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Sul risveglio del “mostruoso”


27 Ott , 2023|
| 2023 | Visioni

È mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento, e come agenti di manipolazione e di indottrinamento?

Herbert Marcuse

Nei circuiti elettrici come nell’atmosfera, la polarizzazione dovuta all’accumularsi di cariche di segno opposto ingenera tensioni. Nella misura in cui si avvicinano a una certa soglia, queste tensioni preludono a scariche elettriche violente e incontrollabili.

Negli ultimi tre anni il servizio offerto dalla maggior parte dei media ha subito un mutamento che non è passato inosservato. A partire da 2020 la polarizzazione dell’informazione – una sua caratteristica certamente tipica, che presenta oscillazioni storiche – è cresciuta in maniera vistosa. Parallelamente, e in modo altrettanto evidente, si sono polarizzate le vedute dei vertici istituzionali,  della classe dirigente, dell’uomo della strada. Indipendentemente da come la pensano, presumo che in molti abbiano avvertito gli sbalzi di tensione che ne sono conseguiti. Chi con la pandemia, chi con la guerra in Ucraina, chi con quello che sta accadendo in Medio Oriente, in tanti hanno osservato la crescente tendenza dell’informazione generalista ad amplificare certe campane e a silenziarne altre. Così, nel mentre un pezzo di società – di cui fa parte quella che conta – si arrocca su una posizione, l’altro si barrica dietro alla posizione antipodale.

Si potrebbe obiettare che non c’è niente di nuovo sotto il sole, che l’informazione è sempre stata più o meno tendenziosa, che le spaccature sociali sono una costante storica. È vero. Per quello che ne sappiamo, le cose sono sempre andate più o meno in questo modo. Se vogliamo dirla tutta, però, va rilevato che la storia è costellata pure di barbarie: un’altra costante storica, alla quale in genere non si da troppo peso. Certo, non ogni spaccatura sociale si risolve in una guerra civile o in un genocidio, ci mancherebbe. Ma il nostro genere ha saputo dare il peggio di sé proprio in seguito allo scomporsi di fratture sociali fomentate – quando non ingenerate – da quell’informazione fortemente polarizzata che si chiama propaganda. Per molti versi siamo caduti più in basso quando ci siamo lasciati dividere dall’ideologia che non quando, a tracciare la linea di frattura, era un confine geografico o un braccio di mare. Con chi hanno toccato il fondo i nazisti? Con i francesi e gli inglesi, o col popolo ebraico?

Il pluralismo dell’informazione è una virtù che si fa sempre più rara proprio in un momento storico, com’è quello attuale, in cui ce ne sarebbe invece estremo bisogno. Sarebbe la miglior cura a quella malattia che, di quando in quando, colpisce la collettività ingessandola in posizioni aberranti.

Negli ultimi anni – prima con la pandemia, poi con la guerra in Ucraina, ora con il riacutizzarsi del conflitto israelo -palestinese – sempre più persone hanno toccando con mano la propaganda. Hanno notato l’intransigenza e l’intolleranza di un potere che manifesta i suoi intenti distorsivi ed estorsivi ripetendo senza sosta slogan pretestuosi e tendenziosi, e insabbiando accuratamente non solo gli eventi storici che consentirebbero all’uomo della strada di comprendere la situazione attuale, ma persino dati e fatti di recente acquisizione. Non si mente solo affermando il falso, si mente anche – forse soprattutto – tacendo il vero.  

Non so a voi, ma a me la piega che stanno prendendo le cose comincia a suonare come una lugubre avvisaglia. Ultimamente ho avvertito una serie di smottamenti sordi, come quelli che anticipano una frana. Questo rumore di fondo mi sembra preludere a una cacofonia già sentita. A chi conserva un po’ di memoria storica, può ricordare gli esordi di certe sciagure del secolo scorso. A me riporta alla memoria la passerella degli eventi che, nell’arco di pochi anni, ha condotto una nazione europea sull’orlo di quel baratro in cui è poi miseramente precipitata. Un passaggio preliminare che l’ha preparata a rispolverare quel lato umano che Günther Anders chiamava “il mostruoso”. Una sfaccettatura latente del nostro animo, che in certi frangenti storici riemerge e si manifesta. La sistematica riproduzione del falso, e la puntuale rimozione del vero, sono campanelli d’allarme che suonano da tempo, ma forse abbiamo la memoria troppo corta per sentirli.

Mi chiedo che cosa ci fa credere di essere tanto migliori dei nostri predecessori, che cosa ci fa pensare che certi drammi umani non possano riproporsi – sotto altre e mentite spoglie – nel ventunesimo secolo. Sulla base di quali elementi, mi domando, siamo così convinti che certe curvature della mente umana non possano riprendere il sopravvento, fino a riguardarci in prima persona?

Come ricordavo prima, la via della storia – non solo quella del “secolo breve” ­– è lastricata di barbarie. Il motivo è presto detto: come noi, anche il potere ogni tanto si ammala. E i primi sintomi di quella patologia degenerativa che periodicamente lo colpisce sono proprio la distorsione della realtà, l’estorsione del consenso, la repressione del dissenso, la censura del pensiero critico Tutte cose già viste quasi un secolo fa, e che si stanno ripresentando in grande stile sulla scena dei nostri giorni. Ovviamente, da solo, il potere malato non ha modo di esercitare la propria influenza deleteria. Anche qui, la storia insegna: certe tragedie del secolo scorso si sono consumate non solo a causa dei leader che ne hanno partorito i presupposti ideologici. Il grosso del lavoro è stato fatto dalla classe dirigente, che si è prontamente allineata alla “versione ufficiale” fornendole la necessaria cassa di risonanza, così da renderla prontamente esecutiva e pienamente operativa.

Come Martin Luther King, allora, anch’io «non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti». Non mi preoccupano tanto gli auguri che certi medici, giornalisti e politici hanno riservato a chi non la pensava come loro durante la pandemia. Né mi inquietano i commenti che ho sentito fare su chi, conoscendo i presupposti storici dei conflitti che si sono riaccesi, ha rifiutato di santificare certi guerrafondai e di demonizzare i loro avversari. Ciò che mi spinge a questa riflessione è il silenzio di chi potrebbe e dovrebbe dire qualcosa. In particolare mi gratto la testa quando, a tacere, sono coloro che per primi dovrebbero far valere certi elementi intellettuali e culturali che fungono da anticorpi alle derive autoritarie, e cioè i vertici della scuola e dell’università. Questo perché, come osservava Claudio Giunta, «in questo modo l’università cessa di avere – come dovrebbe avere e come di fatto aveva in passato – una funzione guida nei confronti della società e diventa una semplice fornitrice di manodopera. La sua funzione critica e di indirizzo scompare, e in cambio subentra l’obbedienza a ciò che la società impone. E la società, una volta messi a tacere quei luoghi del disinteresse che sono appunto la scuola e l’università, altro non è se non il mercato, la legge del profitto».

È di questi giorni la notizia che oltre un centinaio di giornalisti, accademici e ricercatori di tutto il mondo hanno sottoscritto la “Westminster Declaration”. Un’iniziativa tesa a denunciare e contrastare la crescente censura che, con il pretesto di combattere la “disinformazione”, limita e in alcuni casi azzera la risonanza mediatica delle opinioni non allineate. «La libertà di parola è la migliore difesa contro la disinformazione», si legge nella dichiarazione, «etichettando alcune posizioni politiche o scientifiche come “disinformazione” la nostra società rischia di rimanere bloccata in falsi paradigmi». Quando la censura si traveste da “moderazione dei contenuti”, e la guerra da “missione di pace”, forse è giunta l’ora di cominciare a chiedersi che ore sono.

Gli effetti della propaganda sono difficilmente reversibili perché, come aveva intuito Mark Twain, «è molto più facile ingannare la gente che convincerla di essere stata ingannata». D’altra parte, Günther Anders rilevava che «la propaganda nazionalsocialista, di cui siamo stati testimoni e vittime, in realtà non era altro che una produzione di sentimenti, di proporzioni colossali; una produzione che il partito riteneva indispensabile, perché calcolava che le vittime corredate di quei sentimenti avrebbero accettato più facilmente, se non addirittura con entusiasmo, il sistema terroristico con le sue richieste esorbitanti».

Non temo che vengano riaperte le camere a gas, né che vengano riaccesi i forni crematori. È vero che la storia tende a ripetersi, ma con Eraclito ricordo che «non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume». Quando “il mostruoso” riemerge dal sonno in cui l’ha sprofondato la vergogna, il potere che l’ha ridestato non esita a mettere in atto le strategie più adatte al contesto storico per opprimere – o al limite per sopprimere – chi sente e pensa diversamente.

Un’anticipazione di quelle che potrebbero essere le nuove modalità repressive l’abbiamo avuta durante la pandemia. Privare del lavoro e dello stipendio una persona vuol dire toglierle la fonte di sostentamento. Certo, non è la stessa cosa che internarla in un lager, ma si tratta comunque di una misura piuttosto cinica, soprattutto a carico di chi non ha riserve economiche per tirare avanti. Che succederà a chi rifiuterà l’identità digitale nel momento in cui – come si ventila da qualche tempo – diventerà la condizione necessaria per viaggiare, per accedere ai servizi sanitari, per attingere al proprio conto corrente, il ché traduce la disponibilità economica in un credito sociale concesso a determinate condizioni? Visto il precedente appena considerato, è ragionevole presumere che i dissidenti saranno lasciati “liberi di scegliere” se scodinzolare a chi regala loro questo guinzaglio definitivo, o trovare il modo di sopravvivere come randagi, perlomeno fino a quando il perbenismo bigotto dei sudditi sarà disposto a tollerarli.

«Il mio nemico non ha divisa» cantava Daniele Silvestri. I macellai del secolo XXI lavoreranno in giacca e cravatta, e avranno le mani pulite e ben curate, come quelle dei bancari. Basterà loro un “click” per sbarazzarsi di “inutili intralci”.

Chi non ha vissuto in prima persona le discriminazioni e le vessazioni dispensate durante la pandemia può avere l’impressione che ci sia qualcosa di eccessivo – e di cattivo gusto – nello scomodare certe tragedie del secolo scorso. Non c’è dubbio che si tratta di eventi affatto diversi, da tanti punti di vista. Ma un’analogia non è un isomorfismo, e men che meno un’identità. La relazione analogica si applica a situazioni che presentano sì delle similitudini, ma anche delle differenze. La similitudine sta nel fatto che, in forza di quella «produzione di sentimenti di proporzioni colossali» che è stata la propaganda governativa nel periodo pandemico, in ordine alla quale «le vittime corredate di quei sentimenti avrebbero accettato più facilmente, se non addirittura con entusiasmo, il sistema terroristico con le sue richieste esorbitanti», una minoranza è stata additata come vivaio del male, estromessa della vita sociale e privata dei mezzi di sopravvivenza. Per il resto, le circostanze in questione sono senz’altro eterogenee, sarebbe patetico negarlo.

Va comunque osservato che la situazione venutasi a creare nel cuore della pandemia era ad un passo dal degenerare ulteriormente. Quando un giornalista afferma «mi divertirei a vedervi morire come mosche», quando un medico dice «è’ giusto lasciarli morire per strada» e una collega gli fa il coro facendo sapere che « fosse per me costruirei anche due camere a gas», quando un viceministro dichiara «gli renderemo la vita difficile, sono pericolosi», quando un virologo profetizza che «verranno messi ai domiciliari, chiusi in casa come sorci» è chiaro che “il mostruoso” s’è risvegliato. Ma quando a fronte di tali e altre agghiaccianti affermazioni le istituzioni e la popolazione rimangono in silenzio, non hanno niente da ridire, è chiaro che “il mostruoso” è già sceso dal letto sbadigliando e stiracchiandosi, e comincia ad aggirarsi per la casa. In queste condizioni di ipnosi collettiva, che sarebbe successo se il virus fosse stato appena un po’ più aggressivo? Verosimilmente i governanti sarebbero passati a maniere ancor più forti, è l’opinione pubblica le avrebbe accolte anche più facilmente, se non addirittura con entusiasmo.

Mi sono permesso di rievocare questi fantasmi dal recente passato solo per dire che, durante la pandemia, abbiamo vistosamente sbandato, e siamo passati piuttosto vicino al ciglio. Non siamo finiti di sotto, ma c’è mancato poco. Come in un rally, se il navigatore fornisce sistematicamente informazioni sbagliate, se tralascia puntualmente quelle corrette, per quanto il pilota sia capace di correggere la traiettoria prima o poi si va a sbattere o si finisce fuori strada e ci si fa seriamente del male. Fin’ora l’abbiamo scampata, ma temo che se i media cosiddetti “mainstream” continueranno a supportare la propaganda, se non torneranno all’informazione tendenziosa pre-pandemica, per qualche ragione prima o poi si produrrà una frattura sociale che ci porterà a rasentare nuovamente il ciglio, e non è detto che questa volta la passeremo “liscia”. Naturalmente, spero di sbagliare. Spero che questa mia riflessione sia poco più di una paranoia.

Non iniziò con i campi di concentramento e di sterminio […] Iniziò con i politici che dividevano le persone tra “noi” e “loro”. Iniziò con i discorsi di odio e di intolleranza, nelle piazze e attraverso i mezzi di comunicazione. Iniziò con promesse e propaganda, volte solo all’aumento del consenso.

Primo Levi

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