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Poesia operaia: su “Trucioli” di Matteo Rusconi


6 Ott , 2023|
| 2023 | Recensioni

In “Trucioli” (Aut Aut, 2021, collana Récit diretta da Felicia Buonomo) Matteo Rusconi realizza un identikit di classe: lo spazio geografico della fabbrica costituisce l’habitat claustrofobico dove si materializza la classe operaia con i propri segni distintivi (“la solita tuta blu sbiadita dai troppi lavaggi/la maglia nera di uno stock comprato in saldo/i guanti bianchi che in poche ore/avranno già cambiato colore”).

La dimensione della fabbrica non resta però mitemente relegata nei luoghi e tempi di lavoro (“Mi porto a casa il rumore della fabbrica/come un reduce porta dentro di sé/il ricordo della guerra”: questi versi aprono il libro); essa infatti invade lo spazio del tempo libero e la sfera privata dell’individuo-operaio, inseguendolo nei sogni (“questo olezzo che sento (…) Lo ritrovo indefesso (…) Chissà se nottetempo/avrò un altro profumo”) e perseguitandolo nella psiche (“reclama la mia schiena/mi vuole possedere con i suoi meccanismi”).

Qui mi sovviene spontanea la riflessione che il lavoro sotto l’ombrello neoliberista (e la correlata competizione sociale), tanto condizionante nei confronti della nostra mente (vedi i disturbi psicologici del nostro tempo, buona parte dei quali  correlati, direttamente o indirettamente, al lavoro), favorisce il dominio delle élites nella misura in cui ha facilitato l’estromissione dal dibattito pubblico di qualsiasi progetto o iniziativa intorno a un bene comune capace di mobilitare la nostra coscienza, sostituendolo con l’anelito alla mera sopravvivenza e contribuendo così a forgiare quell’Io minimo teorizzato da Christopher Lasch.

Il lavoro in fabbrica dunque, organizzato in base ai turni (le due parti in cui è suddiviso il libro sono non a caso intitolate “turni”) e scandito da ritmi tayloristici, provoca alienazione e annichilimento (“Mi avvolge/il suono del parcheggio deserto./Dentro,/il tormento” e ancora “Non c’è alcuna vita, all’uscita: soltanto/un cane che latra laggiù, a oltranza”). Il tempo del lavoro è annichilente (“Divento epilettico/fissando i neon che balbettano”) nel senso etimologico di ridurre al nulla ed è riducendo a un niente la coscienza dell’operaio che esso diventa religione (“Il turno è finito/andate in pace”), unico orizzonte venerabile o almeno auspicabile (“si richiede la massima devozione/e di scambiare il volto di Dio con quello del padrone”).

La risposta a questa coercizione può risiedere nella necessità di ricerca di un senso esistenziale che è andato smarrito (“le tracce di una poesia e una bicicletta:/che mi guidino all’uscita/fino all’uscio di casa”). L’emancipazione cui qualsiasi ricerca non meramente estetica abilita l’uomo (per l’Autore, la ricerca poetica) rifluisce direttamente sul lavoro (“A volte una poesia mi cade dalla testa/come fosse un caschetto slacciato:/può sembrare una schifezza/per me è salvezza e vita che filtra” e ancora “È tra questi miasmi che nascono i miei versi”), per coniugarsi in una dinamica di scontro con il capitale, che beninteso ha la meglio (“è per grazia da noi concessa/timbrare un cartellino/perdere lo status di Poeta”: recitano i versi di un brano la cui voce è quella del padrone).

La presa di coscienza dell’Autore, sebbene consapevole dell’estensione collettiva della questione, sembra condannata, almeno temporaneamente, a rimanere isolata: la classe operaia che egli affresca pare non disporre degli strumenti per rendersi conto della propria condizione (“Ci sarà uno sciopero?/Qualcuno è stato licenziato?/Non saranno state pagate/le ore di straordinario?/No, si discute/per un cazzo di rigore non dato”) e resta in balia del capitale come “una barca in mezzo al mare”; ma quel che più mi ha dato da riflettere è la latitanza dei sindacati, che compaiono soltanto in occasione della crisi seguente la pandemia (“lo scontro fra sindacati e Stato/per la chiusura degli impianti”), lasciando gli operai alla loro guerra tra poveri (“Varcata la cancellata/siamo legionari che si conquistano il pane”), sotto la sorveglianza del capitale (“Dal vetro del suo ufficio/il principale ci osserva, scuote la testa”), protetto nella sua bolla d’oro.

Le poesie di “Trucioli”, pur in larga parte scritte in prima persona, sono ben distanti da qualsiasi sabotaggio autoreferenziale: la scrittura risulta anzi notevolmente identitaria, nella misura in cui rende una rappresentazione della classe operaia colta nella vita in fabbrica, o meglio nel Corpo Vivente-Fabbrica (perché la fabbrica è un corpo mostruoso che vive di per sé nella poetica dell’Autore: “La fabbrica è una bestia che nera non riposa,/ha denti d’acciaio cariati di polietilene” e ancora “Le macchine all’interno sono diavoli che non dormono”), come una discreta, attenta e fedele scatola nera. Ebbene questa scatola è una delle prime fonti da consultare e indagare, in caso di disastro (e nel nostro Paese siamo sprofondati per almeno un piede in un disastro economico e sociale), per lavorare attorno alla riedificazione di una coscienza di classe.

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