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La fatica e il risveglio interiore
È accaduto nel Novecento, nel cuore del più eterodosso pensiero filosofico francese della prima metà del secolo. È accaduto cioè di leggerne in Attesa di Dio e La prima radice di Simone Weil. Leggere considerazioni su un’esperienza personale: il lavoro fisico e la sua interpretazione. Nel dettaglio, con l’Attesa di Dio l’attribuzione al lavoro corporale di un valore nuovo, con le parole di Simone Weil il momento di un «contatto specifico con la bellezza del mondo». E ancora la registrazione di uno stato di «pienezza tale che risulta impossibile trovarne un equivalente altrove». Con La prima radice qualcosa di più, addirittura la consapevolezza che con la macchina si genera un’esperienza spirituale. Simone Weil non osserva il lavoro dall’esterno, le indicazioni lette nell’Attesa di Dio e nella Prima radice richiamano il vissuto in fabbrica, l’esperienza diretta di una fatica lunga e dolorosa.
All’età di venticinque anni, forse nell’estate del 1934, circa sette, otto anni prima delle riflessioni su «bellezza», «pienezza» e spiritualità come effetto del lavoro in fabbrica comparse negli scritti dell’Attesa e addirittura nove prima di La prima radice, «per se stessa», come scrive la biografa weiliana Simone Pétrement, Simone Weil appunta «Che sollievo il lavoro in fabbrica!». La decisione di entrarvi a lavorare segue a un periodo di travaglio interiore, uno stato di crisi la cui cura, nella sintesi di Pétrement, culmina in una irrevocabile volontà, «non vivere nel sogno, ma vivere nella verità, essere al mondo». E la fabbrica, in cui il lavoro dell’umanità alacre aliena e consuma, riempie di una promessa l’orizzonte esistenziale di Simone Weil. L’ingresso in fabbrica identifica una sorta di esperimento su se stessa, una prova empirica, un momento di ricerca e autoanalisi. E si spiega nella stessa possibilità, in realtà ostacolata dalla spietatezza del lavoro, di pensare durante le ore di fatica, di pensare se stessa come operaia in fabbrica.
Quando Simone Weil, per intercessione di Boris Souvarine presso l’illuminato Auguste Detœuf, amministratore di Alsthom, entra nello stabilimento in rue Lacourbe a Parigi, è il 4 dicembre 1934. Il suo lavoro si svolge alla pressa. Ma fin dalla prima settimana, la frammentazione dell’organizzazione lavorativa obbliga Simone Weil a diverse mansioni. Dinanzi alla macchina, lavorare sia come pressatrice sia come tranciatrice significa raggiungere la quantità media di base, cioè la produttività in termini di pezzi terminati. All’Alsthom si lavora a cottimo. La produttività appare strettamente legata alla velocità di esecuzione del lavoro, al dialogo costruttivo tra l’uomo e la macchina. È perizia e sudore, pericolo e dolore. Simone Weil è come la cavia di un esperimento taylorista. La velocità oltretutto apre a due prospettive: il guadagno e la conservazione del posto di lavoro. Ora, il dato crudo del lavoro in fabbrica così organizzato è il suo stato di inumanità, la condizione animale dell’operaio, soprattutto per una giovane professoressa agrégée afflitta da periodici mal di testa, inetta all’attività pratica, lenta, fragile, per di più intrusa e anzi del tutto estranea a un mondo di rumore, acciaio e alienazione.
L’impressione più lampante, nella lettura di Diario di fabbrica (Marietti 1820, 2023), è la peculiarità, se non proprio l’eccezionalità, del punto di vista di Simone Weil. Esso inizialmente è improntato a un empirismo descrittivo il cui stile è la descrizione telegrafica dell’esperienza e i cui elementi salienti, spesso resi tramite nuda elencazione, sono espressi da fatti e numeri. Ogni descrizione scaturisce da indicazioni fisse: la tipologia e il tempo di lavoro, la resa produttiva, il calcolo salariale quotidiano in base all’ordinativo, la tecnica dell’atto fisico alla macchina, i dati immediati dell’esperienza. A Simone Weil interessano, in prevalenza, le ragioni della quantità: consegna, produzione, tempo e denaro. Ma alla terza settimana di impiego all’Asthom, come un astro caduto in una plaga terrestre, ecco l’ancora inedita e sorprendente testimonianza di una «certa gioia nello sforzo muscolare…». La parola «gioia», lavorando in due al trasporto di «sbarre di ferro lunghe 3 metri, fra i 30 e i 50 kg», lascia trasparire una prima indicazione sulla resa, sulla sorprendente attitudine da parte del lavoro, del duro lavoro, di restituire un’inimmaginabile qualità. È una «gioia» avulsa dalla stessa buona conduzione del lavoro o dalla sua corretta finalizzazione. Qui si è dinanzi alla nascita di un sentimento all’apparenza contraddittorio, poiché esso figura un orizzonte di felicità illuminato e anzi nato da un lavoro spossante e brutale.
Non è tutto. Dopo la sosta natalizia del 1934, a inizio del 1935, tra le mansioni occasionali, Simone Weil è impiegata in un altro reparto dell’Alsthom. Pesanti bobine di rame sono introdotte in un forno a fori, dunque va serrato un pesante sportello utilizzando una grossa pinza. Infine, le bobine, riaperto lo sportello, vanno rapidamente estratte dal forno. È un’attività massacrante. Essa è però alternata a mansioni meno dure. E oltre alla «gioia» dell’attività senza sosta, al sentimento per lo «sforzo muscolare» con le «sbarre di ferro», ora Simone Weil trova «piacevole» anche ribadire rivetti in fogli metallici. Ma al forno, le fiamme, le ustioni, il caldo mortale e l’otite, che la colpisce già il 10 gennaio, sebbene essa sia diagnostica il 15, preannunciano la forzata sospensione dell’attività lavorativa. Proprio il 10 gennaio, nonostante il primo segno di «acuto dolore all’orecchio» manifestatosi fin dalla precedente notte, Simone Weil registra nel Diario ancora lo stesso sentimento, addirittura uno stato di «felicità meccanica» nella peripezia alla macchina. A causa del dolore auricolare è costretta ad abbandonare la fabbrica per curarsi. È all’Alsthom da neanche un mese.
Forse nella sola occasione, la convalescenza, in cui è possibile pensare, di certo improbabile in fabbrica, Simone Weil scrive che l’esperienza di lavoro ha già mutato – così in una lettera ad Albertine Thévenon – il «“senso stesso che ho della vita”». Tracce di sentimento rifluiscono ora in una intuizione più organica dell’esistenza. Simone Weil rientra in fabbrica il 25 febbraio. È la tredicesima settimana di lavoro. Pensare ora non è più possibile. E così non è possibile pensare la fabbrica. Il lavoro, soprattutto la schiavitù della velocità, la corsa alla media, estenuano e nullificano il pensiero. L’osservazione e l’analisi sul campo, le ragioni profonde della presenza di Simone Weil in fabbrica, si estrinsecano in uno stato psicologico di permanente frustrazione intellettuale. Le scorie di lucidità sopravviventi alla guerra del lavoro automatico testimoniano però l’emersione di una disponibilità all’ascolto di se stessa. Un ascolto di sé aperto a una più salda coscienza: la fatica come innesco di uno sviluppo interiore. Quel che appare più singolare riguardo a una «sensazione davvero strana» per i «rumori della fabbrica», per i «colpi di maglio del battilamiera, la mazza…», è che agiscano come struttura di risveglio. E il cui effetto è una «profonda gioia morale» non avulsa dalla causa producente: il «dolore fisico». Più ancora della colonna sonora della fabbrica, è ancora la fatica bestiale, è il sudore che fa quasi esultare Simone Weil. All’inizio di marzo del 1935 confessa finanche di trascorrere «momenti di euforia alle mie macchine». Dopo una sosta di dieci giorni, dovuta all’obbligatorio riposo per spossatezza e già quasi per consunzione (il 6 marzo, Simone Weil scrive di sé come di una «bestia da soma»), il 18 marzo riprende a lavorare per abbandonare definitivamente l’Alsthom dopo quasi due settimane, probabilmente il 5 aprile 1935.
L’11 aprile 1935, dopo un breve periodo di ricerca per una nuova occupazione, Simone Weil entra alla J.J. Carnaud et Forges de Basse-Indre a Boulogne-Billancourt. È la sua seconda esperienza in fabbrica. Alla fine del primo giorno appunta sul Diario di essere «felice». Ritorna alla pressa ma la media è ferma a 1/3, al massimo sale a 1/2, non più di questo. E lavora nove ore al giorno. Dopo un breve passaggio a una macchina di lavorazione delle piastrine, in cui Simone Weil inserisce, anziché una lamella per volta doppie lamelle perché incollate, con il conseguente inceppamento e la necessaria ricalibratura della macchina, è nuovamente trasferita alla pressa. Carnaud et Forges non è una fabbrica, è un «bagno penale». Di lì a poco, il 7 maggio, è licenziata.
Il 6 giugno, Simone Weil è assunta alla Renault. Riprende il lavoro in fabbrica e l’osservazione di sé sul campo. Stavolta è alle prese con la fresatrice. Dopo il primo mese di prova, è assunta. Raggiunge i 2/3 della media. Più volte è vittima di incidente, nella prima si escoria il pollice. Il 25 giugno invece una «scheggia di truciolo» la ferisce a un braccio. Si deve curare. Rientra al lavoro il 4 luglio e si consuma alla fresatrice. Non domina, come vorrebbe, la macchina. Per il momento, ne è ancora sopraffatta. Scrive di sentirsi a un «giogo». Continua a registrare con minuzia, come ai tempi dell’Alsthom, i “dati” quantitativi del lavoro quotidiano. Riguardo al «ritmo ininterrotto», all’attitudine di diventare essa stessa “macchina” dinanzi alla macchina, accerta che il modello di realtà è un mito, un mito forte e inarrivabile. Ma Simone Weil sa che nel «ritmo ininterrotto» è occultata una promessa di felicità. In una sola occasione, il 31 luglio, il lavoro la rende «singolarmente gioiosa e in forma». Per il resto, dominano «prostrazione, amarezza per un lavoro che abbrutisce, disgusto». Lavora alla Renault almeno fino al 9 agosto, con ogni probabilità la sua ultima giornata di lavoro. «Che cosa ho guadagnato in questa esperienza?» è l’interrogazione di Simone Weil alla fine del suo infernale tempo di lavoro. La considerazione riguardante il «contatto diretto con la vita…», la coscienza ultima del suo sentimento, ora si salda alla motivazione essenziale dell’intera esperienza, l’antica volontà di «non vivere nel sogno ma vivere nella verità, essere al mondo». La vita, dunque, il vissuto nella verità, e l’esserci riferiscono i salienti di un’inedita presenza spirituale.
Nella ricapitolazione del lungo sacrificio, una sintesi confessata per lettera ad Albertine Thévenon, in cui Simone Weil passa in rassegna le stazioni e le varianti del degrado fisico e intellettuale alla indomabile macchina, il dato nudo è la riduzione umana a bestia, a schiavo. È il centro negativo del suo immaginario antropologico. Ma la meditazione sul lavoro, l’autoanalisi e la parte di ricerca scaturita dalle visite in fabbrica dopo i terribili ma disvelanti mesidi fatica, sembra fissare l’annunciato scenario sentimentale. Nei sopralluoghi alle fonderie Rosières, alle officine militari di Bourges, alla fabbrica di Vierzon dell’autunno del 1935, nella coscienza di una irrimediabile reductio ad unum dell’essere umano, l’«unione» tra uomo e macchina, il mito della perfetta simbiotica del «ritmo ininterrotto», per Simone Weil è, può diventare la «condizione per una piena felicità», qualcosa di «equivalente all’arte».
Qualche anno soltanto separa Simone Weil dagli scritti di Attesa di Dio e La prima radice, in cui il lavoro fisico, sovvertito e rivoluzionato nel pensiero, elaborato nell’anima, ora è quel che già sappiamo, il viatico alla «bellezza del mondo», alla plenitudine, a un’inedita interpretazione spirituale della fatica umana.
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