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La funzione politica dell’artista


25 Set , 2023| e
| 2023 | Terza Pagina

Il dialogo tra Antonello Cresti e Roberto Michelangelo Giordi si chiama “Il bello, la musica e il potere” (Edizioni Mariù 2023). In 127 pagine si tenta di mettere a fuoco un punto nevralgico ma spesso poco sviluppato nel dibattito: qual è il rapporto tra bellezza e potere? È il potere che determina cosa è bello? Quale dovrebbe essere il giusto equilibrio tra stato e mercato nell’indirizzare i gusti del pubblico?

Nell’affrontare tali questioni, gli autori partono dalla constatazione di una generale decadenza estetica delle società occidentali. Per dirla con Giordi, “dov’è finita dunque la bellezza, e perché gli individui del nostro tempo hanno smesso di venerarla?” (p.13). C’è un generale abbrutimento (p.20), sostiene Cresti, che in realtà può essere visto anche come un abbruttimento. C’è una connessione tra il degrado etico e il degrado estetico, con un nesso causale che, per Giordi, va dal primo al secondo. Il capitalismo neofeudale produce una non-arte, congeniale al mantenimento dello status quo.

D’altronde, in questi ultimi decenni, non si sono persi soltanto i diritti sociali, ma anche un altro diritto, che forse dà sostanza o addirittura rende possibile, nella sua qualità di elevazione, tutti gli altri: il diritto alla bellezza. C’è “un’esclusione estetica” (p.24), sostiene Cresti. Le nostre periferie si sono da tempo trasformate in dormitori decadenti. È l’esaltazione della teoria della “finestra rotta” (Wilson e Kelling 1982): c’è un ruolo pedagogico sia del bello che del brutto. Si diventa simili a ciò che si frequenta, e i nostri conglomerati urbani sono una sottile ma efficace educazione al brutto e, quindi, al male.

Il punto più dirimente, ad avviso di chi scrive, è proprio il rapporto ambiguo e conflittuale che esiste tra arte e potere. Da un certo punto di vista, l’arte è sempre contro il potere istituito ma è il potere, in un certo senso, a darle spazio. È il potere che può decidere non cosa è arte ma quale oggetto d’arte esporre. Sono i “poeti laureati” che guadagnano tutte le attenzioni, e si può oramai concludere che questo potere non abbia alcun interesse a diffondere quegli artisti in grado di contattare la sorgente abissale della parola, che è sempre imprevedibile e quindi pericolosa. Al contrario di quanto ci vogliono far credere, infatti, nell’industria artistica di oggi c’è poca concorrenza, poca varietà, poco pluralismo. Si impongono quei soggetti funzionali alle narrative che i conglomerati finanziari-mediatici-culturali ritengono opportune. Ed oggi questi conglomerati sono sempre di meno. Non c’è più quel grado di concorrenza inter-capitalistica che si osservava negli anni ’60 del Novecento. Nel futuro, non sarebbe assurdo che, direttamente o indirettamente, due o tre fondi d’investimento decidano tutte le serie tv, quali romanzi pubblicare, i testi di tutte le canzoni, i murales che si possono legalmente disegnare, forse gli accordi ancora leciti da suonare etc.

Per dirla con un esempio, ci si può chiedere – non senza un brivido di terrore – se la coppia Mogol-Battisti oggi avrebbe spazio nell’industria musicale? Ci sarebbe spazio per la loro serietà? La loro dedizione maniacale? La loro differenza? La loro spinosità? Il loro non-conformismo a tutto, sia all’ideologia che alla Coca-Cola, ossia sia alle derive moralistiche che alla visione dell’arte come puro intrattenimento commerciale? Temo che sarebbe molto difficile. Si vede poca fede, troppa poca devozione. E l’arte non si amministra come un “bene culturale”. Turgenev diceva che “il nichilista è un uomo che non s’inchina dinanzi a nessuna autorità”. L’ultimo uomo è un uomo che non si inchina dinanzi a niente, neanche al bello.

Passando alla pars costruens, chi scrive ritiene che il problema sia molto grave, forse epocale. C’è una crisi generale di tutti i canoni estetici e i linguaggi artistici. Non sarebbe possibile oggi restaurare nulla, o rimpiangere un passato oramai perduto. Bisogna andare alla radice della crisi contemporanea, nella parabola di violazione dei codici artistici che comincia almeno dall’inizio del XX secolo. Bisogna ritornare a quel punto di rottura, alla feritoia, per vedere se, al di là dell’esito nichilistico in cui siamo, stia già germogliando altro.

Heidegger scriveva che “la poesia è il fondamento che regge la storia”. Per rilanciare una nuova estetica, che sia carburante visionario di una nuova politica, dovremmo capire più seriamente cosa il filosofo tedesco sosteneva. L’arte non è una rappresentazione, magari idealizzata, di un già dato, di un oggetto presente nella natura o di una data situazione sociale. E non è neanche un’imitazione che serve al più a una funzione catartica. L’arte è una forma di conoscenza. E come ci ha insegnato l’epistemologia del ‘900, la vera conoscenza è creazione. L’artista è un essere che vive in una commistione complessa, e spesso molto dolorosa perché incarnata nel suo vissuto, una via di conoscenza. Capiremo l’arte quando interpreteremo l’artista non come un bizzarro eccentrico (come sono i finti artisti che devono dimostrare di essere tali) ma come uno scienziato. L’artista ha lo stesso rigore, anzi superiore, della scienza. La differenza è che mentre lo scienziato origina lo studio del reale a partire dalla rottura tra soggetto e oggetto, e pone quindi in essere sempre una conoscenza separata; l’artista rompe questo dualismo e fa del proprio Io il luogo di accadimento e conoscenza delle correnti più abissali della storia. Da questo turbamento continuo e spesso confusionario, l’artista riesce a distillare una poesia, una canzone, un dipinto, come un liquore dolcissimo o una goccia di farmaco terapeutico.

Per rilanciare una nuova estetica, per ritornare a onorare il bello, dovremmo cioè mettere in discussione tutte le forme tradizionali di sapere filosofico, estetico, scientifico e religioso, che ancora si ritengono saperi autofondati e autosufficienti. Einstein sosteneva che “la mente intuitiva è un dono sacro. La mente razionale è un fedele servo. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono”. L’arte è il luogo dove la mente intuitiva è posta nelle condizioni di trovare una forma, un limite, una disciplina, un ambito circoscritto per esprimersi, appunto l’oggetto artistico. Questa forma di rigore e di altezza euristica può essere solo lambita dal pensiero rappresentativo o tecnico. Esso può solo cercare di ordinare qualcosa che riceve. L’arte perciò non è un’esperienza irrazionale, ma trans-razionale, dove le grandi onde dello spirito si coniugano con la carne fragile e mortale di un essere umano, con la sua lingua natale, le sue idee, la sua psiche, la sua cultura.

Se questo è vero, non è forse il tempo di rifondare le agenzie del sapere su questi principi basilari? O vogliamo ancora rinchiuderci in un’illusione scientista ricolma, in realtà, di superbia? Vogliamo creare una nuova economia, un nuovo diritto, una nuova urbanistica, una nuova pedagogia, che sappiano parlare al cuore anelante e dolente di tutti noi con parole vere, autentiche, semplici o vogliamo continuare a mentire?

Se l’arte non saprà affrontare queste problematiche si ridurrà o alla merda (come Manzoni ci ha mostrato) o al rimpianto del corpo morto. Dobbiamo invece uscire da una concezione estetico-individualistica dell’arte. L’arte è il fondamento che regge la storia, è l’istituzione del vero, come sempre sosteneva Heidegger. Se ci pensiamo, infatti, perché ci piace il bello? Perché è un’esperienza così inequivocabile, indiscutibile, che anche se magari viene suscitata attraverso oggetti diversi, alla fine diviene una sensazione così universale? Forse, perché il bello parla di noi in un modo molto più profondo di quanto noi stessi pensavamo di sapere. Ci piace il bello perché sentiamo, è cioè un’esperienza trans-razionale, che è qualcosa che ci riguarda, che ha a che fare con la nostra verità, che magari non eravamo mai riusciti ad accettare coscientemente, perché avvertiamo che ci sta rivelando qualcosa di molto importante, su di noi, sul mondo, su Dio, sul destino delle galassie, sul senso di una margherita. La bellezza ci parla della verità in una maniera molto più profonda, essenziale e radicale di qualunque teorema scientifico.

L’arte, quindi, non è tanto un passatempo, un’esperienza soggettivistica, psicologistica, legata ai “gusti”, alle reazioni estetiche di una psiche separata. L’arte è la messa in opera del vero. È la verità che si esprime massimamente attraverso le mani, la voce, il tatto, di un essere umano, ossia attraverso la sua carne. L’arte cioè ci dice che la verità è sempre un’incarnazione: non è oggettiva o soggettiva in astratto. È una storia, è la nostra storia, la nostra biografia, è un accadimento che parla a me, a te, e ci trasforma, ci trasfigura nella sua luce, in modi diversi ma anche nello stesso modo. “La bellezza è lo splendore del vero”, pensava Platone. Ma questo vero non è la verità intesa come concetto che rappresenta correttamente la cosa, che si adegua a un già dato. La bellezza è la verità intesa come rivelazione e trasformazione. L’arte rivela qualcosa, che non è tanto un concetto, ma un accadimento che agisce, che lavora, che trasforma il mondo, la storia, le relazioni, a partire dal corpo stesso dell’artista.

Da questa prospettiva, si può capire meglio il rapporto tra artista e potere. L’artista è il vero potente, anche se è sempre in conflitto con questo potere, con gli artisti del potere, che usurpano il ruolo dell’artista. Questo è il paradosso dell’arte nel suo rapportarsi al potere: è il vero canale del vero potere, eppure è perseguitata dal potere mondano. Il potere fa di tutto affinché il poetico non trovi luoghi nel mondo, non trovi spazio. Se poi proprio non riescono a marginalizzare un vero artista, quando è morto, lo ficcano in un museo o in un catalogo, per disinnescarlo.  

Ma, allora, chi è questo artista? L’artista è un uomo o una donna di confine, borderline. Potenzialmente, siamo tutti noi, perché la vocazione all’arte è la verità essenziale di tutti gli esseri umani, è una chiamata cattolica, nel suo senso etimologico. Siamo in questo mondo, ma sentiamo che questo mondo non ci basta. Viviamo in un certo orizzonte linguistico, ma siamo sempre in attesa di una parola, di una preghiera, che sovverta l’ordine del mondo, e ci dia un’apertura di respiro, un sollievo, un pianto che sciolga le nostre muraglie più antiche. L’artista vive ai margini del mondo, sebbene ne sia il re. È la parola dell’artista, è il suo servizio di cura che dà fondamento al mondo. Svolge perciò un ruolo estremamente politico e sociale, ma in un modo molto più radicale rispetto a ciò che il ‘900 ha creduto, nel senso di “artista impegnato”. L’artista vive in una vocazione dolorosa e gloriosa, di essere il centro ma anche il margine, di essere sovrano ma anche escluso, di essere il fondamento ma anche l’esiliato: è l’essere umano nella sua piena manifestazione.

I pochi veri artisti, perciò, sono coloro che vivono questo destino senza mentire, senza uscire da questo lavoro, che è innanzitutto personale. L’arte non è solo una pratica esterna, è un lavorio, un frantoio a cui l’artista vero sa che deve continuamente sottoporsi. L’arte lavora l’artista per eliminare tutto ciò che in lui non è arte. L’artista è un uomo di grandissima umiltà, che continuamente offre sé stesso per far eliminare tutto ciò che ostacola l’esprimersi della parola attraverso di lui. Gli “artisti” del potere, invece, non frequentano queste dimensioni. Perché sono falsi, infatti, questi romanzieri, questi poeti, questi cantanti? Perché sono prevedibili, recitano un copione, non c’è nessun contatto, nessuna ispirazione, nessun lavoro, nessuna disciplina e quindi nessuna esultanza, sono sempre dove ti aspetti che siano, anche se fanno finta di essere dei giramondo. Il vero artista invece sta sempre al confine, allegro, ad adempiere alla sua mansione quotidiana di rigenerazione, estremamente leggero ma allo stesso tempo profondissimo, a giocare consapevolmente in una regione dove in realtà siamo sempre tutti noi, in questo luogo, in questo spazio dilatato di amore.

“Difficilmente ciò che abita vicino all’origine abbandona la sua posizione”, scriveva Hölderlin. L’artista è colui che abita vicino all’origine: siamo noi quando ci facciamo canali, sempre precari, fragili, di una vita che ci sorprende, che ci coglie sempre impreparati, che ci commuove, che in un certo senso ci sovrasta, ma che alla fine ci ama personalmente. È il vivente che chiama l’artista, che lo convoca nella sua gioia, per farlo abitare lì. L’arte, alla fine, è una gioia abitabile. Nessun titanismo, quindi, come nell’idee più ingenuamente romantiche dell’artista. Il poeta è un uomo qualunque che però si ostina a corrispondere alla sua essenza, alla sua verità più semplice ed essenziale.

In conclusione, possiamo dire che chi sa che queste dimensioni siano vere, centomila volte più vere di tutte le azioni di borsa, di tutti i loro titoli, di tutti i loro fondi pensione, di tutte le loro carte di credito, sa che c’è un nesso fondativo tra l’arte e un’azione politica rivoluzionaria. Il bello, questa apertura di luce che ora è presente, è una possibilità sempre nuova rispetto al già dato, all’immanenza più statica, è cioè un orizzonte intrinsecamente eversivo.

Ma la rivoluzione del bello è radicalmente diversa dal significato che siamo soliti affidare al termine “rivoluzione”. Il bello, infatti, è per natura non violento. È sempre un invito. La bellezza è un’apertura gentile, un appello soave, una convocazione e mai un ordine. È un sorriso che ci convoca, che ci chiede di seguirla, di essere semplici devoti, senza mentire, e di farci lavorare dolcemente alla trasparenza della sua luce. E allora, potremo capire, ciò che scrive Marco rispetto alle parole di Gesù rivolte al giovane ricco, ma che possiamo sentire indirizzate a noi singolarmente, come questo gentile invito della vera bellezza a farci suoi discepoli. “Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!»”. (Mc 10,21).

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