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Indifferenza. O dell’emergenza educativa


31 Ago , 2023|
| 2023 | Visioni

Forse tra le tante emergenze che a torto o ragione vengono evocate, sicuramente manca all’appello quella che dovrebbe destare più preoccupazione, perché attiene alla riproduzione sociale. Intendiamo riferirci all’emergenza educativa. Abbiamo venduto da un bel po’ l’anima al diavolo o al mercato capitalistico, che è poi dire il medesimo. Ebbene, da tempo il tardo capitalismo ha rotto gli argini e nella sua smisurata hybris si è messo a fabbricare in proprio le risorse umane che servono alla causa, senza tollerare interferenze di sorta[1]. Così ci siamo ritrovati proiettati nella scuola delle competenze e della meritocrazia, nel quadro di una società disintegrata che meglio sarebbe appellare giungla o foresta. Ma esaminiamo più d’appresso la malattia per poi valutarne le conseguenze.

Ma cos’è accaduto che ci dovrebbe tutti ugualmente inquietare? Nelle scuole di ogni ordine e grado, dallo scorcio del secolo scorso, in pratica, non si educa più ma ci si limita ad istruire[2].  E’ così che ha voluto un cattivo paradigma socioeconomico, che da quarant’anni e più ammorba le nostre società, nell’indifferenza o con la complicità esplicita della politica. A scuola come del resto in qualsiasi anfratto di vita vissuta deve valere l’imperativo categorico mercatista, per cui occorre selezionare i mastini più feroci per la competizione anziché educare cittadini a «desideri di migliori libertà». Per perseguire questo unidimensionale scopo servono competenze, nozioni e basta. Ora, i sentimenti che sono un fatto prettamente culturale andrebbero invece ugualmente insegnati attraverso il repertorio dei “classici” della cultura (secondo la definizione insuperata che ne fornisce Calvino). Ma in siffatta cornice non trovano alcun diritto di cittadinanza. Se i sentimenti non si coltivano però, la personalità non può fiorire e rimane preda delle pulsioni, che hanno sì molto meno pretese ma sono cieche. Peccato insomma che sia solo il sentimento, non certo il semplice impulso, a far risuonare emotivamente dentro di noi la presenza dell’altro.

Senza un’educazione sentimentale adeguata non è neppure immaginabile avviare un percorso di riconoscimento, dove l’altro smette di essere solamente un mezzo per prendere la consistenza di un fine. Tutte le principali scuole di pensiero di vario orientamento, con accenti diversi, convergono nel non attribuire all’animale uomo istinti rigidi. Al riguardo Gehlen parla in riferimento all’uomo di «natura mancante» (meglio forse dire: natura eccedente).  Ciò comporta che la sua identità o soggettivazione, con termine più à la page, è un dono sociale non negoziabile. L’individuo, dunque, tanto celebrato ed osannato è solo il costrutto astratto della persona che noi ontologicamente sempre siamo. Tutti i processi di crescente individualizzazione e disumanizzazione, correlati al tecno-capitalismo dilagante, hanno portato a recidere buona parte dei legami sociali che la storia precedente in Occidente aveva conosciuto.

Gli assetti politico-istituzionali scaturiti dal secondo conflitto mondiale avevano individuato nel lavoro e nella cultura il controveleno per tenere a freno gli animal spirits del mercato. L’ipoteca umanistica faceva sì che fosse in gioco la fioritura della persona, che lo Stato e la politica si impegnavano a promuovere mediante la piena occupazione e la scuola pubblica. Come nel peggiore degli incubi nel breve volgere di un decennio o poco più, complice il tracollo del socialismo reale che comunque rappresentava un contraltare, è cambiato il contesto e la narrazione di completamento. Dal primato della politica, con pur tutte le sue enormi contraddizioni, prima fra tutte quella di non aver saputo contrastare la deriva consumistica che Pasolini e Berlinguer, tra i pochi, ebbero la capacità di intercettare, si è passati alla dittatura dell’universale astratto dell’economico, che nella sua «furia dell’accrescimento», in combutta con le mirabolanti imprese dell’elettronica, ha perso di interesse per la questione dell’umano e per i suoi bisogni più elementari: un lavoro, una casa  e la dignità.

Noi oggi assistiamo sgomenti alla formazione di giovani amputati della dimensione sentimentale e di conseguenza della capacità riconoscitiva, compensata in modo maldestro da competenze e conoscenze nozionistiche di ogni genere. Non devono pertanto sorprendere gli ultimi episodi di cronaca (Palermo, Caivano) ma piuttosto indignarci. Innanzi al tribunale della ragione occorrerebbe trascinare l’intero sistema formativo che ha fatto naufragio nella sua principale missione quale quella antropogenica, di umanizzazione dell’umano. 

Se non interveniamo subito in qualche modo, si presume dal basso, noi ci ritroveremo tutti precipitati – ma forse in parte già lo siamo – in una età dall’assoluta indifferenza. Ci abitueremo a vivere così in comunità umane che di quel consorzio recheranno solo il nome. In realtà saranno costituite integralmente dai atomi anomici confinati in apposite celle digitali, sempre connessi e mai in relazione. Senza un’educazione sentimentale noi strutturalmente, anche per effetto della pervasività dei nuovi dispositivi tecnologici binari (on/off), non siamo più attrezzati per sentire spontaneamente l’altro.

Se la disamina è corretta, la guerra intersoggettiva è già scoppiata da tempo, senza possibilità alcuna che possa convertirsi a breve in lotta per il riconoscimento. Che poi, a sua volta, possa esplodere in termini sistemici catastrofici è solo questione di tempo e di congiunture storiche. Converrebbe unire gli sforzi in una «social catena» per salvare la scuola dalla sua deriva, per provare almeno a falsificare la cupa profezia di Heidegger secondo cui solamente un dio ormai potrà salvarci.


[1] Lelio Demichelis, La società-fabbrica, Luiss University Press, 2023.

[2] In un precedente intervento Basta! Contro la barbarie dell’alternanza scuola-lavoro si articola tale distinzione.

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