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Nient’altro che marketing
Da qualche giorno è oggetto di discussione, se non di una vera e propria levata di scudi, la liceità o meno dell’ultimo spot che pubblicizza la nota catena di supermercati Esselunga. La pubblicità ha per protagonista una bambina di cinque anni che tramite un espediente proverebbe a far riavvicinare la madre e il padre divorziati.
Le accuse nei confronti dell’infelice pubblicità sono riassumibili in due “macro”- argomenti.
Innanzitutto, essa strizzerebbe l’occhio alla cosiddetta “famiglia tradizionale”, stigmatizzando di conseguenza le famiglie dei separati nel fare ingiustamente leva sul loro senso di colpa, ponendosi dunque sulla falsa riga di “presunte” posizioni del governo al riguardo (financo l’attuale presidente del consiglio ha voluto dire la sua, uscendosene con uno stucchevole – e opportunista ancorché finto ingenuo – “Io lo trovo molto bello e toccante”).
Poi che, ammesso e non concesso che la pubblicità metta in scena un modello di famiglia che funge da controcanto rispetto a quello sdoganato della “famiglia mulino bianco”, modello peraltro da ritenere anch’esso oramai ampiamente “normale” o “normalizzato” (visto che la media del numero dei divorzi è circa la metà di quello dei matrimoni), nel quale è dunque possibile – se non, perfino, auspicabile – rispecchiarsi, allora, non sarebbe certo il ruolo di una bambina di cinque anni quello di “mettere le cose a posto” tra i due adulti.
Ma la reazione più semplice, immediata, è il crittogramma di una ferita sociale, collettiva. Sarebbe frivolo pensare che si tratti di una questione frivola, che non merita di essere presa in considerazione e in questo senso è un bene che essa sia stata dibattuta e che venga discussa.
Tuttavia, in qualunque modo stiano effettivamente le cose su quel piano, occorre qui almeno abbozzare una diversa proposta interpretativa della faccenda.
Per questo bisogna ribadire con forza e nettezza che, semmai, la natura più autentica del problema risiede nel fatto che la pubblicità, dalla réclame fino a oggi, ha sempre avuto un solo e unico scopo: vendere la merce. Si tratta sì di una constatazione banale ma che, a quanto pare, non è così banale ricordare.
Alla pubblicità, infaticabile agente della merce, non importa assolutamente nulla della famiglia tradizionale né di quella “arcobaleno”, felici, infrante o da riparare che esse siano. E non si tratta qui nemmeno della sovrastruttura che vuole astutamente conservare la struttura, ma solo appunto della cieca volontà di vendere sfruttando quanto più è possibile qualsiasi mezzo a disposizione. Così recita il suo arcano. L’idea di promuovere qualcosa come una famiglia tradizionale o “naturale” è soltanto uno specchietto per le allodole.
Eppure rispetto a questo ci si indigna sui social, sui giornali o per bocca di più o meno scialbe figure nei salotti televisivi e si dibatte animatamente sul fatto che non spetta ai bambini riallacciare i rapporti tra madre e padre o che si ammicca a torto o meno alla famiglia tradizionale. Non c’è un alito di pensiero che neanche si sogni di porsi al di fuori di uno scontro che non sia meramente ideologico. Ancora una volta, si cerca soddisfazione solamente sul piano narcisistico-espressivo e mai anche su quello sostanziale.
Ma, si diceva, la reazione più immediata è foriera di verità, in almeno due sensi: in primo luogo, per quanto si faticherebbe a ritenerla tale, la verità che si annida in essa manifesta in modo palmare l’appiattimento quasi totale delle coscienze su un certo stato di cose, ossia l’incapacità diffusa e onnipervasiva di mettere in discussione le basi storiche (e perciò mutabili) del presente e che fa sì che le si accolga invece come un assiomatico (quindi immutabile) dato di natura; in secondo luogo, essa registra il fatto, consapevole e inconscio a un tempo, che non spetta mica alla pubblicità dell’Esselunga (né a quella della Fineco o a chicchessia) veicolare questa o quell’altra visione della società, ovvero articolare una certa narrazione più o meno impropriamente pedagogica.
Il paradosso è che un’indignazione lecita e reale, quella per un’intromissione indebita che tocca i pulsanti “nervi scoperti” del mutilato soggetto complessivo, viene vissuta in modo irreale e come se l’intero mondo stesse sognando.
Che la questione sia in prima istanza e essenzialmente legata al profitto non è stato menzionato se non en passant. Che l’effettivo motivo scatenante sia già sempre indebitamente derubricato a quello a cui oggi esso è oggettivamente ridotto nel mondo contemporaneo: qualcosa di assodato che non ha veramente importanza, proprio perché è implicito che “le cose stanno così e non possono per nessun motivo stare diversamente”.
Ma che a questi scopi venga allestita una recita di tal genere, che la mercificazione s’insinui sin nelle pieghe più intime di situazioni dolorose e sfrutti quelle stesse situazioni ai suoi fini, che questa precisa ragione avrebbe dovuto piuttosto ben causare indignazione, poiché è questa cosa e nessun’altra a rivestire la massima importanza ed è essa soltanto che meriterebbe tutta l’attenzione, tutto ciò passa sotto ignaro silenzio.
Il livello di follia condivisa a cui si è giunti dimostra invece come è stata sufficiente una pubblicità di trenta secondi a innescare un dibattito totalmente alienato di tre giorni. Si badi, di nuovo, questo non significa affatto che i suoi vari portavoce non siano sinceri o sinceramente indignati, ma che questi restano confinati dentro uno spazio che non gli consente di avere un’effettiva presa sulle vere cause della loro pur lamentata condizione.
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