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Calcutta o delle nuove forme di cantautorato


25 Ott , 2023|
| 2023 | Terza Pagina

La storia ci ha spesso mostrato come l’arte possa farsi rappresentante della Kultur di un’epoca senza mettere a tema, specificamente, quest’ultima: che, cioè, si possa raffigurare, artisticamente, una società, una cultura e, in senso ampio, la politica tout court, parlando, apparentemente, di altro. Anche, infatti, nell’arte più intima o privata, vi è la possibilità di cogliere nuclei e scarti di un’epoca: restare, apparentemente, ad un piano esistenziale e in questo modo, tuttavia, costruire opere dal carattere simbolico per una società – la possibilità, in estrema sintesi, di rappresentare plasticamente la Kultur di un’epoca, senza che se ne parli esplicitamente. E così, avvicinandoci al focus dell’articolo, vi è la possibilità di ascoltare dei dischi di amore che serbano, al loro interno, un carattere politico (culturale): nella produzione di un vero artista, infatti, difficilmente sono separabili storicità ed eternità dell’opera, lato estetico e lato sociologico (questo anche quando la storia è declinata in una versione massimamente intimistica). Ora, dell’ultimo album del cantautore Calcutta, intitolato Relax, ci interessa proprio questo (non tanto i suoi elementi musicali in senso stretto, né la sua più o meno compiutezza): se egli, cioè, pur avendo scritto un disco fondato sugli affetti, sia riuscito, tuttavia, a parlarci dei nostri tempi contemporanei – e quindi, sintetizzando e ricapitolando, se egli non abbia scritto, in realtà, un disco sì d’amore, ma, nel profondo, politico (nel tentativo di cogliere la Weltanschauung di un’epoca).

Prendiamo, ad esempio, una strofa di Ghiaccioli: “c’è chi mi riempie di baci ma/ c’è chi mi riempie di solitudine/ mi lascia a terra, ma come fa?”, o, ancora, di Controtempo: “e mano per la mano mi dicevi: “senti che tristezza?’”. All’interno di questi passaggi non ritroviamo solamente la descrizione di relazioni impossibilitate a compiersi, proprie delle epoche di crisi, ma anche, e soprattutto, ciò che ha seguito quelle crisi d’epoca: l’introduzione, cioè, alla fase storica presente, costituita da affetti immediatamente fragili, deboli, carenti di fondamenta. La descrizione di quel vuoto che permea, costantemente, le relazioni umane ci parla, così, della nostra forma di vita: inquieta, eppure piatta, inespressiva (sempre più tendente all’omologazione), senza possibilità di pensiero forte, di qualcosa, cioè, di realmente sostanziale od essenziale. Nel titolo Controtempo, inoltre, si condensa un’ulteriore tematica ricorrente nella poetica di Calcutta: una critica, forse quella più esplicita del cantautore italiano, ad una certa declinazione della modernità. Nel suo precedente album, Evergreen, il brano Hubner era, forse, la massima espressione di quest’attacco: la messa in discussione di una forma di vita ascetico-economica, che antepone la produttività agli affetti, il lavoro capitalistico alle relazioni ed all’umanità tout court. Nella tensione verso il ritorno ad una vita lenta, vi è, dunque, uno dei contenuti più espliciti dell’opera di Calcutta: un antimodernismo che si declina in una peculiare forma (seppur evidentemente embrionale) di qualcosa che potremmo definire come anticapitalismo romantico.

Così, anche l’ultimo brano dell’album, Allegria, si configura come rappresentativo dell’attuale cultura in decadenza: della gioia, infatti, sembra possibile parlare solo in forme negative, come se quegli stessi momenti di allegria dovessero esser, poi, sempre riassorbiti dalla dimensione di vuoto a cui sopra abbiamo accennato. Allegria ci richiama alla fittizia festa del nostro tempo: luoghi apparentemente senza crepe sui quali, pur tuttavia, si aggira qualcosa di simile ad uno spettro, a cui ancora oggi sembra difficile dare un nome, ma che restituisce plasticamente l’impossibilità di parlare di festa per il nostro tempo. Questi elementi precipitano, poi, nel ritornello, carico di pathos, del brano Tutti che recita: “sembriamo tutti falliti”. Ritornano, ancora, il girovagare, l’instabilità (le visioni deboli), il percepirsi, o, ancor peggio, l’esser gettati, senza consapevolezza, in un tempo apparentemente senza storia: come scritto in precedenza, non tanto la descrizione della crisi di un’epoca dai caratteri fecondi, piuttosto la rappresentazione del vuoto (del nulla) che la segue.

È proprio qui, tuttavia, che è racchiusa la forza di Calcutta: nel non esser moralistico, o falsamente ideologico, piuttosto nel ricercare di rappresentare la realtà nel suo movimento effettivo: la riacquisizione di una nuova vicinanza tra il pensiero ed il mondo (afferrato nella sua negatività), l’assunzione teoretica della decadenza del mondo occidentale, senza edulcorare o abbellire un’epoca senza storia con narrazioni fittizie. Ricordare, piuttosto, quel vuoto (quel nihil): è in questo, per di più, che si rivela la possibilità di nuove forme di cantautorato nella contemporaneità. Il cantautorato come apparente anomalia nella scena musicale presente, che tenderebbe alla rappresentazione di questo mondo così come esso si dà: non, dunque, una riproposizione epigonale (caricaturale) del cantautorato proprio di epoche beate, bensì una sua riattualizzazione legata, strictu sensu, al tramonto contemporaneo.

La scelta per l’inabissamento, anche nella propria disperazione, piuttosto che la cultura convenzionalmente impegnata, la predilezione per il sottosuolo rispetto ai “luoghi di trasformazione” in costante borghesizzazione: “critico chi pensa che la lotta politica e l’intrattenimento possano andare insieme”, così Calcutta in un’intervista a Repubblica. Insomma, il suo monito, seppur embrionale (ed incompiuto), è al richiamare alla memoria il vuoto presente, senza riempirlo con elementi a-sostanziali: come se solamente da un corpo a corpo serrato con questa dimensione di nihil potesse nascere qualcosa di altro, la speranza di un nuovo movimento trasformativo. Nel brano Ssd scrive in modo esemplificativo: “Tutti a fare musica a Milano./ Piantare un albero al supermercato./ Non riesco a credervi, uh, per chilometri./ Perché non volete mai restare al buio?/ Io ci sarò comunque, resterò seduto”.

Questi sono dunque alcuni elementi portanti della poetica di Calcutta, intrisa di uno stile allegorico, composto di suggestioni e rimandi, ma, pur sempre, come tentato di descrivere nel corso del testo, legata all’empiria presente. Una realtà, come abbiamo detto, frantumata, all’interno del quale il campo degli affetti, delle relazioni e, in senso più ampio, dell’amore, oltre ad assume un significato Kulturale (/epocale), riacquisisce, infine, la sua specificità: nel privato, nell’intimo, infatti, sembra esserci una delle rare possibilità di riscatto (/ redenzione) all’interno contemporaneità occidentale; ma l’autore dell’album Relax, in qualche modo, ci avvisa: è difficile, quasi impossibile, costruire isole compiutamente beate all’interno di un mondo senza storia. 

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