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Vita


18 Set , 2023|
| 2023 | Voci

Erano lunghi i giorni nel letto, e le ore nella palestra del CTO a veder muovere dal fisioterapista E. muscoli che non sentivo, arti che parevano non appartenermi. Perché cercava di allenarmi in quel modo? E io, perché ero sopravvissuta? Era la mia domanda blasfema a Dio: Perché mi hai salvato? Mi hai salvato? O mi hai gettato nel purgatorio per scontare la pena di aver tentato il suicidio? Credi che l’abbia fatto per sfidarti? Per gioco? Per noia? In rianimazione ti sentivo aleggiare punitivo, mi chiedevi di scegliere: o la vita o il mio nome, ma cos’è un nome? La vita l’avrei ceduta volentieri, ma sentivo il dolore di mio padre, la sua condanna. È sempre un padre a condannare, a estinguere il desiderio, a comprimerlo fino a castrarlo. Dio è un padre? Il più amaro di tutti, o il più inumano, era solo un’idea, o la vita tutta senza sconti. L’uomo che vedevo ialino nella nebbia era un medico, un essere dell’incubo, mandava emissari a chiedermi come mi chiamassi, dovevo rispondere di non saperlo, era una visione identica, una ripetizione demoniaca. Dio e il diavolo uniti in un’unica allucinazione, una catena di montaggio in cui si fabbricavano uomini guasti, rispediti nel mondo dall’Aldilà. Volevo ancora morire, tuttavia temevo sarebbe stato atroce, temevo non fosse l’estinguersi del dolore ma la sua esacerbazione. Il medico del CTO, il dottor T., che la signora M. orpellava con ridicoli epiteti, giurava che non sarebbe stato in eterno così, che avrei vissuto anche altro. Ma devi voler vivere, diceva. Talvolta gli chiedevo perché mi mandasse tutti quegli psichiatri a tentare di rieducarmi. Non te li mando io, è la prassi, diceva. Devi essere più semplice, meno mentale, meno cervellotica, si tratta solo di voler vivere, non bisogna pensare se sia giusto.

Sarebbe stato bello avere qualcuno con cui urlare, come nei film, arrivare in un luogo deserto – un bosco, un uliveto, uno strapiombo – e mettersi a urlare, e forse dopo ridere o abbracciarsi – qualcosa di fisico, senza mediazioni digitali -, ma più passa il tempo e più si è intolleranti, sfiduciati. L’amore incondizionato, se esiste, l’ho colto pochissime volte proprio in unità spinale, a me non è capitato, io ho dovuto sempre farcela da sola, e sentirmi anche dire che avevo problemi di dipendenza. F. lo diceva, all’inizio della degenza disse che avrei dovuto lasciarlo stare, che tra noi era finita da un anno, che non potevo incolparlo, che aveva bisogno di silenzio. Dipendenza… Dipendo solo da un’idea di vita migliore di questa. Ciò che non si comprende degli insopportabili come me, dei livorosi, dei passionali è che esiste un luogo a loro accessibile, una piccola luce in fondo al corridoio, è molto banale, è la possibilità di essere accolti nonostante l’insopportabilità. Non posso occuparmi del sistema se ho questa mancanza, non sono abbastanza risolta per pormi questioni sistemiche, riesco a pensare solo alla distanza che mi separa dal desiderio, dalla possibilità di essere amata. I libri sono una magra consolazione, per lo più insufficiente. In unità spinale ho conosciuto una ginnasta con una lesione cervicale, il cui ragazzo veniva a trovarla ogni giorno – e adesso, dopo quasi due anni, guardo le loro fotografie insieme sulla neve, nelle baite di montagna, al mare a Tenerife, forse con lui sente di non essere sola, e che la disabilità non sia un limite abnorme, anzi, diventa una potenzialità di fare altro, di vivere altrimenti -, una donna paraplegica che aveva trovato l’uomo più amorevole dopo essere stata abbandonata dall’ex marito a causa dell’incidente, una elegante signora di cinquant’anni il cui compagno pregava ogni giorno al santuario del CTO, la imboccava durante i pasti e la coccolava come una figlia. Io avevo qualcuno conosciuto in rete dopo l’incidente, ma temevo che – come era avvenuto in passato con altri – non ci saremmo mai incontrati, che potesse rimanere un pregevole epistolario cui non sarebbe seguita alcuna fisicità, le nostre lettere erano piccole dichiarazioni estetiche, simboli. Gli dicevo che era così dolce, così umano. Ero stata delusa in tutto, in amore, in arte, ogni mia aspirazione era stata presa a randellate dalla vita. Avevo solo trentasei anni, eppure mi sentivo così vecchia, così diversa dal contesto cui appartenevo, così inadatta ad abitare un mondo rapido e vorace. Vivevo in una Roma primitiva, sognavo le origini, il mare, la campagna, detestavo la tecnologia, la tecnica, i conti online, le applicazioni iPhone, le carte prepagate, le prenotazioni su Booking. Volevo sfondare come autrice e non mi rendevo conto di non essere neppure pronta a vivere il presente. Tutti finivano per abbandonarmi, sovrastarmi, e avevo perso la fiducia nel prossimo. Non avevo più neanche il desiderio di proseguire, mi restavano i libri, la conclusione del percorso di studi filosofici e la ricerca personale di una letteratura che non fosse narrativa, che fosse flusso di coscienza, parola viva, lingua che trama, non intreccio. Chi avrebbe potuto comprendere? In ospedale, nella prima fase ospedaliera, in rianimazione al San Giovanni, immobile sul letto chiedevo a Dio di portarmi via da questa vita che non ero in grado di vivere, di risparmiarmi dalla disabilità, dal dolore, dall’eterno ritorno delle cose che non volevo vedere, dalla realizzazione degli altri, dai labirinti della mente. Un’infermiera bionda veniva a controllare lo stato delle emorragie interne, i parametri vitali. Se uscirai di qui, diceva, dovrai pregare perché sei una predestinata. Non dovrai più dire di voler morire, neanche pensarlo. La vita è di più. Io non la capivo e al momento detestavo le sue parole, il suo desiderio furioso di tenermi sveglia a qualunque costo. Quando venivano a trovarmi i miei genitori, uno per volta un’ora al giorno, fingevo di essere in pace, promettevo che avrei vissuto a qualunque condizione, ma non era vero. Volevo essere amata incondizionatamente e che tutte le porte si aprissero, chiedevo una ricompensa, o la morte. Mi trasferirono in unità spinale al CTO per la riabilitazione. Sembrava non vi fosse nulla da riabilitare, e non volevo neanche provare ad alzarmi dal letto. Il fisioterapista E. ogni giorno veniva a stirarmi il braccio destro in cui al San Giovanni erano state inserite dodici viti. Il fisiatra T. diceva: Devi uscire da questo letto, devi, per forza. A costo di star male, ma tu di qui esci in piedi. Leggevo Pessoa senza tregua e ascoltavo musica barocca, l’uomo conosciuto in rete – l’Angelo – non faceva che inviarmi link di film, ne ricordo solo pochi fotogrammi, ma era il cinema a tenermi in vita, non pensavo a me, non pensavo più nulla, mi dissolvevo nelle immagini. Guardavo Godard e Bunuel, cercavo di imparare qualcosa di nuovo. 

Una domenica mattina un prete venne a chiedermi se desiderassi confessarmi. Ma i miei peccati sono troppo gravi, dissi. Nessun peccato è troppo grave se non quello di disprezzare la vita, disse lui. Fu solo l’inizio della riemersione, gli chiesi di aprire la Bibbia a caso e trovò nel Libro di Giobbe ciò che stavo cercando: 

Elifaz il Temanita prese a dire:
Potrebbe il saggio rispondere con ragioni campate in aria riempirsi il ventre di vento d’oriente? 
Si difende egli con parole senza costrutto
e con discorsi inutili?
Tu anzi distruggi la religione e abolisci la preghiera innanzi a Dio.
Sì, la tua malizia suggerisce alla tua bocca e scegli il linguaggio degli astuti.
Non io, ma la tua bocca ti condanna
e le tue labbra attestano contro di te.
Sei forse tu il primo uomo che è nato,
o, prima dei monti, sei venuto al mondo?
Hai avuto accesso ai segreti consigli di Dio
e ti sei appropriata tu solo la sapienza?
Che cosa sai tu che noi non sappiamo?
Che cosa capisci che da noi non si comprenda?
Anche fra di noi c’è il vecchio e c’è il canuto
più di tuo padre, carico d’anni.
Poca cosa sono per te le consolazioni di Dio
e una parola moderata a te rivolta?
Perché il tuo cuore ti trasporta
e perché fanno cenni i tuoi occhi,
quando volgi contro Dio il tuo animo
e fai uscire tali parole dalla tua bocca?
Che cos’è l’uomo perché si ritenga puro,
perché si dica giusto un nato di donna?
Ecco, neppure dei suoi santi egli ha fiducia
e i cieli non sono puri ai suoi occhi;
quanto meno un essere abominevole e corrotto,
l’uomo, che beve l’iniquità come acqua.
Voglio spiegartelo, ascoltami,
ti racconterò quel che ho visto,
quello che i saggi riferiscono,
non celato ad essi dai loro padri;
a essi soli fu concessa questa terra,
né straniero alcuno era passato in mezzo a loro.
Per tutti i giorni della vita il malvagio si
tormenta;
sono contati gli anni riservati al violento.
Voci di spavento gli risuonano agli orecchi
e in piena pace si vede assalito dal predone.
Non crede di potersi sottrarre alle tenebre,
egli si sente destinato alla spada.
Destinato in pasto agli avvoltoi,
sa che gli è preparata la rovina.
Un giorno tenebroso lo spaventa,
la miseria e l’angoscia l’assalgono
come un re pronto all’attacco,
perché ha steso contro Dio la sua mano,
ha osato farsi forte contro l’Onnipotente;
correva contro di lui a testa alta,
al riparo del curvo spessore del suo scudo;
poiché aveva la faccia coperta di grasso
e pinguedine intorno ai suoi fianchi.
Avrà dimora in città diroccate,
in case dove non si abita più,
destinate a diventare macerie.
Non arricchirà, non durerà la sua fortuna,
non metterà radici sulla terra.
Alle tenebre non sfuggirà,
la vampa seccherà i suoi germogli
e dal vento sarà involato il suo frutto.
Non confidi in una vanità fallace,
perché sarà una rovina.
La sua fronda sarà tagliata prima del tempo
e i suoi rami non rinverdiranno più.
Sarà spogliato come vigna della sua uva ancor
acerba
e getterà via come ulivo i suoi fiori,
poiché la stirpe dell’empio è sterile
e il fuoco divora le tende dell’uomo venale.
Concepisce malizia e genera sventura
e nel suo seno alleva delusione.

Di:

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