Geopolitica oggi
Il rinnovato interesse nei confronti della geopolitica necessita l’apertura di un serio dibattito in merito ad essa: sui suoi presupposti, sui suoi fondamenti impliciti. Considerare, infatti, la geopolitica come una disciplina neutrale, asettica significa, implicitamente, donare ad essa un valore di oggettività, di scientificità, come se essa, in realtà, non celasse al suo interno un punto di vista ben definito sulla realtà e, più in generale, sull’essere umano tout court. Solamente dunque una riflessione critica su questa materia può mostrarne la sua parzialità, con le sue possibilità ed i suoi limiti, e, simultaneamente, da questo confronto è possibile anche che si riveli con maggiore chiarezza la nostra visione politica antagonista. Della geopolitica, in ultima istanza, dobbiamo estrarre quel nocciolo razionale, ciò che a noi serve per contrastare il mondo contemporaneo: fare nostre alcune sue categorie, piuttosto che farci ingabbiare da esse, senza possibilità di uscirne.
Geopolitica e totalità
Un primo elemento da sottolineare: con la geopolitica è tornato al centro del dibattito pubblico il problema della totalità. Una totalità che potremmo definire di tipo orizzontale (intesa, cioè, in una dimensione spaziale, più che temporale) che lega strettamente le varie parti del globo tra loro e aiuta a considerare, finalmente, il problema dell’unità del mondo: ciò che accade in un singolo luogo si relaziona sempre (seppur a livelli differenti, dipendenti dalla specificità del contesto) all’intero globo. E qui vi è un punto decisivo anche per la costruzione di una forza antagonista: la questione della totalità aiuta, infatti, a rifuggire da concezioni spontaneistiche e a considerare, piuttosto, il problema dei rapporti di forza – quelle che, in altri termini, potremmo definire le condizioni oggettive imposte dalla realtà. Il tema della rivoluzione riacquisisce, in questo modo, il carattere di un progetto di lunga durata, in cui dover tener conto, di contingenza in contingenza, degli spazi e delle possibilità concesse dalla realtà esterna per far sì che il processo di trasformazione possa progredire.
Geografia e cultura di un paese.
Rifuggendo ogni determinismo, un ulteriore elemento di rilievo da sottolineare è il seguente: l’importanza di considerare il territorio e lo spazio (la geografia), così come la necessità di tener conto delle sedimentazioni ideologiche, simboliche di una determinata cultura (la storia). Da qui la necessità di pensare ogni progetto teorico-politico storicamente, di rifuggire dall’astrazione di ideali validi per ogni tempo ed in qualsiasi luogo; tentare, piuttosto, di incardinare una determinata visione del mondo nelle condizioni, e nelle gradazioni differenti, imposte dalla realtà. Il punto, così come prima con il problema della totalità, è la necessità di non sopravvalutare l’elemento volontaristico, per ripensare, piuttosto, la soggettività politica e le condizioni oggettive come strettamente interrelate. Qui l’elemento fecondo su cui riflettere: la necessità di pensare, in estrema sintesi, il problema della trasformazione sempre traendo origine dal vigente.
Politica estera e Weltanschauung
Da qui la necessità, per qualsiasi forza antagonista, di tenere in stretta considerazione la politica estera, così come le relazioni internazionali. Quest’elemento, pur decisivo, non deve, tuttavia, esser assolutizzato, divenendo il fine ultimo della riflessione: è sempre, infatti, il progetto di trasformazione della realtà a dover costituire la luce-guida che ci deve orientare nelle relazioni internazionali. Insomma, la politica estera non si deve mai autoriferire, ma deve esser sempre in relazione ad una Weltanschauung, ad una concezione, necessariamente parziale, del mondo. Ritorna, circolarmente, quanto sostenuto in precedenza: le condizioni imposte dalla realtà non devono essere interpretate nei termini di una presunta scientificità, in modo neutrale; piuttosto, il problema della totalità (orizzontale, spaziale) deve entrare, costantemente, in relazione con la problematica del punto di vista. In una formula sintetica: non la politica estera per la politica estera, ma la politica estera funzionale alla trasformazione della società (problema della rivoluzione).
Note sul determinismo
La geopolitica moderna tende alla critica di un determinismo di carattere geografico (il fatto, cioè, che la geografia determini, in modo univoco, le scelte dei singoli paesi): questo, infatti, è considerato il peccato originale della disciplina, da cui dover prendere le distanze. Da qui una sempre maggiore attenzione verso la dimensione storica, culturale, simbolica degli eventi: in questo, infatti, risiederebbe quella pluralità in grado di spezzare l’univocità propria di quel determinismo geografico. Eppure, anche nella forma moderna di questa disciplina, sembra esserci un univoco modo di ragionare, che può esser sintetizzato in questa formula: l’accrescimento o la diminuzione della potenza (da declinare, nel migliore dei casi, nell’equilibrio tra potenze o nel mondo multipolare, su cui ritorneremo) – il fatto, cioè, che il carattere della potenza rappresenti la chiave, ultima, nell’interpretazione della realtà storica. Procedere, dunque, dalla geografia alla storia, e dalla storia all’ideologia, non significa mutare quelle che potremmo definire le strutture fondamentali della geopolitica: quest’ultima, infatti, seppur ampliata negli orizzonti, continua a permanere strettamente logica, univoca, inattaccabile dall’interno – di carattere deterministico, in estrema sintesi, nei suoi fondamenti teorici.
Rifuggire l’idealismo astratto: per un’altra politica di potenza
Ciò, tuttavia, non deve condurre ad una critica tout court delle problematiche della forza e del potere: come se quest’ultime siano sempre da rifuggire per conservare una presunta purezza, o, ancor peggio, come se sia possibile progettare una trasformazione della società senza esaminare i rapporti di forza vigenti. Fronteggiare, infatti, l’ordine dominante senza mettere a tema il problema della forza significa, in definitiva, farsi assorbire dal contesto egemone: ‘le nazioni che [..] deliberatamente scelgono l’impotenza [..] rischieranno di essere infine assorbite dai vicini più potenti’ (Spykman, America’s Strategy in World Politics). Tutto sta quindi, piuttosto, nel modo in cui si concepisce la questione della forza, nell’uso che se ne fa: il problema, cioè, è quello di costruire un’altra politica di potenza che sia, simultaneamente, distante da quello che si definisce come idealismo astratto. Il potere e la forza, come in precedenza la politica estera, non devono mai divenire fini in sé, le chiavi ultime della spiegazione della realtà: il conflitto per il potere, pur necessario, deve esser sempre legato alla lotta per la trasformazione della società nella sua totalità. La creazione di un contro-potere si relaziona, dunque, a quel progetto complesso, di lunga durata, di rivoluzione di questo mondo: la costruzione di un’altra politica di potenza significa così legare il problema della forza a quello della Weltanschauung – la necessità, in una formula, di rifuggire il potere per il potere. In uno scenario molto futuro, o forse utopico, vi è la speranza che la forza (seppur impossibile da dissolvere in modo totale) possa, tuttavia, esser subordinata ad altri aspetti più importanti (essenziali) della nuova società.
Annotazioni sul mondo multipolare
Senza esaminare, in modo specifico, le questioni politiche odierne, si vuole proporre una riflessione di carattere generale: la proposta di un nuovo ordine mondiale di carattere multipolare sembra essere la chiave di una possibile risoluzione dei conflitti. Un cosmo, cioè, nuovamente fondato su differenti poli geografici e, dunque, sull’equilibrio tra potenze e sulla ripartizione delle loro rispettive aree di influenza. Il punto qui non è contraddire questo principio, probabilmente appropriato per il contesto presente, quanto, piuttosto, proporre uno slittamento di livelli: distinguere, cioè, il piano della contingenza da un piano di teoria filosofico-politica (nonostante questi ambiti, evidentemente, debbano entrare in relazione). Il progetto di un mondo multipolare tende, infatti, nella sua versione più diffusa, a costringerci a ragionare con quella medesima logica affine a quel determinismo teorico di cui sopra: il mio ed il tuo sono necessariamente in conflitto – ciò che si propone, data questa condizione, è la costruzione di equilibri e compromessi. Al fondo di questa logica permane, cioè, un’ideologia che potremmo definire individualistica, egoistica (un nazionalismo chiuso): le mie possibilità si possono esprimere al meglio solamente se non confliggiamo, ma è assente, tuttavia, da questa narrazione la possibilità di costruzione di un mondo condiviso. La necessità di tener conto dei rapporti di forza ci costringe, nel contesto presente, a non rifuggire alla problematica del mondo multipolare, ma, simultaneamente, si dovrebbe cominciare a pensare alla costruzione di un nuovo cosmo, di carattere autenticamente comunitario, in grado di guardare oltre questa logica univoca: un mondo, cioè, in cui le problematiche del nazionale e dell’identitario possano finalmente aprirsi, tornando, così, in relazione con le questioni decisive, ma sempre più cadute nell’oblio, dell’internazionalismo e dell’alterità.
Geopolitica e realismo (attorno al problema dell’immanenza)
Si evidenzia, sempre più, come la geopolitica sia in stretta relazione con la dottrina del realismo politico. Con quest’ultima, dunque, bisogna confrontarsi: si devono distinguere, anche qui, livelli differenti. Innanzitutto, una politica che non si concepisca come realista non è definibile come tale – è anti-politica: un pensiero politico, cioè, che non tenga conto dei rapporti di forza, così come del problema della totalità, non ha alcuna chance storica di rendersi effettivo. E così anche per una forza antagonista, orientata alla costruzione di una differente società, la base di partenza deve essere sempre la contingenza presente, in tutte le sue contraddizioni ed ambiguità. Ma cambiando ora angolazione, livello: il realismo politico non deve esser assolutizzato, questo a maggior ragione per una forza antagonista, che prospetta, cioè, la costruzione di un contro-potere. Infatti, l’attenzione alla contingenza, al contesto presente, deve portare sempre con sé il richiamo al proprio punto di vista: la realtà presente detta le condizioni esterne, non le linee da seguire. Con un totus realismo, assorbito completamente dal piano di immanenza (attraverso il quale si assolutizza ogni contingenza, scambiandola ogni volta per l’assoluto), alla fine ci si perde. Ecco l’attualità del detto trontiano: stare nella congiuntura, ma liberi da essa, per non farsi mai assorbire completamente da essa, e vincere una volta per tutte.
Geopolitica ed antropologia
La geopolitica moderna tende a rifuggire da un’antropologia di carattere hobbesiano: l’essere umano non è esclusivamente assetato di dominio, bensì qualcosa di più complesso, al fondo delle cui azioni rientrano molteplici fattori – simbolici, ideologici, culturali. Quest’ampliamento di orizzonti costituisce, tuttavia, un reale scarto nelle strutture fondamentali di questa disciplina? Perché l’essere umano, sì più complesso, sembra non rifuggire mai, in questa narrazione, dalla ricerca dell’accrescimento (o, tutt’al più, della conservazione) del proprio potere: quei molteplici fattori di cui sopra precipitano, cioè, in quella logica univoca di ampliamento o diminuzione di potenza – la chiave interpretativa decisiva nella spiegazione dell’umano. Su queste basi si reggerebbe il realismo politico di cui sopra: controllare, tenere a freno, affinché sia possibile una sicurezza sì condivisa, ma pur sempre individualistica. Il realismo, tuttavia, come scritto precedentemente, non deve esser assolutizzato, a maggior ragione per una forza antagonista: ad esso si deve accompagnare un punto di vista che contempli l’idea di un mondo e di una società differenti e, conseguentemente, un’altra idea di uomo (la possibilità, in estrema sintesi, di un altro realismo). Qui si apre una problematica enorme, a cui possiamo solamente accennare, della costruzione di lunga durata di una nuova antropologia, che si ponga in immediato contrasto con la moderna società per mettere le basi di una nuova: rifuggire dalla potenza come chiave ultima dell’umano, per pensare, piuttosto, nell’avvenire, alla possibilità della costruzione di un mondo comunitario, aperto, finalmente, al mistero (ed alle questioni essenziali) della nostra esistenza.
Geopolitica e socialismo: tesi
Una tesi diffusa all’interno della geopolitica moderna è considerare ‘sul piano strategico, L’Unione Sovietica [come] la prosecuzione dell’Impero Zarista con altri mezzi’ (Maddaluno, Geopolitica. Storia di un’ideologia): e cioè Lenin erede della politica zarista ed il socialismo una continuazione, seppur in altre forme, di quella politica di potenza che ha guidato l’intera storia umana. Non interessa qui il caso specifico dell’Unione Sovietica: tale ipotesi interpretativa ci deve, piuttosto, aiutare a formulare una riflessione di carattere generale sul socialismo e, quindi, sulla relazione tra socialismo e geopolitica. Subito la tesi: il socialismo è considerabile nei termini di un’interruzione rispetto alla logica univoca propria della geopolitica – la possibilità, in estrema sintesi, di non pensare più la questione della potenza come chiave ultima dell’umano, per considerare quest’ultima, piuttosto, nei termini di uno strumento (pur necessario) alla creazione di una nuova società. Al fondo, infatti, si muove una Weltanschauung anomala, eretica per la suddetta disciplina: il tentativo di ripensare la relazione tra esseri umani e cosmo nel progetto di costruzione di un mondo, autenticamente, comunitario. Il socialismo, quindi, rappresenta un salto rispetto agli assunti teorici di fondo della geopolitica: rompe quella costruzione deterministica ed è qui forse anche il motivo per cui esso, ancora oggi, viene interpretato da essa affine ad una qualsiasi altra politica di potenza. La rottura di quel “così è sempre avvenuto nel corso della storia”: questo è uno dei compiti più rilevanti a cui il socialismo dovrebbe rispondere al giorno d’oggi – la possibilità, cioè, di pensare questa società, quest’antropologia, questa forma di vita, quest’interpretazione della realtà come parziali e, dunque, come qualcosa di non immutabile ed eterno.
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