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Il futuro delle relazioni italo-cinesi
Intervento fatto in occasione della tavola rotonda “Il futuro delle relazioni italo-cinesi”, tenutasi al Senato della Repubblica il 28 settembre 2023.
Io sono un giornalista e quindi mi concederò qualche licenza poetica per fare un intervento un po’ più politico di quelli che mi hanno preceduto. Inizierei col dire che da un certo punto di vista non possiamo che accogliere con favore il fatto che, nel momento in cui il governo si appresta ad uscire dalla Belt and Road Initiative (BRI), dalla Via della Seta – che è un accordo che ha un valore politico e simbolico, oltre che economico –, lo si voglia quantomeno sostituire con il rilancio del “partenariato strategico globale” istituito nel 2004 dal Presidente Berlusconi, un accordo di carattere strettamente economico ma meno politicamente controverso. Ciò dimostra un minimo di pragmatismo economico, un minimo di consapevolezza rispetto all’importanza di mantenere i rapporti economici con la Cina.
Ma non rende meno grave o problematica la decisione, a mio avviso. Perché è inutile prenderci in giro: per quanto il governo adduca ragioni economiche per il mancato rinnovo dell’accordo – tra l’altro inventandosi anche dati di sana pianta, come hanno fatto alcuni ministri, parlando di importazioni triplicate dalla Cina – è ovvio che siamo di fronte a una decisione che è politica al 100 per cento. Anche perché il peggioramento della bilancia commerciale italiana nei confronti della Cina è un fenomeno che va ricondotto a ragioni strutturali dell’economia globale e a ragioni endogene (o meglio autoindotte, ovvero la crisi energetica riconducibile al regime sanzionatorio (o auto-sanzionatorio, potremmo dire) nei confronti della Russia, e non ha assolutamente nulla a che vedere con la Via della Seta.
Quindi siamo di fronte a una decisione eminentemente politica: questo dovrebbe essere ovvio a tutti. E questo è grave. Rinunciare a quello che è potremmo definire un accordo di amicizia con la Cina – dal valore simbolico, prima ancora che economico – sarebbe grave a prescindere, visto il peso e l’importanza geopolitica della Cina. Ma è ancora più grave nel momento in cui avviene in cui contesto globale in cui assistiamo a una profonda frattura politica tra blocchi geopolitici, a un’acutizzazione dei rapporti tra Occidente (e Stati Uniti in particolare) e Cina, al punto che ormai possiamo parlare apertamente di nuova guerra fredda.
Acutizzazione dei rapporti – e su questo dobbiamo essere chiari – determinata in maniera quasi unilaterale dagli Stati Uniti, che ha avviato quella che può definirsi a tutti gli effetti una guerra economica nei confronti della Cina, e cosa ancor più grave, che nelle intenzioni di certi settori dell’establishment statunitense sembrerebbe preparare il terreno a un vero e proprio scontro militare. Queste non sono supposizioni; sono un’evidenza che si può evincere da dichiarazioni di esponenti militari americani, e in maniera ancora più evidente dall’escalation militare statunitense nella regione dell’Indo-Pacifico.
In questo contesto, è evidente che la Via della Seta è una questione che va ben al di là delle questioni meramente economiche: qui sono in gioco i destini non solo dell’Italia, ma per certi versi del mondo intero. In questo contesto estremamente pericoloso, pensiamo veramente che l’interesse dell’Italia risieda in un’adesione dell’Italia alla strategia americana della logica della scontro tra blocchi?
Da questo punto di vista, la fuoriuscita dell’Italia dalla Via della Seta manda un segnale molto negativo, perché segnala una preoccupante subalternità nei confronti di questa strategia. Ora, l’Italia, come sappiamo, è sempre stata – in particolar modo negli ultimi decenni – fortemente collocata nella sfera d’influenza statunitense, a cui, sempre negli ultimi decenni, si è aggiunta una subalternità altrettanto pesante nei confronti dell’Unione europea, che per certi versi può considerarsi uno strumento di proiezione del potere americano in Europa – basti considerare la politica portata avanti dalla von der Leyen di totale allineamento alle politiche americane. Ecco, se il netto collocamento dell’Italia nella sfera americana è sempre stato discutibile, a mio avviso, fino a non troppo tempo fa, fino a 10-15 anni fa, quantomeno questo avveniva in cui contesto di indiscussa egemonia statunitense e occidentale a livello globale, da cui gli Stati Uniti – e l’Occidente, più in generale – traevano degli evidenti vantaggi.
Ma oggi siamo in un contesto completamente diverso. Quando parliamo dell’emergere di questi nuovi blocchi egemonici, parliamo sostanzialmente del blocco occidentale a trazione americana e del blocco BRICS a trazione cinese. Ora, accettare una logica di scontro tra blocchi – attraverso l’ancoraggio netto dell’Italia al blocco occidentale – sarebbe eticamente discutibile, dal punto di vista delle implicazioni militari, ma potrebbe avere un senso se parlassimo di blocchi più o meno equilibrati a livello di peso economico, di estensione geografica, demografica ecc. Ma non è questo il caso. Da un lato abbiamo il blocco occidentale – che riunisce un numero limitati di paesi: Stati Uniti, Unione europea, Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud. Parliamo di circa un miliardo di persone su una popolazione mondiale di quasi otto miliardi.
Oggi il blocco a trazione americana è questo, di fatto quasi non esiste più una vera sfera d’influenza allargata americana, al di fuori dei protettorati occidentali in senso stretto, nel senso di paesi che seguono le strategia americane (a parte qualche paese nell’Indo-Pacifico dal punto di vista militare, in chiave anti-cinese). E questo lo si vede chiaramente dal comportamento della comunità internazionale nei confronti della politica NATO sulla questione Russia-Ucraina: a prescindere dalle votazioni in sede ONU, al di fuori del succitato blocco occidentale, nessun paese – ripeto, nessun paese – ha imposto sanzioni alla Russia, e men che meno ha inviato armi o sostegno di altro tipo all’Ucraina. Anzi, molti paesi hanno addirittura rafforzato i rapporti con la Russia e con la Cina. Questo la dice lunga sul declino strutturale, terminale dell’influenza statunitense e occidentale nel mondo.
E qui veniamo all’altro blocco, che è ovviamente il gruppo dei BRICS. Gruppo dei BRICS, a trazione cinese, che – a differenza del blocco occidentale – si sta espandendo a dei ritmi spaventosi. Come è noto, all’ultimo vertice di Johannesburg, al gruppo originario – comprendente Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – si sono aggiunti altri sei paesi: Argentina, Egitto, Etiopia, ma soprattutto Iran, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Ora, con l’ingresso dei nuovi paesi, il nuovo gruppo BRICS rappresenta quasi il 50 per cento (il 47 per cento per la precisione) della popolazione mondiale e il 37% del PIL globale a parità di potere d’acquisto, a fronte di una fetta del PIL globale rappresentata dai paesi del G7, sempre a parità di potere d’acquisto, inferiore al 30 per cento. E ovviamente la forbice è destinata ad allargarsi, visto che i paesi dei BRICS crescono a tassi molto più rapidi dei paesi occidentale. C’è poi la questione delle risorse: l’integrazione di due dei principali paesi produttori di petrolio al mondo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, significa che i BRICS oggi controllano più del 40 per cento della produzione globale di petrolio.
Ma questa forbice è destinata ad allargarsi ulteriormente, anche da un punto di vista demografico, se consideriamo che 40 paesi hanno già fatto richiesta di entrare nei BRICS. Quindi, quando parliamo di questi due blocchi, in realtà parliamo dell’Occidente da un lato e di buona parte del resto del mondo dall’altro: “the West and the Rest”, come dicono gli inglesi. In sostanza, attraverso le sanzioni e il pieno sostegno militare all’Ucraina, l’Occidente pensava di isolare la Russia; e invece ha finito per isolare se stessa. E qui bisogna capire le ragioni di fondo di questi movimenti tettonici a livello globale: i paesi non aderiscono ai BRICS solo per ragioni di mero interesse economico, ma vi aderiscono anche per ragioni ideologiche: la vedono come un’occasione per spodestare un ordine globale a trazione occidentale che ormai nessuno nel mondo vuole più. E le ragioni di quella che è a tutti gli effetti una rivolta anti-occidentale – vedi le rivolte anti-occidentali in Africa, per esempio – vanno comprese, questa domanda di multipolarità va compresa, di fronte a un ordine mondiale che viene percepito, a ragione, come sbilanciato, ingiusto, violento.
Purtroppo, gli Stati Uniti stanno rispondendo a questa domanda di cambiamento con una chiusura totale, anzi, con un atteggiamento estremamente aggressivo, che ha come unico obiettivo la difesa a tutti i costi dell’egemonia americana – ergo la guerra per procura alla Russia, la guerra economica alla Cina e la preparazione a una guerra militare alla stessa. Siamo di fronte a un impero in declino oggettivamente fuori controllo. E al di fuori del blocco occidentale, i sondaggi dimostrano che c’è una netta maggioranza di persone che la pensa così.
Francamente, di fronte a questo scenario, legarsi a doppio filo al dominus americano mi pare una strategia non solo irresponsabile dal punto di vista geopolitico ma suicida dal punto di vista economico. Soprattutto se consideriamo che ormai gli Stati Uniti evidentemente non vedono i paesi europei neanche più come alleati: ci vedono come vassalli, da ri-egemonizzare dal punto di vista economico (vedi il passaggio dal gas russo al gas naturale americano) e dal punto vista militare (vedi l’allargamento della NATO). Ma ci vedono anche competitor, da indebolire economicamente. A mio avviso la strategia statunitense della NATO in Ucraina va letta anche in quest’ottica.
Quindi, quando parliamo di Via della Seta, il nocciolo della questione è: vogliamo farci trascinare in una guerra (prima economica, poi potenzialmente militare) contro la Cina, dopo esserci già fatti trascinare in una guerra suicida contro la Russia? A mio avviso sarebbe una scelta suicida, ma la decisione di fuoriuscire dalla BRI punta in questa direzione.
E il paradosso è che questo nuovo scenario multipolare potrebbe rappresentare una grande opportunità per una media potenza come l’Italia che volesse ritagliarsi dei margini di autonomia, non schierandosi con la Cina in questo scontro ma scegliendo una posizione di neutralità, come sta facendo l’Ungheria, per esempio. Questo però richiederebbe una classe politica all’altezza della situazione che ahimè non abbiamo: una classe politica cioè che abbia il coraggio, non dico di sfidare, ma almeno di ammettere la realtà del vincolo esterno: cioè la troika Stati Uniti, NATO, UE (che poi è un sistema unico). Cosa che purtroppo nessuno sembra avere il coraggio di fare.
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