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La vera tassa sugli extraprofitti è la garanzia normativa di salari e redditi sempre dignitosi
L’estate del 2023, oltre che per il caldo record, sarà ricordata senz’altro per l’apoteosi dei paradossi della politica italiana in cui la destra di governo – almeno a parole – si è fatta paladina della tassazione in chiave redistributiva.
La vicenda è quella della c.d. tassa sugli extraprofitti delle banche, una manovra marginale e una tantum, che prevede «possibili entrate da 2,5/2,8 miliardi», ottenibili «applicando un’aliquota pari al 40 per cento sul maggior valore del margine di interesse dell’esercizio 2022 che eccede per almeno il 5% il margine del 2021 e tra il margine di interesse relativo al 2023 che eccede in questo caso per almeno il 10% il margine 2021».
In sostanza, si tratta di un’imposta straordinaria che, a fronte di «expraprofitti multimiliardari delle banche», conseguenti all’aumento del costo del denaro, che si è tradotto in incremento dei tassi di interessi dei mutui a tasso variabile, porterebbe un minimo di recupero a benefico della fiscalità generale.
Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni (FdI) sostiene che con questa manovra sarà possibile «aiutare le famiglie maggiormente in difficoltà nel pagamento del mutuo»; il vicepremier leghista Matteo Salvini rilancia: «redistribuire ai cittadini italiani che hanno più difficoltà una piccola parte di questi guadagni», a suo dire, è «opera economicamente e socialmente doverosa».
Sul piano dell’efficacia mediatica la campagna si giova, da ultimo, dell’intervento critico della BCE che – senza dire una parola sugli effetti a carico dei cittadini delle sue scelte di politica monetaria – considera «un errore intervenire d’autorità sui margini di interesse delle banche senza considerare i costi e indebolendo la capacità degli istituti di credito di resistere ad eventuali futuri shock».
Se, tuttavia, nell’ambito della comunicazione politica la destra italiana si conferma abilissima, in concreto, i paradossi di questa operazione mediatica sono enormi.
Basti pensare al fatto che gli extraprofitti, di regola, derivano «da situazioni di mercato più che da meriti dell’imprenditore» e dunque, in tal senso, la forma più diffusa di extraprofitto è esattamente quella che si determina a causa del ricatto occupazionale.
In assenza di un sistema integrato di protezione sociale del lavoratore, infatti, come insegnava il buon vecchio Marx, per massimizzare il suo profitto, «il capitalista cerca costantemente di ridurre i salari al loro limite fisico minimo e di estendere la giornata di lavoro al suo limite fisico massimo». In un contesto sociale come quello italiano attuale, pesantemente egemonizzato dalla cultura aziendalista, lo squilibrio strutturale tra la domanda di lavoro da parte delle imprese e l’offerta di chi – per guadagnarsi da vivere – non ha altro da vendere che la propria capacità lavorativa è stato amplificato da decenni di norme che, rendendo il lavoro sempre più precario e malpagato, hanno permesso di realizzare, per tutto questo tempo, una estrazione di valore e una capitalizzazione aggiuntiva, rispetto a quella di un mercato del lavoro regolamentato in maniera tale da essere perfettamente conforme al dettato costituzionale.
Si pensi ai frequenti abusi che – come attestato dai report annuali dell’INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro) – certificano l’ampia diffusione del lavoro pagato a prezzo vile, ora mascherato con progetti formativi spesso del tutto inesistenti, ora nascosto in false cooperative, spesso col ricorso all’utilizzo di forme contrattuali improprie, pur di aggirare quel minimo di tutele che ancora sono previste per il lavoro subordinato standard (si pensi al fenomeno delle false partite IVA o anche all’associazione in partecipazione che nasconde un rapporto di lavoro subordinato dietro il paravento di una comune impresa tra soci).
Quanti extraprofitti vengono realizzati, anno dopo anno, grazie alle normative di assoluto favore per la parte datoriale e di tutela sempre più ridotta per i lavoratori? Quanto ulteriore extraprofitto realizzano quei datori di lavoro più spregiudicati che, per aumentare il proprio potere di ricatto su ciascuno dei propri sottoposti, usano le false partite IVA o mettono in piedi falsi tirocini che nascondono veri e propri rapporti di lavoro subordinato sottopagati e con tutele minimali (cfr. cercasi stagista con esperienza)?
Quanto si potrebbe redistribuire realmente a tutti questi lavoratori, vessati da anni di lavoro povero e precario, se solo si provvedesse a rendere effettivo per tutti il dettato dell’art. 36 Cost., secondo cui «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (comma 1), «la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge» (comma 2) e – ultimo ma non meno importante – tutti i lavoratori hanno «diritto al riposo settimanale», nonché a «ferie annuali retribuite» e non rinunziabili (comma 3)?
Sempre Meloni, per giustificare le reticenze della sua maggioranza in merito a una legge sul salario minimo legale che fissi la soglia minima indefettibile per la paga oraria, ha sostenuto, qualche tempo fa, che nelle statistiche ufficiali «per “lavoro povero” si intende il reddito che tu hai nell’ambito del nucleo familiare», quindi, a suo dire la povertà «non dipende da quanto ti pagano l’ora di lavoro. Tu puoi essere al di sopra dei 9 euro e essere considerato lo stesso un lavoratore povero».
L’artificio retorico del primo ministro, chiaramente, parte da un elemento di verità ma poi, come in ogni paralogismo, porta a uno sviluppo del tutto illogico e fuorviante: senz’altro si può essere poveri anche con una paga oraria base di 9 euro, perché – come è ovvio – se il lavoro è discontinuo e/o la famiglia è numerosa si può ugualmente lavorare ed essere poveri. Ma questo non significa che una norma sul salario minimo legale non serva a nulla nel nostro ordinamento: significa, al contrario, che il salario minimo legale è solo il primo tassello di un complessivo programma di riforme del lavoro che andrebbe messo in campo, se davvero ci fosse una reale volontà politica di combattere la povertà e redistribuire le ricchezze in senso egalitario, garantendo condizioni di vita e di lavoro dignitose per tutti i lavoratori.
Il salario minimo legale, fissando una soglia inderogabile in pejus per la paga oraria base, una soglia al di sotto della quale non si deve mai scendere nella contrattazione, risolve senza alcun dubbio il problema di quelle categorie di lavoratori che non hanno un contratto collettivo applicabile o che ce l’hanno ma con condizioni inspiegabilmente al di sotto della soglia minima di dignità sociale (cfr. La retribuzione sancita dall’art. 23 del CCNL Vigilanza Servizi Fiduciari (ASSIV) non è conforme ai parametri costituzionali di cui all’art. 36 Cost., essendo anche inferiore al tasso Istat indicativo della soglia di povertà).
Nondimeno – come abbiamo qui brevemente provato a richiamare, seppur per sommi capi – esiste un insieme di criticità nel mercato del lavoro italiano che si sono sedimentate per decenni, rendendo così molto facile il reperimento di manodopera a basso costo e a minima capacità di rivendicare orari e condizioni di lavoro dignitose, ed è indubbiamente questo il nodo principale da sciogliere.
In altri termini, la sola fissazione della soglia minima della paga oraria base è condizione necessaria ma non sufficiente per risolvere il dramma del lavoro povero dilagante: non basta, cioè, una legge sul salario minimo, ma questo non significa che il salario minimo legale non rappresenti un provvedimento comunque necessario e che procede nella giusta direzione. Anche perché la paga base di 9 euro l’ora equivale a uno stipendio lordo mensile di circa 1600 euro, lavorando 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana. Ma se, subito dopo, si ridefinisse per legge anche l’orario di lavoro standard, sviluppando quella proposta già sperimentata in diversi contesti internazionali, che prevede di ridurre l’orario di lavoro settimanale a 32 ore, mantenendo invariata la paga mensile, e offrendo quindi ai lavoratori un giorno di riposo settimanale in più, chiaramente, poi la paga oraria base, in questo modo, andrebbe a incrementarsi nella stessa identica percentuale della riduzione della settimana lavorativa.
Si procede insomma, con la forza della legge, in senso inverso a ciò che il capitale pretende e ottiene grazie al potere garantitogli dal ricatto occupazionale: si aumenta la paga base, si riduce l’orario di lavoro e, di conseguenza, il margine di profitto standard e i tanti (troppi) extraprofitti già fatti, negli ultimi decenni, letteralmente sulla pelle della classe lavoratrice.
Tutto questo in una prospettiva di stabilizzazione e standardizzazione dei rapporti di lavoro, a condizioni sempre dignitose e con garanzia di continuità del reddito.
Un sistema integrato di protezione sociale dei lavoratori, infatti, va presidiato dal settore pubblico che fissa il salario minimo legale, nonché i tempi e i modi della sua rivalutazione periodica, lasciando ovviamente alla contrattazione collettiva la possibilità di ottenere, per ciascuna categoria, condizioni migliori, laddove sia possibile. Contestualmente il sistema offre servizi di formazione interamente pubblici che garantiscono appunto la continuità reddituale a ciascuna persona che, per qualsiasi ragione, si trovi a rimanere senza lavoro: fai domanda per accedere alla formazione e al reddito; svolgi le tue ore di formazione retribuite; al termine del percorso formativo riprendi a lavorare presso il settore privato che ha fatto richiesta di lavoratori da formare o, in mancanza, direttamente nel settore pubblico, tutte le volte in cui non vi sono sbocchi immediati nel settore privato per questioni di congiuntura economica.
Questa è la migliore e più equa tassa sugli extraprofitti: un impianto normativo che ponga fine al ricatto occupazionale, attuando il progetto costituzionale del lavoro come strumento per poter permettere a tutti di vivere realmente un’esistenza libera e dignitosa.
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