La Fionda è anche su Telegram.
Clicca qui per entrare e rimanere aggiornato.
Una storia del conflitto politico

Riceviamo e pubblichiamo volentieri la traduzione, a cura di Salvatore Palidda, di un recente articolo di Joseph Confavreux. Si tratta della recensione di «Une histoire du conflit politique», di Julia Cagé e Thomas Piketty, un libro ritenuto da più parti importante perché sfida la politologia con un approccio multidisciplinare assai poco praticato.
Nelle librerie venerdì 8 settembre, Une histoire du conflit politique (Le Seuil), a cura di Julia Cagé e Thomas Piketty, è già ai vertici delle vendite di “saggistica”. Perché questa zona arida di geografia elettorale incontra un tale successo, anche se le sue conclusioni sono raramente controintuitive e la parte esigente del mondo della ricerca ne giudica molti degli elementi sintetizzati come già noti? La risposta è dovuta solo in parte alla notorietà dei suoi autori e ai meccanismi ben rodati di una promozione che riserva al gruppo Le Monde e a Radio France il diritto di rompere l’embargo prima della pubblicazione a cui sono chiamati a resistere altri giornalisti. Il successo di pubblico e mediatico del libro è dovuto soprattutto al fatto che sono pochi i ricercatori che sperano niente meno che trovare soluzioni concrete alle disfunzioni della democrazia francese, all’impasse della vita politica del paese e alle disuguaglianze che ne minano i contorni. Il lavoro estende spesso alcune analisi e proposte già sviluppate in Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (2018) e Il prezzo della democrazia di Julia Cagé (Baldini & Castoldi, 2020).
Ancora meno numerosi sono i ricercatori che sviluppano database tanto voluminosi quanto nuovi per supportare le loro dimostrazioni – pur disponendo delle risorse finanziarie e umane. Il lavoro di Cagé e Piketty, con il sito eccezionale per accessibilità ed esaustività ad esso allegato (unehistoireduconflitpolitique.fr), costituisce infatti uno strumento che talvolta va oltre quelli della statistica pubblica. Uno dei maggiori meriti del progetto è quello di aver digitalizzato i risultati di tutte le elezioni, a livello comunale, nella Francia continentale, a partire dalla Rivoluzione (del 1789). Così coglie in profondità una storia politica, mentre collettivamente tendiamo ad accontentarci degli sviluppi successivi dal secondo dopoguerra. Questa profondità storica permette in particolare, secondo Cagé e Piketty, di comprendere meglio l’attuale tripartizione politica tra un blocco di sinistra, un blocco social-liberale e un blocco nazional-patriottico, che può “essere analizzata correttamente solo andando indietro di due secoli”, e in particolare la distribuzione in tre blocchi già esistenti tra il 1848 e il 1910. Pertanto, secondo loro, “al di là del suo interesse storico e della nuova banca dati che offre, questo lavoro permette di fornire uno sguardo nuovo sulle crisi attuali e le loro possibili conseguenze”. Ed è vero che, analizzando le “determinanti socio-economiche del comportamento politico” o, più semplicemente, “chi vota per chi e perché”, Julia Cagé e Thomas Piketty offrono con questa ampia indagine storica una base per riflettere su alcuni aspetti essenziali della politica contemporanea.
La “regressione” democratica
La prima constatazione documentata è quella di “una crisi di portata senza pari nel nostro sistema democratico”. Questa osservazione non è nuova, ma risulta vertiginosa negli scritti di Julia Cagé e Thomas Piketty. Lo si osserva in particolare con il calo della partecipazione elettorale negli ultimi decenni e con il fatto che esso “è accompagnato da un crescente divario nella partecipazione tra territori ricchi e poveri, divario che non esisteva (o era molto meno evidente) nei periodi precedenti, sia nel XX secolo che nel XIX secolo”. Abbiamo quindi davanti agli occhi una “regressione democratica particolarmente preoccupante. La democrazia si basa infatti sulla promessa di partecipazione del maggior numero di persone alle decisioni pubbliche, ma, due secoli dopo la Rivoluzione francese, le classi lavoratrici sembrano ritirarsi dal gioco elettorale in proporzioni senza precedenti.»
La partecipazione legislativa, che oscillava tra il 70% e l’80% dal 1848 fino agli anni ‘80-’90, è scesa ad appena il 50% nel 2017 e nel 2022. Un calo strettamente correlato alla povertà poiché, nelle ultime elezioni legislative, il tasso medio di partecipazione alle elezioni legislative nel 10% dei comuni più ricchi era di quasi 11 punti superiore a quello osservato nel 10% dei comuni più poveri. A prima vista, si potrebbe pensare che “l’aumento delle disuguaglianze potrebbe aver contribuito ad alimentare un sentimento di abbandono e scoraggiamento politico nei comuni più poveri”. Ma, notano Cagé e Piketty, “i divari di ricchezza tra i comuni erano ancora più elevati nel 19° secolo o all’inizio del 20° rispetto all’inizio del 21°, e tuttavia le differenze nei tassi di partecipazione non erano così importanti come oggi. La percezione di una forte ingiustizia non alimenta necessariamente l’astensione: in termini assoluti può altrettanto facilmente alimentare una forte mobilitazione, a seconda della natura dell’offerta politica che viene proposta”. Il fattore determinante è quindi l’offerta politica e la sua capacità di rappresentare territori e popolazioni. Mentre la partecipazione alle elezioni è generalmente più elevata nel mondo rurale anziché nel mondo urbano per quasi due secoli, dal 1848 al 2022, vi è un’importante eccezione tra il 1920 e il 1970, legata alla forte mobilitazione operaia a favore del Partito comunista che si concentra nelle città e nelle periferie. Il fatto che i lavoratori partecipino relativamente meno alle elezioni è certamente un risultato noto. Ma ciò che l’approccio storico di oltre due secoli ci permette di mettere in luce è “la novità di questo fenomeno e il suo peggioramento” tanto recente quanto massiccio. Di conseguenza, il voto a favore del “blocco centrale liberal-progressista” registrato (in Francia) durante le elezioni del 2022 sembra essere il più “borghese” nella storia elettorale francese dai tempi della Rivoluzione.
I contorni della classe geo-sociale
La seconda grande sfida del libro consiste, seguendo altri ricercatori, nel rendere complessa la nozione di classe per includere le disuguaglianze di ricchezza nei territori. Per gli autori, “la classe sociale esiste e non ha mai smesso di svolgere un ruolo determinante nel confronto politico, ma per essere fruttuosa deve essere considerata in una prospettiva multidimensionale e spaziale”. Riprendono la nozione di classe geosociale proposta da Bruno Latour, ma “intesa più ampiamente nelle sue dimensioni socioeconomiche”, includendo in particolare la questione delle disuguaglianze di accesso ai trasferimenti sociali e ai servizi pubblici. scuole, ospedali, strutture sportive e culturali, ecc.), la proprietà dei mezzi di produzione, la gerarchia dei salari e dei redditi, l’accesso alla proprietà e all’abitazione, ecc. Ansiosi di rivolgersi a un “cittadino-lettore”, Julia Cagé e Thomas Piketty espongono le differenze di comportamento elettorale nelle unità territoriali che parlano a tutti: metropoli, periferie, città e villaggi.
Le principali conclusioni di questa lettura socio-spaziale di due secoli di elezioni sono innanzitutto che le disuguaglianze territoriali, che avevano conosciuto una significativa riduzione a partire dal XIX secolo, hanno cominciato ad aumentare a partire dagli anni ‘80-’90, in modo ancora più pronunciato rispetto a quelle relative ai redditi. o disuguaglianze di ricchezza (NB è ciò che è definito come conseguenza della controrivoluzione del capitalismo liberista). Nel 2002, il reddito medio dell’1% dei comuni più ricchi era più di otto volte superiore a quello dell’1% dei comuni più poveri, mentre all’inizio degli anni ’90 questo divario era appena superiore a cinque.
Tuttavia, la “convergenza verso il basso delle periferie povere e delle città povere”, sotto l’effetto della crescente polarizzazione spaziale del territorio francese e della concentrazione della ricchezza nelle metropoli, deve essere paragonata al fatto che “i comportamenti politici di questi diversi territori si sono profondamente differenziati negli ultimi decenni”. L’intero libro mira a comprendere questo paradosso e le condizioni per un suo possibile superamento.
Il rapporto determinante con la proprietà
Queste analisi socio-spaziali permettono poi di porre il rapporto con la proprietà al centro del conflitto elettorale e politico. Il libro insiste ripetutamente sulla necessità di distinguere tra disuguaglianze di reddito e di proprietà perché “sono imperfettamente correlate ed entrambe hanno un forte impatto sulle condizioni di vita, e dall’altro perché alimentano immaginari, visioni del mondo e comportamenti politici” che non sono esattamente gli stessi. Dal 1990 al 2000, una delle variabili più significative nello spiegare i differenziali di partecipazione è la percentuale di famiglie che possiedono la propria casa, mentre in precedenza non vi era alcun effetto significativo di questo tipo. Evidente è anche l’impatto della proporzione dei proprietari sul voto per le diverse correnti politiche, “con in questo caso un effetto sempre più evidente sul voto del FN-RN (la destra di Le Pen) dal 2000-2010”. La percentuale di famiglie proprietarie della propria abitazione è sempre stata più elevata nei piccoli comuni e nelle città, poi nelle periferie e infine nelle metropoli. Tuttavia, scrivono Piketty e Cagé, il fatto di «ritrovarsi in debito duraturo per ripagare la propria casa, con gli sforzi di risparmio e la stabilità professionale e personale che questo implica, contribuisce anche a forgiare valori e identità che si definiscono in parte al contrario di altri gruppi che non sono lanciati su tale traiettoria”. Il fatto che queste “differenze siano in parte artificiali”, poiché la rendita può richiedere anche sforzi restrittivi, non toglie “nulla alla loro forza, in un mondo in cui la conoscenza delle altre classi socio-spaziali e delle loro concrete esperienze di vita è per natura relativamente limitata.
“Se i partiti di sinistra e ambientalisti vogliono riconquistare terreno tra le classi popolari dei villaggi e delle città […], sarà necessario sostenere anche le aspirazioni popolari alla proprietà individuale.» Julia Cage e Thomas Piketty
Per Cagé e Piketty, una delle ragioni della crescita del voto del FN-RN (Fronte Nazionale-Raggruppamento Nazionale) va ricercata in questo. Con il diploma, la “seconda distinzione estremamente marcata tra il voto della sinistra e il voto del FN riguarda il rapporto con la proprietà”, al punto che il voto della Le Pen sarebbe in gran parte un voto per l’accesso alla proprietà da parte di persone a “reddito medio-basso”. Il che spiegherebbe in particolare perché il partito di Le Pen (RN) ha proposto, in occasione delle elezioni del 2022, una significativa estensione del PTZ (prestito a tasso zero), dove ogni famiglia potrebbe ora beneficiare di un prestito da parte dello Stato. 100.000 euro senza interessi, e ha aggiunto che questo prestito non sarà più rimborsato a partire dalla nascita del terzo figlio, mescolando così due elementi chiave del discorso lepenista: l’accesso alla proprietà e il tema natalista.
“Se i partiti di sinistra e ambientalisti vogliono riconquistare terreno tra le classi lavoratrici dei villaggi e delle città, giudicano gli autori, non basterà difendere i servizi pubblici. Sarà inoltre necessario sostenere le aspirazioni popolari alla proprietà individuale, sia nel mondo rurale che in quello urbano.»
Tripartizione politica e divisione spaziale delle classi lavoratrici Questi dati socio-spaziali aiutano quindi a comprendere le dinamiche di alcuni partiti, come la RN (destra lepenista), o al contrario le difficoltà di altre organizzazioni, soprattutto di sinistra.
Julia Cagé e Thomas Piketty vi leggono anche l’origine del tripartito politico contemporaneo, il blocco centrista-liberale al potere che approfitta della divisione tra classi lavoratrici rurali e urbane, che le forze della sinistra erano riuscite a ridurre più volte nel corso del 20° secolo.
Questa impasse strutturale del blocco della sinistra è risolvibile, per gli autori, solo a una condizione: rompere la “ripetuta tendenza a considerare il mondo rurale come strutturalmente conservatore, eternamente soggetto ai potenti e perennemente resistente al progresso e alla democrazia, mentre il mondo urbano porterebbe valori di modernità e cambiamento”. Se tanti contadini voltarono le spalle alla Rivoluzione francese, ricordano Piketty e Cagé, riprendendo gli studi fondatori di Paul Bois e Charles Tilly, «non è perché siano diventati improvvisamente conservatori. È perché sono rimasti profondamente delusi dalla loro speranza di diventare proprietari di immobili e di smettere di lavorare per gli altri”. La configurazione attuale è simile, nella misura in cui il mondo dei piccoli comuni e delle città giustamente percepisce l’evoluzione delle disuguaglianze non come “conseguenza di forze naturali o esogene”, come la globalizzazione o il progresso tecnico, ma come il risultato di scelte politiche: priorità data al TGV rispetto al TER, scelta dell’ubicazione degli ospedali e delle scuole, ecc. L’ulteriore difficoltà è che l’ampliamento del divario politico-spaziale è stato, molto recentemente, anticipato dal FN-RN e catalizzato da un fenomeno su larga scala, vale a dire la “ruralizzazione” del voto per il FN-RN. Lo sviluppo è “spettacolare” poiché durante le elezioni legislative del 1986-1988, il voto del FN si è concentrato nelle periferie e nelle metropoli. Durante le elezioni legislative del 2017-2022, la situazione “è cambiata completamente”: il blocco socio-ecologico che riunisce partiti di sinistra ed ecologisti è molto più radicato nel mondo urbano che in quello rurale, mentre al contrario, il partito nazionale del blocco patriota ottiene punteggi quasi doppi nei piccoli comuni e nelle città rispetto alle periferie e alle metropoli. Contro l’idea di un’inevitabile progressione del partito di Marine Le Pen, gli autori ricordano tuttavia che il voto del FN potrebbe essere diminuito, scendendo al primo turno delle elezioni legislative dal 15% nel 1997 e dall’11% nel 2002 al 4% nel 2007. Nel 2007-2012 il punteggio non è aumentato rispetto al 1986-1988 ma “il profilo territoriale è stato completamente ribaltato”.
Un’altra lezione: durante le elezioni legislative del 1988, il voto del FN non era solo urbano, “era concentrato nei comuni urbani con la più alta percentuale di stranieri”. Un rapporto con la presenza straniera che nel 2017-2022 scompare quasi del tutto.
Questo elemento si inserisce nella terza questione cruciale del libro: la volontà di mostrare che, anche se i temi identitari saturano i media e lo spazio politico, non necessariamente strutturano il comportamento elettorale, che resta determinato, in primo luogo, dal contesto socio-economico. -condizioni economiche.
L’inganno delle tematiche identitarie
Gli autori riconoscono che è difficile separarli “che cosa riguarda il conflitto identitario e il conflitto classista” perché queste dimensioni si intrecciano, ieri come oggi: «Alla fine del XVIII secolo e nel XIX secolo, il conflitto religioso era strettamente legato alla questione della ridistribuzione delle terre ecclesiastiche e alla loro monopolizzazione da parte delle élite urbane, poi alla questione del sistema scolastico e in particolare della scolarizzazione delle ragazze, in gran parte dimenticati dal sistema pubblico e statale. Alla fine del XX secolo e all’inizio del XXI secolo, il conflitto migratorio è strettamente intrecciato con la questione dei territori e dei servizi pubblici e con le percezioni incrociate di abbandono e favoritismo che si sono sviluppate su questo tema, in particolare tra città e comuni rurali e periferia.» Ma, nonostante la nuova diversità di origini che compone la società francese e una diversità religiosa senza precedenti, uno dei principali risultati dell’indagine è che “le variabili sociologiche legate alla ricchezza, alla professione o al diploma sono determinanti del voto molto più importanti delle variabili legate alle origini”. Per gli autori, “il fatto che il dibattito pubblico si concentri spesso su questioni identitarie testimonia soprattutto l’oblio della questione sociale e l’abbandono di ogni ambiziosa prospettiva di trasformazione del sistema economico”.
“Si vede sino a che punto un sistema rigido di categorie etno-razziali come bianco/nero/maghrebino/asiatico ispirato a quello degli Stati Uniti potrebbe avere effetti perversi nel contesto francese.» Julia Cage e Thomas Piketty
La Francia resta certamente il paese “dove il divario tra percezione e realtà è più alto” per quanto riguarda la presenza dell’Islam, poiché gli intervistati rispondono in media che i musulmani rappresentano il 31% della popolazione, cioè 23 punti in più della realtà (8%)! Tuttavia, interpretarlo come “il segno di una paura di sommersione culturale e migratoria e di “grande sostituzione” a cui nessun argomento razionale e nessun tentativo potrebbe opporsi” sarebbe un pessimismo eccessivo, secondo gli autori del libro. Per almeno due ragioni. In primo luogo, il processo di ibridazione “si svolge molto più rapidamente di quanto a volte immaginiamo, nel senso che le origini miste diventano la ultramaggioranza a partire dalla terza generazione”. L’indagine TeO organizzata dall’INED (Istituto Nazionale di Studi Demografici) e dall’INSEE mostra, ad esempio, che la percentuale di matrimoni misti raggiunge il 30-35% per le persone di origine nordafricana della generazione precedente, cioè lo stesso livello di quelli di origine portoghese. Data questa preponderanza di origini miste, affermano Julia Cagé e Thomas Piketty a proposito di un dibattito ricorrente, “vediamo fino a che punto un sistema rigido di categorie etno-razziali di tipo bianco/nero/nordafricano/asiatico ispirato a quello applicato negli Stati Uniti potrebbero avere effetti perversi nel contesto francese. Costringerebbe tutti a dover scegliere un’identità principale a scapito degli altri e potrebbe così contribuire a irrigidire i confini tra i gruppi e a esacerbare gli antagonismi”. Inoltre, questi temi identitari veicolati nei media e politicamente non “prendono” realmente a livello elettorale. “Fattori legati alla religione o alle origini giocano un ruolo non trascurabile”, scrivono gli autori. Ma, semplicemente, questo ruolo è quantitativamente molto meno importante di quello della classe geo-sociale e tende ad essere assorbito da quest’ultima. Questi risultati contraddicono l’idea di una “etnicizzazione” del conflitto politico francese e di un’inesorabile crescita del potere delle divisioni “comunitarie”, molto diffusa nel dibattito pubblico.» I risultati disastrosi nelle ultime elezioni legislative di personaggi come Manuel Valls o Jean-Michel Blanquer, che li hanno fatto propri, potrebbero costituire un altro segno di queste affermazioni.
Stabiliti questi elementi strutturanti, gli autori formulano diverse proposte e ipotesi che, più delle loro analisi, si prestano alla discussione o alla critica.
Una tripartizione politica instabile?
La più importante è la loro idea che l’attuale tripartito politico sarebbe sufficientemente instabile da prevederne l’imminente scomparsa. Il che, secondo loro, sarebbe una buona notizia per quanto riguarda la bipolarizzazione, “particolarmente forte tra il 1910 e il 1992, ha avuto un impatto determinante e largamente positivo sullo sviluppo democratico, sociale ed economico del Paese nel corso del XX secolo”. Tuttavia, poiché la dimensione predittiva delle scienze sociali è quasi pari a zero, fatta eccezione forse per la demografia, è difficile fare affidamento sulla storia per far luce sul futuro. Ci sono certamente lezioni da imparare dal fatto che la “prima tripartizione” del 1848-1910 aveva in comune con l’attuale “la divisione delle classi lavoratrici urbane e rurali tra blocco di destra e di sinistra” e che un ritorno della sinistra al potere implica porre fine a questa divisione. O ancora, in questo periodo di cacofonia a sinistra, il fatto che “queste sono soprattutto le contraddizioni all’interno dell’alleanza dei tre partiti progressisti (comunisti, socialisti, radical-socialisti) attorno al contenuto del socialismo democratico e al regime di proprietà che desiderano stabilire” che hanno limitato la capacità di questo blocco di governare il paese in modo sostenibile. Ma la fine dell’attuale tripartizione potrebbe portare, come suggeriscono, non a una bipolarizzazione sinistra/destra portatrice di progresso sociale e democratico, ma a una bipolarizzazione tra un blocco liberale e un blocco nazional-patriottico, come quello che sta accadendo in Polonia, dove il PiS (Legge e Giustizia) è riuscito a conquistare il potere sulla base di una piattaforma sociale incentrata sulla difesa delle pensioni e sulla creazione di ingenti assegni familiari, integrata da un violento discorso nazionalista, e si trova ora come l’unico rivale di fronte ad un blocco politico liberal-progressista.
Possiamo anche stimare che se la tripartizione può effettivamente essere “letta come una forma di rendita che consente a un blocco opportunista di mantenersi al potere con un rischio minore, fermando al tempo stesso il movimento verso l’uguaglianza sociale”, resta ottimistico pensare che questa “tripartizione sia strutturalmente instabile”. ed è improbabile che continui nella sua forma attuale”, poiché le attuali divisioni della sinistra e la sua incapacità di riunire le classi lavoratrici urbane e rurali sono oggi evidenti. La possibilità di una vittoria di una “classe ecologica” che risponda sia alle aspettative delle classi lavoratrici sia alla trasformazione, tanto necessaria quanto radicale, del sistema produttivo, sembra quindi rimanere lontana, e impossibile se i più svantaggiati non sono convinti a priori che la distribuzione degli sforzi e dei benefici sia la più equa possibile.
Piste per la sinistra
Resta il fatto che i due ricercatori avanzano proposte che potrebbero costituire la base di una sinistra unitaria. Come l’istituzione di “un sistema di parità sociale che imponga ai partiti di presentare almeno il 50% di lavoratori e impiegati (cioè approssimativamente la loro quota nella popolazione attiva attuale) sotto pena di sanzioni dissuasive”, sul modello della parità uomini-donne che ha mostrato la sua efficacia. O addirittura impedire che a scuola sia importante “gli stabilimenti privati sono del tutto esenti” da “procedure comuni”, mentre “le questioni educative hanno avuto un ruolo strutturante nel conflitto politico ed elettorale degli ultimi due secoli” e “lo faranno sicuramente in futuro”. Soprattutto, gli autori propongono di agire sulla distribuzione della ricchezza per ridistribuire la “proprietà in generale”, anche al di là della questione dell’accesso alla casa. La sinistra potrebbe per questo, giudicano gli autori, “proporre di stabilire un patrimonio minimo per tutti a 25 anni di età, che, per stabilire le idee, potrebbe essere in ultima analisi dell’ordine di 120.000 euro (circa il 60% del patrimonio medio per adulto attualmente)”. Questo sarebbe finanziato dalle tasse sul reddito e sul patrimonio. Ad esempio, sottolineano, basterebbe introdurre “un’aliquota CSG del 2% sui maggiori patrimoni del Paese per fruttare 20 miliardi di euro all’anno, ovvero il doppio delle risorse di tutte le economie raggiunte dal progetto di riforma delle pensioni che ha messo a fuoco e sangue il paese nel 2023. Questa azione sulla ricchezza è senza dubbio la strada migliore per contrastare la progressione del partito lepenista, che ha ancora “altrettanta difficoltà nel formulare proposte esplicite di coinvolgimento dei più ricchi”.
Il voto come esperienza soggettiva
Una seconda riserva è metodologica. In parte è dovuta al progetto stesso, che consiste nel proporre una “storia del comportamento elettorale e delle disuguaglianze socio-spaziali in Francia dal 1789 al 2022”. La forza del libro rischia, nel cercare di identificare le principali strutture di voto a lungo termine, di trasformarsi in una debolezza nella riflessione sulla parte della politica contemporanea. Ad esempio, il sollievo di constatare che le tensioni identitarie rimangono fattori trascurabili nel voto di oggi rispetto alle disuguaglianze socio-spaziali saranno ancora valide domani, mentre le “guerre culturali” raggiungono un’intensità raramente eguagliata nella strutturazione dei dibattiti pubblici? Più in generale, studiando le ragioni del voto a lungo termine, gli autori non ne perdono una gran parte? Julia Cagé e Thomas Piketty lo riconoscono: uno dei “limiti significativi del [loro] approccio e dei dati [che hanno] raccolto” è quello di aver osservato le elezioni “a livello di comuni e territori, e non a livello di singoli elettori”. Possiamo, su questa scala, spiegare ciò che loro stessi chiamano “la complessità delle esperienze e delle soggettività individuali”? Il voto è volatile e le rappresentazioni personali possono influenzare fortemente le elezioni. E questo fino all’ultimo momento – ricordiamo l’effetto del caso “Papy Voise” sulle elezioni del 2002 che per la prima volta spinse il FN al secondo turno delle elezioni presidenziali (NT: vicenda di un pensionato aggredito in casa sua da due individui non identificati che avrebbero tentato di estorcergli soldi e dopo averlo massacrato di botte avrebbero incendiato la casa prima di fuggire. L’indagine di polizia non ha mai scoperto nulla. Secondo diversi osservatori l’iper mediatizzazione di questa vicenda provocò l’eliminazione a sorpresa al primo turno del candidato socialiste Jospin a favore di Le Pen). Non potrebbe accadere lo stesso domani per quanto riguarda la guerra in Ucraina o un grave disastro ecologico, anche se l’esplosione climatica fatica a riflettersi nelle urne?
Un “blocco nazional-patriota” eterogeneo
Un altro limite metodologico è che il progetto del libro mira, in sostanza, a fornire elementi per contrastare l’avanzamento del blocco “nazional-patriota” denunciando gli effetti deleteri del controllo sul potere del “blocco centrista liberale” e dando per questo alcuni strumenti sul blocco di sinistra. Ma la definizione del blocco “nazionale-patriota” che riunisce RN, Reconquête e Les Républicains (LR) è sufficientemente solida? Julia Cagé e Thomas Piketty riconoscono che “il “blocco nazional-patriota” non è veramente un blocco politico, nel senso che le sue diverse componenti avrebbero grandi difficoltà a governare insieme”. Le sue tre componenti principali sono infatti caratterizzate da basi sociali, territoriali e programmatiche estremamente diverse, se non del tutto opposte. Che i diritti siano ormai in fusione è una realtà ampiamente consolidata, in Francia come in Europa. Ma su quali basi distinguere il blocco centrista liberale macronista da LR, quando il Presidente della Repubblica parla di “decivilizzazione” e sta preparando misure migratorie che il partito di Le Pen probabilmente condividerà? Inoltre, in alcuni territori specifici, una destra ancora repubblicana non costituisce ancora un baluardo contro la RN?
I limiti del “conflitto politico”
Un’ultima critica unisce riserve politiche e metodologiche. Dando una definizione ristretta di conflitto politico, limitata allo scontro elettorale, Julia Cagé e Thomas Piketty corrono un rischio di cui sono consapevoli. “L’esperienza degli anni ’20 mostra che il cambiamento istituzionale può avvenire molto rapidamente e ricorda l’importanza decisiva del contesto storico e delle lotte sociali, al di là dei risultati elettorali ottenuti dai diversi blocchi”, scrivono ad esempio. In questi anni, «l’ironia è che fu una delle camere parlamentari più di destra della storia della Repubblica […] ad attuare l’imposta sui redditi molto alti più progressiva, la più alta che il Paese abbia mai conosciuto. Un cambio di passo che non è legato solo alle conseguenze della guerra o della rivoluzione del 1917 in URSS, poiché si manifesta anche negli Stati Uniti, dove l’influenza di questi eventi è minore, ma dove la domanda di uguaglianza sostenuta da le strutture sindacali e partitiche sono altrettanto potenti che in Europa, soprattutto dopo la crisi del 1929 percepita come un fallimento delle élite liberali. Questa riduzione del “conflitto politico” al quadro elettorale si basa soprattutto su una scelta scientifica e metodologica. Ma non esprime anche un approccio alla politica che rischia di essere troppo misurato? Per quanto riguarda, ad esempio, la questione decisiva se lo Stato sociale forgiato nel XX secolo possa continuare a crescere, gli autori notano che “è sorprendente constatare quanto lo sviluppo dello Stato sociale sia stato interrotto dal 1980-1990 nell’insieme dei paesi europei. Tuttavia, scrivono anche, ciò non dovrebbe impedirci di sentire critiche sull’”efficacia dell’azione pubblica”, o addirittura sui rischi di aumentare la contribuzione fiscale dei più mobili e intraprendenti.
Il desiderio dei due autori di convincere un vasto pubblico restando ragionevoli e concentrandosi sul quadro elettorale è comprensibile, ma rischia di lasciare sconvolti alcuni lettori. La loro analisi dell’accelerazione e dell’inasprimento delle disuguaglianze socio-spaziali può infatti suggerire che la priorità, come sottolineano in più occasioni gli autori, è certamente la riformulazione di un’offerta politica ambiziosa e suscettibile di scuotere le strutture elettorali. Ma questa riconfigurazione elettorale rischia anche di avere difficoltà ad esistere senza qualche colpo di politico sferrato fuori dalle cabine elettorali.
Julia Cagé e Thomas Piketty, Une histoire du conflit politique. Élections et inégalités sociales en France, 1789-2022, 1789-2022, Éditions du Seuil.
La Fionda è una rivista di battaglia politico-culturale che non ha alle spalle finanziatori di alcun tipo. I pensieri espressi nelle pagine del cartaceo, sul blog online e sui nostri social sono il frutto di un dibattito interno aperto, libero e autonomo. Aprendo il sito de La Fionda non sarai mai tempestato di pubblicità e pop up invasivi, a tutto beneficio dei nostri lettori. Se apprezzi il nostro lavoro e vuoi aiutarci a crescere e migliorare, sia a livello di contenuti che di iniziative, hai la possibilità di cliccare qui di seguito e offrirci un contributo. Un grazie enorme da tutta la redazione!