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Lo spettacolo del capitale
Chissà cosa ti aspetti da uno spettacolo teatrale dal titolo Il capitale. Un libro che non abbiamo mai letto, di Kepler-45.2. Magari l’hai pure letto o ne conosci delle parti. Magari sei passato attraverso l’inesauribile sofisticare degli accademici, o delle opposte scuole di pensiero, che se lo sono strattonato per giustificare di volta in volta la fuga dal lavoro, la fine del lavoro, la fine del valore-lavoro, la fine della lotta di classe.
E invece ti trovi di fronte all’incontro tra un gruppo di teatranti e un gruppo di operai, le cui vite per un breve lasso di tempo si sono incrociate, contaminandosi.
In mezzo per sommi capi la storia di GKN, dalla Fiat al Fondo Melrose, a Borgomeo, tutti i volti pirateschi e speculativi del capitalismo, finanziario o no, i licenziamenti di Melrose e quelli che QF si prepara a riaprire, la stessa sprezzante indifferenza per la vita di 442 famiglie, cinicamente lasciate soccombere senza mezzi di sussistenza, senza stipendio, senza prospettiva per il futuro.
In mezzo ci sono le performances del titolo in borsa e la speculazione sul suo rendimento, liberato dalla zavorra operaia, peraltro un po’ troppo politicizzata. Per aumentare il valore di un titolo si può comprare uno stabilimento, riempirlo di robot di ultima generazione, e poi svuotarlo, svenderne i pezzi, cedere un capannone e un’area per farne magari una banale speculazione immobiliare.
Nella fabbrica occupata dagli operai, senza padroni, per incanto rifiorisce la vita. Artisti, studiosi, studenti, attivisti, sindacalisti, attori, musicisti, scrittori, storici, filosofi, registi, movimenti anticapitalistici, ambientalisti, antimilitaristi si danno appuntamento lì. Lì dove gli operai della GKN chiamano a raccolta il variegato mondo del lavoro -a tempo indeterminato e determinato, licenziato e precario- e con loro progetta l’insorgenza. 5000, 15.000, 40.000 in un’escalation per le strade di Firenze, di Bologna, di Roma, di Napoli, dove il lavoro viene offeso, centinaia e centinaia le assemblee in lungo e in largo per l’Italia, a incontrare, parlare, connettere, intrecciare fili.
Nella fabbrica liberata esplode la creatività: Festival di letteratura della working class, concerti, spettacoli teatrali, incontri, assemblee, produzione di libri: la fabbrica è trasformata in un luogo di formazione culturale, di spazio ricreativo, di contro-informazione. Il meglio delle energie, delle risorse, delle competenze di alcune migliaia di persone è condiviso, messo in circolo, nella consapevolezza che la liberazione è un processo comunitario.
La fabbrica occupata diventa il luogo della progettualità dell’alternativa: vengono elaborati piani anti- delocalizzazione, progetti di riconversione ecologica, piani industriali, campagne di azionariato popolare. Viene richiesto che la fabbrica sia rilevata con fondi pubblici e data in gestione alla cooperativa operaia, che vuole riappropriarsi del suo lavoro.
Diventa anche un luogo di comunità, aperta, inclusiva, oppositiva: la “nostra famiglia allargata” -come la chiamano – che include tutti quelli cui il capitale ha portato via un pezzo di vita o persino il senso della vita, quelli, il cui libro, appunto, non abbiamo letto, perchè invisibilizzati e silenziati.
E’ una famiglia politica, che costruisce legami affettivi: lì si condivide e si scambia il cibo, si accudiscono insieme i figli, ci si sorregge e ci si corregge vicendevolmente, si mettono in relazione storie personali e vissuti diversi. Legami politici e affettivi, che affondavano le loro radici, ancor prima dell’occupazione, nell’impegno degli operai della GKN nella lotta sindacale, nella creazione del Collettivo di fabbrica, capace di esercitare forme di controllo operaio molto avanzate e pronto a rispondere tempestivamente con la lotta organizzata. Legami che si espandono oltre la loro famiglia, sino a includere le lavoratrici delle ditte appaltatrici, le prime ad essere fatte fuori, le cui sorti vengono associate a quelle degli operai. Marceranno con loro, in prima fila, condividendo uno stesso, unico destino.
Al centro dello spettacolo teatrale Il Capitale c’è la storia di uno dei tanti incontri che hanno avuto luogo in fabbrica: uno di quelli che ti contamina, perchè ti fa andare al fondo delle cose, dietro le illusorie e mendaci rappresentazioni dominanti. Ha un effetto straniante sugli attori stessi, che non riescono a ritornare alla loro vita di sempre, a farsi andare bene convenzioni, ricatti, condizionamenti. Ti senti un coglione dentro una vita che non riconosci più tua, dentro rapporti che senti estranei, dentro estenuanti rincorse di affermazioni narcisistiche e patologiche di sé. Nel monologo di uno dei protagonisti, c’è tutta la nausea nei confronti di una vita che avverti inaccettabilmente inautentica, dove il dominio del capitale, con le sue lusinghe e promesse di successo e piacere, ti avviluppa in una spirale senza luce.
Nelle parole dell’attore, messo in crisi dai valori senza potere, che ha introiettato nella fabbrica occupata, anche tu ti senti un coglione, imprigionato dentro la spirale dell’appropriazione delle merci, della mercificazione dei rapporti, della ricerca di una illusoria identità di sé. Nemmeno vedi che dietro/dentro quella merce c’è il lavoro di esseri umani che, per produrla, non riescono a vivere una vita decente, o che sono stati licenziati e sono in lotta senza stipendio. Nemmeno ti rendi conto che quella merce diventa la forma universale della strutturazione sociale, mentre le qualità sociali e i rapporti umani inerenti alle merci ti appaiono come qualità naturali o rapporti tra le cose.
Dopo 27 mesi di occupazione, è nell’aria l’imminente arrivo della comunicazione di QF di voler procedere ancora una volta coi licenziamenti.
Ma tu vuoi continuare ad essere un coglione per tutta la tua vita?
“Vogliamo saltarci sopra insieme su questo paradosso e far tremare la terra? O vogliamo cadere?”
PS: Un ringraziamento speciale a Insolito Festival, ed in particolare a Beatrice Baruffini, che hanno portato questo spettacolo a Parma.
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