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L’Australia e i diritti degli aborigeni


19 Ott , 2023|
| 2023 | Visioni

Da un po’ di anni, i politologi che studiano l’evoluzione della politica americana spiegano come il passaggio di Trump abbia lasciato, comunque lo si giudichi, un’eredità pesante, destinata a influenzare i processi politici ben al di là dei confini statunitensi. Quanto accaduto lo scorso fine settimana in Australia ne è in parte la riprova.

Chiamati a votare per un referendum costituzionale per la prima volta in ventiquattro anni, lo scorso 14 ottobre diciassette milioni di elettori australiani hanno espresso un parere schiacciante col 61% delle preferenze per il no alla formazione di un organo consultivo nel parlamento federale di Canberra formato esclusivamente dagli indigeni d’Australia. Chiamato the Voice to Parliament, questo organo avrebbe avuto la doppia finalità di attribuire alle comunità indigene la capacità di esprimere un parere nei dibatti parlamentari su questioni prettamente aborigene e di riconoscere finalmente nel testo costituzionale la presenza sul territorio australiano delle popolazioni preesistenti all’arrivo dei coloni europei alla fine del diciottesimo secolo. Quest’ultimo aspetto rappresenta un serio ritardo storico per un paese del Commonwealth britannico. Basti pensare al Canada che ha inserito il riconoscimento delle popolazioni indigene nella sua carta nel 1982, o alla vicina Nuova Zelanda che da sempre riconosce il trattato siglato nel 1840 con la popolazione maori e che nel 1962 ha creato un organo consultivo maori nel parlamento di Wellington.

Oggi la maggioranza dei gruppi aborigeni, che contano per meno del 4% della popolazione dell’Australia, vive in pieno contrasto al benessere diffuso di questo paese, in condizioni di grave indigenza e con una bassissima aspettativa di vita. Alla base di questo problema complesso c’è una storia di colonialismo brutale da parte di una nazione giovane che non è mai stata in grado di integrare al proprio interno comunità che vivevano secondo norme e abitudini millenarie annientate dal sistema imposto dai nuovi arrivati.  L’istituzione della voce in parlamento proveniva da una richiesta degli anziani delle popolazioni aborigene formulata nel 2017. L’iniziativa era considerata come un primo passo simbolico verso il raggiungimento di una riconciliazione tra i discendenti degli sterminatori europei e quelli delle vittime di un vero e proprio genocidio perpetrato per oltre un secolo. 

Per quasi un anno, la campagna del sì è stata attiva dando massima visibilità ai suoi slogan e annunci, trovando il sostegno entusiastico della quasi totalità delle personalità pubbliche dello spettacolo, dei media, del business e dello sport. La campagna del no, al contrario, è stata praticamente assente dalla vita pubblica. In un anno mi è capitato di buttare l’occhio soltanto una volta su un piccolo adesivo appiccicato al muro di un supermercato che diceva ‘NO’, mentre i cartelloni del ‘YES’ erano ovunque. Questo lasciava credere che la maggior parte dell’elettorato avrebbe seguito l’esempio espresso platealmente dall’establishment, relegando il supporto al no allo zoccolo duro di elettori razzisti, rappresentati da una minoranza fatta prevalentemente di elettori maschi, bianchi e over-50.  Ma qualcosa ha contribuito a un’inversione radicale che ha convinto elettori di ogni tipo a dire no a un gesto di importanza storica.

Annunciando il suo appoggio alla campagna del no soltanto alla fine di maggio di quest’anno, il leader dell’opposizione, Peter Dutton, aveva chiuso le speranze di molti per un sostegno bipartisan alla causa aborigena. Queste speranze erano alimentate dal fatto che il partito liberale, guidato da Dutton, contasse molti sostenitori del sì. Le motivazioni addotte per questa scelta sono state il rischio di una divisione della nazione basata sulla razza, redendo “alcuni australiani più uguali degli altri australiani.” La citazione orwelliana fatta da Dutton in parlamento ha ispirato una campagna del no sotterranea che ha proliferato nei social media. In breve tempo si sono diffusi slogan brevi e semplicistici fondati su paura e ignoranza. Messaggi basilari, come “se non sai, vota no”, oppure “radicale”, “rischio”, “divisivo”, si sono uniti alla narrazione falsa che il nuovo organo avrebbe radicalmente cambiato la costituzione e il parlamento, dando potere legislativo agli aborigeni, i quali si sarebbero rimpossessati delle terre perse. Anche i giovani di tendenze progressiste e vedute aperte sono stati facile target dei social media attraverso la diffusione dell’idea che gli aborigeni meritano di più e di meglio che un organo consultivo e che il referendum era un altro esempio di politica paternalistica dei bianchi nei confronti di una minoranza. Contro questa tendenza, ha potuto ben poco anche un video diventato virale in ottobre che spiegava chiaramente le ragioni del sì, mettendo in ridicolo la superficialità e il disinteresse dei giovani progressisti.

La critica mossa in queste ore nei confronti del partito liberale è stata quella di non aver chiarito la propria posizione contro la diffusione di falsità, mantenendo l’ambiguità per favorire il fronte del no. Questa operazione e il linguaggio adottato dai liberali è uno smaccato esempio di trumpismo, ossia di una politica che mira ai propri interessi anche a costo di capovolgere la realtà. L’obiettivo non dichiarato della scelta di Dutton era tuttavia il mero calcolo politico di poter usare la causa aborigena per produrre un fallimento per l’attuale primo ministro, il laburista Anthony Albanese. Le parole di discredito pronunciate contro Albanese da Dutton per salutare la vittoria del no, confermano questo fine utilitaristico da parte di un leader che ha impedito al proprio paese di raggiungere un traguardo simbolico di portata storica pur di infliggere un colpo al suo rivale politico.

Ad affiancare nei mesi di campagna per il no il capo dei liberali è stata una dei pochi politici federali di origini aborigene, la senatrice Jacinta Price, che in queste ore, pur di dar credito alla balla da lei diffusa durante la campagna che le comunità aborigene avrebbero votato no, sta mettendo in discussione l’imparzialità della commissione elettorale australiana alla luce del 70% attributo al si dagli elettori indigeni (e di nuovo, Trump docet). Infine, alla felicità dei liberali per la vittoria del no, si aggiunge quella dei magnati minerari, Gina Rinehart in primis, i cui interessi esplorativi spesso collidono con le piccole comunità aborigene che risiedono in territori ricchi di risorse naturali. 

Adesso deve iniziare un profondo esame di coscienza da parta di una nazione felice che nega le briciole ai più infelici. Mi chiedo in particolare quali saranno gli effetti sulla psiche e l’identità nazionali di questo paese. Da quindici anni a questa parte, gli australiani hanno adottato la formula del Welcome to country un saluto che riconosce l’eredità degli indigeni in ogni occasione pubblica, dalle scuole elementari alle università, dalle istituzioni pubbliche fino ai voli di linea (quando si atterra in un aeroporto, le prime parole pronunciate dallo staff di bordo sono quelle di benvenuto nella terra degli aborigeni). La bandiera aborigena svetta in ogni palazzo pubblico. L’arte aborigena domina l’estetica del paese. Persone di origine aborigena stanno diventando volti pubblici in televisione, al cinema, nella musica e nello sport. Come si può adesso conciliare questi importanti cambiamenti con la volontà netta espressa dall’elettorato?  Da un primo ragionamento, penso che molto di questo risultato sia dovuto a un difetto capitale dell’australiano medio, rappresentante di una nazione che amo, ma ancora acerba. Mi riferisco alla paura dell’altro, spesso alimentata dalla scarsa propensità ad informarsi. Gli australiani conoscono gli aborigeni dai libri e la televisione, ma sono pochi quelli che ogni giorno interagiscono con gli indigeni a livello personale, professionale o sociale. Per la maggior parte del paese, dunque, gli aborigeni sono alieni, difficili da comprendere, problematici e rappresentano una minaccia alla prosperità raggiunta da questa società. È questa la stessa paura che qui oggi fa dimenare i commentatori anti-Cina in previsione di un’invasione dal nord e alimenta la corsa agli armamenti.

Credo che le lezioni apprese da questa esperienza australiana siano principalmente due. La prima è quella evidente di una comunicazione politica moderna capace di capovolgere significati e negare evidenze, trasformando ogni cosa in un’opinione, proprio come aveva previsto George Orwell in 1984. – Se qualcuno pensa che qui mi stia riferendo anche al dibattito in Italia, dove il sonno della ragione fa suonare i tamburi della guerra, ha colto nel segno. – La seconda è che anche l’Australia, come il resto dell’occidente, si avvia a diventare una nazione divisa a metà, tra giovani e anziani, progressisti e conservatori, che non sono in grado di dialogare e comprendersi. Questa è una conseguenza evitabile soltanto con l’inversione della prima tendenza, ossia con una comunicazione politica onesta e mirata al bene comune e non agli interessi di bottega dei partiti o altri gruppi di potere. E anche qui, la lezione vale pure per la nostra bella Italia.

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