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In terra ostile: il destino della modernità occidentale e i suoi critici
Il pubblico de “La fionda” è costituito per lo più da persone che – come lo scrivente – “vengono” da sinistra, si sono cioè formate sui testi e sui temi classici della sinistra novecentesca, votandone i partiti storici o le frattaglie derivanti da scissioni e rifondazioni varie. Tutte queste persone sono però altamente insoddisfatte della sinistra, in tutte le sue varianti, nella sua configurazione attuale: europeismo a prescindere, oblio dei diritti sociali e precarizzazione del lavoro, atlantismo “senza se e senza ma”, sono alcuni dei punti di forte critica verso la narrazione progressista. Questo pubblico può risultare, al massimo dell’eresia, ben propenso verso il “momento populista”, vedendo nell’attenzione a temi socialmente sentiti da larghe masse della popolazione collocate fuori dalla fatidica “Ztl” una opportunità per ri-creare finalmente una “vera” sinistra. Questa breve premessa solo per illustrare che il compito che mi sono dato – segnalare ai lettori de “La fionda” il libro di Boni Castellane “In terra ostile” – è una impresa ardua, che va però compiuta. Come sostenere di fronte a tale comunità la bontà di una riflessione che si colloca del tutto al di fuori dei margini del perimetro della sinistra, anzi, che sta proprio dalla parte opposta?
Boni Castellane è un nome di fantasia, impiegato da un opinionista che scrive sul quotidiano “LaVerità”: il successo della rubrica ha dato l’abbrivio per una iniziativa editoriale sfociata nella pubblicazione del libretto titolato appunto “In terra ostile”. A sentire l’anonimo Autore, molto attivo su X (ex Twitter), le vendite hanno ad oggi raggiunto, dopo una seconda edizione, quota 15.000, che non solo per la saggistica ma anche per la narrativa costituisce per il mercato nazionale una quota quasi eccezionale: nessun giornale o media ne ha chiaramente parlato. Se un tempo vi era chi calandosi il passamontagna si sentiva parte dello spirito dei tempi (le lotte operaie), Boni Castellane ha dovuto indossare una maschera per avere finalmente la libertà di dire la sua verità: anche questo è un dato assai interessante, nella società digitale del controllo totale delle opinioni solo gli spazi di mimesi diventano i soli veri ambiti di libertà vitale.
Ma veniamo al testo. I grandi conservatori sono interessanti da leggere perché condividono con i rivoluzionari una cosa che i progressisti invece ignorano: prendono davvero sul serio la tradizione. Questo brillante libro accompagna il lettore lungo due fili che si intrecciano a vicenda: da un lato ci troviamo di fronte a una serrata e radicale critica della società presente, dall’altro, tale critica è portata ricorrendo a categorie filosofiche altrettanto radicali. L’Autore attinge a temi e atmosfere di quel pensiero sulla società della tecnica, derubricato spesso frettolosamente di destra in senso spregiativo, che ha caratterizzato il movimento culturale della “rivoluzione conservatrice” nella prima metà del Novecento: quindi Heidegger, Junger, ma anche Nietzsche. Siamo quindi nel terreno già ampiamente coltivato della “nuova destra” in cui si cercano contaminazioni e si prova a perforare un varco tra posizioni ideologiche opposte? Oppure all’elogio un po’ nostalgico del buon tempo antico? Niente del genere, l’Autore difende la sua posizione, assolutamente coerente con il motto pasoliniano “difendi, conserva, prega”, senza immaginare nessuna ibridazione e senza neppure volerle dare uno sbocco politico. Anzi, scrive, “la politica non è mai stata e non sarà mai – meno che mai ora – la proiezione delle nostre più alte aspirazioni […] dovrebbe essere, nella migliore delle ipotesi, un veicolo con cui fare un breve spostamento” (p. 9). Sono invece la chiarezza e la radicalità con cui il “paradigma conservatore” è impiegato a costituire il tratto più genuino dell’opera, che si presenta davvero come un vademecum teorico e pratico per sopravvivere in tempi di transumanesimo: questa è la vera originalità di queste pagine, il fatto di presentarsi per ciò che si è, e che sta probabilmente alla base della calda accoglienza tra i lettori.
Il concetto cardine è quello di “terra ostile”, che sta a indicare il contesto sociale del capitalismo globale tecno-finanziario nel quale siamo immersi. Dice Boni che vi è stato un passaggio dalla “terra desolata”, quella della modernità materialista e laica, alla “terra ostile” della contemporaneità: se nella desolazione della secolarizzazione si vive appunto desolati, “in terra ostile non si può vivere, si viene cacciati, si sta con la consapevolezza che da un momento all’altro ci potrà accadere qualcosa di ostile […] un vigile che chiede il lasciapassare” (p. 32). Quando si è prodotto tale salto? Nei primi anni Duemila, con l’esaurimento dell’esperienza comunista, “il potere globale ha deciso che tutto il mondo poteva trasformarsi in unico mercato globale”; il quale però non è il fine ma il mezzo per “l’instaurazione del nuovo ordine di valori […] dentro il quale può sorgere l’uomo nuovo acefalo (Bataille), scisso (Deleuze) ed appartenente in maniera definitiva al sistema degli oggetti (Baudrillard)” (pp. 35-7-8). Se prima si poteva almeno contrattare con il potere, disposto a lasciare qualche margine alla dimensione personale sacrale e spirituale, oggi l’individuo è chiamato a vivere privo di patrimonio: non solo come complesso di proprietà ma anche come “deposito tradizionale e culturale”. L’uomo stabile, della identità certa, della dimora abituale, deve lasciare il posto all’individuo instabile, mutante, che non possiede nulla (p. 86-7).
Tale mutamento antropologico tra Novecento e giorni nostri lo si vede nelle condizioni e nei rapporti giuridici di lavoro, la fine del secolo del lavoro ha lasciato sul campo una società dai connotati semi-schiavistici. Nel libro la riflessione su questi temi è contenuta in passaggi che denotano una profondità e una concezione spirituale del lavoro che segna una distanza abissale dalle analisi critiche dei sociologi progressisti. Nel nuovo mondo dove il lavoro è finito – perché appaltato agli Stati-fabbrica orientali, Cina e India su tutti – se non si produce più niente “si cede tempo”: “se non puoi più pagare con il lavoro […] dovrai pagare con la vita” (p. 102). Ecco allora che troviamo un altro concetto chiave, la vita-a-debito, che serve a leggere i rapporti sociali e la condizione dell’uomo contemporaneo. “Non possiederai nulla e sarai felice” è una delle parole d’ordine dei nostri tempi, il monolocale cittadino in affitto dove entra il monopattino è la condizione esistenziale ideale per i giovani, e non solo, tanto hai a disposizione al massimo quindici minuti di tempo per raggiungere ciò che ti serve. Ma se non possiedi nulla c’è qualcuno che possiede tutto. Allora, il vero fine della vita-a-debito è mettere le persone nella posizione di “non poter più dire di no… ogni condizione di lavoro dovrà essere accettata… ogni posizione politica dovrà essere approvata… ogni frase dovrà essere quella giusta… ogni scelta di vita dovrà essere quella consigliata… ogni scelta sanitaria sarà imposta… ogni luogo di esistenza dovrà essere quello indicato… ogni libro letto dovrà essere quello messo a disposizione… ogni opinione dovrà essere quella corretta” (p. 103). Il soggetto protagonista di tale esistenza invivibile non è più connotato dalla propria condizione sociale ma è il consumatore-ideale, cioè colui che è definito dai suoi desideri, ed in special modo dal più istintivo di essi, il desiderio sessuale, che occupa una posizione del tutto centrale una volta bandito il concetto stesso di trasgressione.
Come si sopravvive in terra ostile? Boni richiama ovviamente la figura jungeriana del Ribelle, riflette sulle scarse condizioni di praticabilità di un nuovo “passaggio al bosco”; la contrapposizione è impossibile, non c’è più confronto, non c’è partita, ma “solo una macchia che si espande per coprire ogni terra emersa, l’altro è scomparso” (p. 120). In terra ostile “si vive dietro le linee nemiche, spesso indossando la divisa degli occupanti” (p. 21) ma anche se la battaglia è persa merita comunque di essere combattuta. Come? Recuperando la ricerca del bello, del vero e del giusto, cioè tramite arte, filosofia e teologia; e, più praticamente, provando a fuggire dal linguaggio del nichilismo, facendosi “piccoli” e usando sapientemente e difensivamente il “silenzio” (p. 22), per imbastire un sistema di vita poco attratto dalle sirene del consumo e della vita a debito.
Questa è una sintetica pista di lettura, il libro è ovviamente più ricco di temi e spunti. Sarei però un recensore ingannevole se mi fermassi qui. Il lettore de “La fionda”, a questo punto, di certo si sarà posto la domanda “ma come siamo arrivati alla terra ostile” e altrettanto certamente si sarà anche dato la risposta: è l’evoluzione del capitalismo. Ecco, questa non è la posizione di Boni Castellane, che invece (mi scuso se vado per le spicce sino al rischio della semplificazione) vede l’esito pienamente iscritto nella dimensione materialistica e nichilistica della modernità. La gnosi moderna, da Cartesio in poi, passando per la Rivoluzione francese e il marxismo, il liberalismo e il welfare, è l’insieme di momenti preparatori di questa catastrofe antropologica nella quale ci troviamo. Una volta liberata la tecnica da ogni trascendenza, ciò che tecnicamente è possibile lo diventa pure eticamente. C’è un passaggio che è assai significativo: “La società atea si compie nel suo ribaltamento teologico: se non c’è trascendenza, la trascendenza è il mondo stesso; se non ci sono radici, lo sradicamento è il significato ultimo dell’esistenza” (p. 102). Qui mi pari si incroci la questione della teologia politica e della persistenza della trascendenza nel moderno al centro delle ricerche di Nello Preterossi.
Per farla breve, Boni si pone al di là della modernità (o prima) e da lì fonda il suo conservatorismo. E questa attitudine è proprio l’elemento che vorrei valorizzare, anche raccogliendo le importanti suggestioni contenute in un recente articolo di Ernesto Galli della Loggia apparso sul “Corriere della Sera” (3 settembre 2023). Lo storico scrive che oggi il conservatorismo non trova più come avversari il socialismo o l’illuminismo, ma un progressismo auto-celebrativo tutto basato sulla tecnica e la morale che pretende di riscrivere codici e strutture sociali prescindendo da storia e natura. Anche Mario Tronti evidenziava come la sinistra avesse ormai eletto l’ideologia del progresso come tratto costitutivo. Insomma, sarà il caso di chiedersi se, oggi, conservare, difendere e pregare, come insegnava Pasolini, non sia l’unico gesto rivoluzionario davvero possibile. Certo, bisogna intendersi sul che cosa c’è da conservare: la tradizione di di Boni non coincide con quella de “La fionda”. Ma un interrogativo si pone: c’è, scavando dentro la modernità ma senza fuoriuscirne, anzi, fermandosi un centimetro prima, qualcosa che assomiglia a una tradizione che sta svanendo sotto i colpi del progressismo globale dominante? La teologia economica, che ha sostituto negandolo il bisogno di trascendenza, è davvero l’orizzonte emancipativo che le classi popolari avevano sognato? Le prime vittime della terra ostile non sono forse proprio i ceti più esposti ai ricatti del mercato e destinati a una miseria culturale ancora più grande? Il progressismo non sta decostruendo gli argini che la politica aveva posto al mercato? Non solo i diritti sociali(sti) sono ormai cancellati, ma anche quelli liberali illuministi: cosa resta della libertà di parola quando i processi si fanno preferibilmente alle opinioni e non alle condotte? E che dire delle politiche censorie sulle principali piattaforme dove si svolge il dibattito pubblico, dove politicamente irresponsabili istituzioni sovranazionali delegano i medesimi proprietari dei mezzi a vigilare sul dibattito e sui “valori”? L’uso dell’emergenza sta trasformando il nucleo fondamentale con cui le costituzioni hanno concepito le libertà della persona (si veda ciò che scrive il costituzionalista Vincenzo Baldini). Vi sarebbe poi la questione antropologica, legata alla condizione biopolitica e agli stili di vita: capitolo che non affronto.
Il progressismo di oggi, cioè la sinistra, è forse la peggiore nemica delle condizioni di emancipazioni della modernità. Qui c’è una distanza con il libretto che ho segnalato, che invece diffida del moderno. Infatti, se c’è qualcosa da conservare è in primo luogo la dimensione trascendente presente nella tradizione moderna, che appunto è diventata ormai tradizione perché oggetto di superamento. Dimensione che lasciava posto anche al fenomeno religioso, oggi profondamente in crisi. A sinistra si procede ancora con schemi risalenti, capita di leggere il termine “politiche borghesi” a cui credo sia impossibile dare un significato; o si va avanti per mera contrapposizione, affidandosi allo storicistico “spirito dei tempi”: dopo essere stati spesso dalla parte del torto, scalda sentirsi dare ragione. Bisognerebbe invece prendere atto di un divorzio. La storia del movimento operaio è finita con una sconfitta, e chissà come e se quella vicenda popolare riprenderà. La sinistra invece non è mai stata così forte mondialmente nel segno del progressismo e dell’immanentismo.
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