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Alla ricerca del potere perduto
Il potere, inteso come facoltà attribuita a determinati soggetti di decidere per se e per gli altri, è sempre stato accompagnato da una giusta dose di autorevolezza. La lotta per metterci le mani sopra contraddistingue ogni vicenda istituzionale, ma dove sta oggi il potere? Chi sono i soggetti che decidono? Se storicamente è stato facile individuare colui (il re, il sovrano) o coloro (gli Stati, gli organismi internazionali) che operavano le scelte, da qualche tempo appare più impegnativo capire chi è che effettivamente decide. Dalla fine del secondo conflitto mondiale alla dissoluzione dei regimi dell’Est gli Stati, attraverso un insieme di regole, hanno cercato, bene o male , di portare avanti la vita democratica dei consociati. Sono state le Costituzioni, ma anche le leggi riguardanti le competenze interne e sovranazionali, il rispetto della separazione dei poteri e dei regimi tipici – parlamentare, presidenziale e semipresidenziale – a permettere ai governi di rispettare, in qualche modo, quelle regole. Il problema della rappresentanza, della volontà popolare per il tramite delle elezioni, o quello del ruolo degli organi della mediazione – i partiti – torna ciclicamente a partire dagli anni ’60. Questo è dovuto al fatto che un certo malcontento si diffonde rapidamente qualora viene a palesarsi un deficit nella vita democratica, ma anche quando determinate istanze che prendono corpo nella società civile non hanno voce. È appurato che il compito degli Stati democratici sia quello di garantire l’alternanza dei governi, appunto osservando quel complesso di regole che si sono dati. Allo stesso tempo è palese come ogni governo, a seconda del vincitore, stia da una parte degli interessi. Tuttavia, oltre a dover constatare che il cambio di colore nei governi è qualcosa di puramente formale, vista la similitudine delle loro politiche, ciò che preoccupa di più è la disfunzione di quella macchina organizzativa, ridotta a un sistema apparato ridimensionato dal corso degli eventi storici e che, malgrado le grida opportunistiche di chi si richiama alle origini (in pratica l’eterno scontro che tira in ballo sovranisti, nazionalisti, populisti), in realtà dimostra nei fatti come gli elementi politico-giuridici (la popolazione, il territorio, la potestà d’imperio) che fanno gli Stati sono evaporati. Non solo i governi liberaldemocratici, ma anche le forze che si richiamano alla tradizione, le destre qualunquiste, una volta al potere hanno deciso di barattare un pò di sovranità per il prestigio personale, accantonando tutte le rivendicazioni delle loro campagne (di odio) elettorale, e facendo né più e né meno quanto fatto dai loro predecessori. L’esempio emblematico di questa “rinuncia” a legiferare è data dalla sottoscrizione di tutti quei patti internazionali economico-finanziari le cui ripercussioni si hanno nei singoli Paesi. Guardando all’Europa nata come espressione della solidarietà fra i popoli, con il precipuo scopo di scongiurare i regimi nazionalistici e le guerre, il suo trasformarsi in qualcosa di diverso ne sta minando la credibilità. La sua realtà supera l’immagine dei detrattori, che la designano come una matrigna che decide della sorte dei figli (Stati) privandoli del potere dei decidere (sovranità). Dal Trattato di Maastricht (sottoscritto il 7 febbraio del 1992) in poi, quel che è venuto fuori è la potenza delle istituzioni finanziarie, che si inventano parametri – il rapporto debito/pil – per legare le mani agli Stati, strumenti (pareggio di bilancio in Costituzione come se gli Stati andassero gestiti a moʹ di azienda) patti fiscali, e suggerimenti (riforma previdenziale, ingresso di fondi privati nella gestione della cosa pubblica) che tutte le forze partitiche, anche quelle che dicono di voler decidere a casa propria, hanno sottoscritto. Qiuindi, è inevitabile che di fronte alle promesse tradite tanto da parte di chi aveva un passato socialdemocratico, quanto dai cosiddetti sovranisti, riprenda corpo una rabbia che – rimuovendo le origini classiste delle decisioni – corre il rischio di sfociare pericolosamente in qualcosa di diverso. Da qui il riemergere dell’intolleranza, e la ricerca del capro espiatorio (lo straniero, la questione sessuale, i percettori di un sussidio) come causa dei mali e non invece essi stessi vittime di quel sistema. La politica si riduce ad una competizione cosi come avviene nel mondo delle imprese.
Lo stesso concetto di governare viene sostituito da quello economico-aziendalistico di governance. Allora la competizione politica è concorrenza tra forze (imprese) partitiche. Tutto l’apparato statale viene messo al servizio delle esigenze del mercato. Lo Stato non controlla (governa) il mercato, è il mercato che si serve degli Stati. Assistiamo a una rarefazione della democrazia, se ne conservano le forme e i rituali in una versione liberal, coincidente con il dominio dei pochi, coloro che decidono al di fuori delle stanze adibite alle discussioni dei rappresentanti eletti o nominati. Da questa presa del potere delle élites viene fuori una post-democrazia, un’involuzione della vita democratica, dalla quale scaturiscono fenomeni ribelli più che rivoluzionari, movimenti neo-identitari il cui unico scopo non è il miglioramento della vita associata, ma piuttosto un cambiamento in senso reazionario, nel quale la rabbia non socializzata, fomentata da livore, porta a espandere l’odio. Il fenomeno populistico diventa l’ideologia che compete con quella liberal, ma ne è una sua diramazione perchè come questa fa della competizione, della presa del potere e dell’esclusione di chi non ce la fa le sue caratteristiche.
L’allontanamento dei cittadini europei dalle sue istituzioni trova giustificazione nell’impoverimento generalizzato, per il quale non bastano di certo i buoni propositi (le raccomandazioni agli Stati, l’Agenda 2030) con l’obiettivo di ridurlo di qualche milione. I ritardi della finta svolta green non sono da addossare all’emergenza della guerra in Ucraina, ma trovano riscontro nell’inottemperanza dell’accordo di Parigi e nella pressione costante delle compagnie estrattive. Semmai il conflitto è stata l’occasione per gli Stati Uniti di sostituirsi come fornitore esclusivo, ampliando la sfera delle dipendenze continentali verso gli USA (dal Piano Marshall all’aderenza alla NATO, dagli accordi commerciali alla superiorità del business a stelle e strisce).
Vi è una corresponsabilità dei singoli Stati e dell’UE; quest’ultima, incapace di avere una linea politica indipendente, impastoiata come è dai suoi organi con un Parlamento che co-decide insieme al Consiglio, cerca di rifarsi per mezzo dei suoi organismi non eletti a spiccata vocazione economico-austeritaria: la Commissione e la BCE. Di fatto l’UE appare come un insieme di regole contraddittorie. Per esempio, come si conciliano le politiche sociali con il suggerimento dei tagli alla spesa pubblica e l’allungamento dell’età pensionabile per far quadrare i conti degli Stati insolventi? O ancora, da un lato si propugna di garantire una vita dignitosa, anche attraverso risoluzioni volte a rafforzare i sistemi di welfare e a implementare forme di reddito minimo garantito, dall’altro si spinge alla competitività con l’ingresso nella gestione dell’economia di soggetti privati (flessibilità lavorativa, fondi pensione, assicurazioni).
Il fine dovrebbe essere quello di ridurre una spesa insostenibile per le finanze statali. Questo comporta dei sacrifici che si scaricano direttamente sulle famiglie di lavoratori e pensionati, e che tra l’altro hanno un impatto minimo sull’ammontare del consolidato debito pubblico. In Francia, paese in cui si lavora in media 35 ore, e che ha da poco approvato “l’impopolare” riforma pensionistica portando l’età a 64 anni nel 2030 (adattandola alla media UE, mentre in Italia si va a 67), il risparmio sarà di 13,5 miliardi rispetto ad un debito di 3000 miliardi[1]. Quindi, gli ultimi decenni hanno visto tutti i Paesi europei allungare l’età pensionabile con la scusa dell’all’aumento dell’aspettativa di vita. Peccato che in presenza di un lavoro sempre meno stabile e salari decrescenti, con il taglio dei servizi sociali, in futuro non basteranno ulteriori manovre senza una visione d’insieme complessiva in grado di reggere ai mutamenti globali, anche perché il debito pubblico viene gestito da soggetti internazionali privati che, detenendone quote rilevanti e accettando in contropartita titoli di Stato – ma imponendo insieme ad altri soggetti (FMI, Commissione UE, agenzie di rating) politiche di aggiustamenti strutturali – dettano le loro regole fatte di tagli e sacrifici ai singoli governi. Poi ogni esecutivo può decidere come spendere e dove prendere le risorse, ma con il falso alibi “ce lo chiede l’Europa” si taglia la spesa sanitaria o precarizza il lavoro mentre si detassano i grandi patrimoni e aumentano le spese miltari.
Sono questi i governi al servizio della finanza globale, dove vediamo ministri e funzionari transitare da una banca, dall’amministrazione di un’azienda, all’esercizio di un incarico pubblico. È questa la storia mondiale di un trentennio in cui il capitalismo, in specie quello finanziaro, non ha praticamente trovato ostacoli. I mercati debbono essere rassicurati da quegli uomini, i primi ministri, di cui si servono per i loro fini, in cambio del tornaconto personale e di una lauta carriera in qualche organismo funzionale allo scopo. Gli economisti appartenenti a questa scuola di pensiero sono gli artefici dei suggerimenti e delle misure intraprese. È suggestivo come sia questi, quanto gli esecutori politici, in caso di errori i cui effetti ricadano sulle popolazioni, non rispondono del loro operato. A differenza dei normali cittadini, che quando sbagliano pagano (i lavoratori licenziati), qui non cadono teste, anzi magari per mezzo del meccanismo delle porte girevoli si assiste al trasferimento ad altre funzioni, se non addirittura a un aumento di stipendio o promozione.
Chi sono, dunque, i protagonisti in negativo delle sorti dei popoli? Sono quei miliardari proprietari della ricchezza mondiale, persone senza ritegno, che imperterriti continuano a ingrassare incuranti delle vicende umane e delle sorti della Terra. Alla fine, la brama del potere spinge a una personalizzazione eccessiva. Di tale tendenza abbiamo avuto diverse manifestazioni: si è iniziato con i partiti personali, incarnazione dei leader, gestiti come un’azienda di famiglia la cui estremizzazione ha intaccato le normale vicende della rappresentanza fino a farla saltare con i governi tecnici, guidati da superuomini che non rispondono a nessuno, garanti della stabilità dei mercati più che dell’unità nazionale. Questo processo ha subìto un’accelerata quando i Parlamenti, organi elettivi, sono stati superati da normative sovranazionali e da Trattati; o ancora con lo strumento della decretazione d’urgenza usato senza i suoi presupposti, che hanno trasformato Paesi com l’Italia in forme presidenziali o semi-tali, con governi neo-monarchici in forma costituzionale.
Nel frattempo i Paesi del Sud del Mondo, anche dinnanzi agli utlimi sconvolgimenti globali, scelgono nuove alleanze. Già da qualche decennio investitori diversi si sono palesati innanzitutto la Cina, che si è contraddistinta per la nuova Via della Seta, e per il ruolo da primo attore all’interno dei BRICS. Essa è protagonista del sostegno geopolitico e finanziario dei Paesi; rafforzando questa alleanza, competitiva con quelle occidentali (G7, G20…), è in grado di coprire oltre il 50% della produzione mondiale di petrolio. I BRICS sono anche quelli dove si concentrano le maggiori risorse di terre rare, il che fa presagire delle nuove guerre commerciali. Infine, vista l’adesione di nuovi Paesi, vi è la proposta di promuovere l’utilizzo della valute nazionali in sostituzione del dollaro per gli scambi commerciali. Anche questo aspetto pone delle preoccupazioni sulla futura stabilità delle relazioni internazionali, già minate dall’aver individuato il nemico da contrastare nella Cina, di cui non preoccupano le vicende interne ma solo il salto qualitativo raggiunto nel compromesso tra mercato e centralismo statale (socialismo di mercato) che le consente di controllare qualsiasi settore produttivo. Insomma, un riassetto del commercio mondiale, dove coabitano istanze localistiche, cerca di contrastare la storica supremazia occidentale nel delineare il destino politico-economico del Mondo.
[1]Fonte Le Monde Diplomatique: V.Gayon – Francia, Europa e mercati.
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