con un pallone che ricomincia finalmente a rotolare. Eppure il suo rapporto con il mondo del calcio si era allentato da tempo. Non tanto e non solo per raggiunti limiti di età, ma per una sempre più evidente incompatibilità tra il suo modo d’essere e la nuova configurazione sociale e spirituale assunta dal calcio italiano ed europeo.

Mazzone era infatti figlio di una stagione ormai superata. Se è vero che il passato non è mai quello di una volta, se è vero che il fattore nostalgia addolcisce e trasfigura i ricordi, è altrettanto vero che gli anni dei quali Mister Mazzone è stato protagonista costituiscono un’epoca unica ed irripetibile quanto a intensità, emozioni, qualità e bellezza. Gli anni ‘90 in Italia, anche per il calcio, sono stati tanto la punta più avanzata, quanto l’avvio della crisi/metamorfosi attuale: la seria A attraeva i migliori talenti del mondo e allo stesso tempo alimentava gli appetiti sfrenati del business e dello spettacolo che oggi sembrano soverchiare tutto. Pur proiettato sulla scena globale, il calcio di quegli anni sapeva parlare di radici e memoria storica, di senso di appartenenza e processi di identificazione forti, di legami di comunità e di fedeltà assolute: era il tempo dei presidenti tifosi, dei calciatori bandiera e delle curve “mai schiave del risultato”. Tuttavia, nonostante il predominio assoluto delle logiche del mercato e della spettacolarizzazione televisiva, che allontanano sempre più il calcio dai singoli territori per confinarlo nella dimensione inafferrabile dei flussi commerciali e mediatici, il legame con i contesti concreti resta ancora adesso un elemento inaggirabile. D’altra parte, come è stato fatto notare, il calcio è sì un “agente dell’universalismo”, ma di un universalismo concreto, situato, legato a determinate specificità, a precise identità collettive e appartenenze territoriali: anche se lanciato in aria il pallone è destinato difatti sempre a cadere in basso, a terra, che rappresenta il suo luogo naturale, all’incrocio fra passioni popolari e legami comunitari, punto di snodo fra i più significativi delle dinamiche profonde della vita comunitaria.

Uomo di campo, di radici e di legami personali e collettivi, Carlo Mazzone è stato una figura cerniera fra il suo tempo e quello che lo ha preceduto: come pochi altri, da allenatore, ha saputo combinare motivi originari e motivi moderni, intelligenza tattica e spirito di sacrificio, sapienza del cuore e sapienza dell’intelletto, valorizzazione dei talenti e organizzazione collettiva, qualità e risultato, tradizione e innovazione. Ma il suo modo di vivere il calcio non poteva sopravvivere a lungo. Nessun adattamento era possibile con la deriva di plastica degli ultimi anni: vetrina di lusso senz’anima, senza cuore e priva di spessore, dove tutto è in gran parte calcolo, finzione e interesse. Dalla costellazione di riti, simboli e significati del calcio in bianco e nero si è passati ad una situazione di riproducibilità piatta e standardizzata h24: eventi prima unici, irripetibili e lungamente attesi, le sfide epiche e lo storie esemplari della domenica calcistica con i suoi eroi dotati del fascino proprio dei divi del cinema sono state via via fagocitate dal luccichio seducente e omologante delle logiche pubblicitarie e della visibilità via social, smarrendo l’aura del passato, anche per via della moltiplicazione infinita delle riproduzioni mediatiche. Il calcio con i suoi nuovi protagonisti di cartone, poco avvezzi fuori dai campi sportivi all’improvvisazione e alle uscite irregolari dai canoni imposti dai cultori della più corretta e redditizia immagine pubblica, è ovunque, ma nello stesso tempo da nessuna parte: tutto è virtualmente vicino e penetrante come non mai, grazie al contributo delle nuove piattaforme digitali, ma se cerchi in giro un gruppo di bambini correre dietro ad un pallone fai fatica a trovarli, se non nelle fabbriche di aspiranti professionisti promosse dalle scuole calcio a pagamento.

La parabola sportiva e umana di Carlo Mazzone si chiude in particolare con due grandi addii: quello di Roberto Baggio e quello di Francesco Totti.

Quello di Baggio innanzitutto. Come è noto, fra i due si crea un legame fortissimo, quasi letterario. Nel Brescia di Pirlo, Guardiola e Mazzone, il Divin Codino ritroverà l’antico splendore e i tormenti del genio incontreranno finalmente il conforto e l’attenzione mai ricevuti da altri allenatori. Come Mazzone, Baggio è l’icona di un calcio che non c’è più: con lui scompare in Italia la figura del numero 10 classico. Il trequartista rinascerà, ma in forme assai diverse: più duttile, più fisico, più potente. E qui subentra la figura di Totti, che ha dato inizio, almeno in Italia, alla nuova stagione dei numeri 10; quel Francesco Totti che esordirà giovanissimo nella Rometta allenata proprio da Mazzone.

La Rometta: così veniva definita negli anni ‘90 la lupa giallorossa di Mazzone. Eppure quella squadra non era per nulla poca cosa, soprattutto per le emozioni, i sentimenti e i legami che sapeva suscitare, fra sogni di gloria alternati a bruschi risvegli, tra l’ebbrezza dei facili entusiasmi che subito ripiegavano in crolli repentini e in delusioni cocenti. Tutto questo – ciò che è stato lasciato per strada, le tante occasioni perse, le ambizioni frustate, le ingiustizie subite – ha alimentato una mistica, risalente nel tempo ma ancora ben presente, della sconfitta, un eroismo dei belli e perdenti, il compiacimento dei puri abituati a procedere a braccetto con i fallimenti. Accanto a questo atteggiamento di sublimazione della sconfitta, che, secondo alcuni osservatori, rappresenta la cifra estetica più profonda del tifare giallorosso, c’è dunque un’inclinazione a cercare continuamente alibi agli insuccessi, mai veramente affrontati ed elaborati. Che sia colpa dell’arbitro, delle ruberie dei potenti del Nord o del destino cinico e baro, alla fine poco importa: i tanti momenti tristi e i pochi esaltanti si confondono in un’epopea che li rende tutti ugualmente amati.

La stagione della Rometta nasce con Franco Sensi e Carlo Mazzone e si conclude prima con lo scudetto del 2001, infine con l’addio al calcio giocato di Francesco Totti del 2017: resta da chiedersi se l’intensità e l’atmosfera legate a ciascuno di questi tre momenti e personaggi, se quel livello elevato di connessione sentimentale fra città e squadra possano nuovamente riproporsi, in assenza dei protagonisti di allora e in presenza di un mutamento in negativo degli umori collettivi del popolo romano.

Sicuramente la mitica Rometta di Mazzone finisce con lui e con lui si spegne l’ineguagliabile propensione ad entrare in sintonia con il sentire diffuso della tifoseria romanista. Lui è riuscito in ciò che per altri è impensabile: che è impossibile per la mente fredda e calcolatrice di tanti suoi colleghi che vantano una maggiore confidenza con la vittoria e con il potere, ma una minore dimestichezza con la grande bellezza del calcio e con le passioni popolari ad esso legate; per chi è abituato a contemplare con un misto di distacco, diffidenza e spirito aristocratico il ribollire di emozioni collettive che solo la raffigurazione di una partita di pallone può generare.

In ogni caso Mazzone non si è fatto amare solo dalla piazza romana, ma dalle tifoserie intere delle tante squadre che hanno accompagnato la sua straordinaria carriera. E questo nonostante fosse un personaggio estremamente connotato: trasteverino di indefettibile fede romanista, egli incarnava alla perfezione i pregi e i difetti della romanità popolare più verace e spontanea, con il suo carattere tanto sanguigno e brontolone, quanto generoso e pronto a sdrammatizzare. Ma la passione genuina e l’autenticità delle sue parole e dei suoi gesti hanno fatto di lui una figura capace di riscuotere simpatie ovunque, un’icona popolare con cui ci si sentiva intimi e affratellati.

Prima di acquietarsi in un sorriso dolce e malinconico, sebbene solo accennato, il suo volto si accendeva e si caricava di una tensione emotiva esplosiva e trascinante. Ma ciò che di lui rimarrà in eterno scolpito nell’immaginario diffuso è l’immagine della corsa rabbiosa e liberatrice verso la curva dell’Atalanta dopo l’insperato pareggio raggiunto in extremis dal suo Brescia: in quella espressione di energia è possibile ritrovare il senso di una spinta di riscatto popolare dopo un lungo periodo di frustrazioni e delusioni, sportive ma non solo.

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