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Tra Mao e il Tao: Fofi e Elsa Morante sul senso della militanza
Stringevo la moka da mettere sul fornello, sabato scorso, e ho detto a Goffredo Fofi, il maestro che amo di più: ‹‹Che bello il tuo carteggio con la Morante!››. Lui ha replicato con voce lenta: ‹‹Eh, pazienza…››. Non sono andato oltre. Mi sembrava indelicato, inopportuno. Ho percepito un vissuto antico e complesso. Mi sono limitato ad aggiungere: ‹‹Trattate questioni molto attuali›› e, in effetti, si tratta di un bel libello edito da Liguori (Cara Elsa. Storia di un’amicizia, 2022) che ha molto da dire, soprattutto a chi si interroga incessantemente su cosa voglia dire oggi la parola “militanza”.
Irretiti come siamo in una gabbia d’acciaio che scoraggia o coopta programmaticamente il sorgere di forze collettive, il pericolo di ricoprire il ruolo dell’anima bella, dell’intellettualino ribelle, della falsa coscienza illuminata, come ha acutamente suggerito Sloterdijk, che dice A ma fa B, è sempre lì dietro l’angolo.
Una domanda attraversa il carteggio e resta pressoché onnipresente: che cos’è rivoluzione? Non si può che partire da qui. È la risposta a questa domanda che condiziona la pratica di vita dei due interlocutori. Il loro fondo comune è una generale non accettazione dell’esistente. ‹‹Continuo a trascorrere le mie mattinate di sole estivo a leggere i giornali, che poi danno la febbre per tutta la giornata›› scrive la Morante[1]. Ça va sans dire, lo è anche per Fofi, la cui vita si è costruita intorno al famoso ‹‹Non accetto›› di Aldo Capitini: ‹‹Fossi certo che domani il mondo finisce distrutto dall’ignominia umana – che ha un nome, ed è capitale – non farei altro che lottare ancora più accanitamente perché questo non avvenga, anche sapendo che avverrà››[2].
Capitale – è il nome del nemico: Fofi non ha dubbi. La Morante, invece, ne ha tanti: ‹‹La lotta di classe è l’equivoco principale, un’altra droga. Il punto sarebbe di far capire a tutti che una Rolls Royce conta una merda, e che il bello è altrove. “Odiare i ricchi” significa già essere ricchi non meno di loro››[3]. Per la poetessa la lotta condotta dagli oppressi rischia di rispecchiare i valori della loro controparte. “Rivoluzione” significherebbe innanzitutto cambiare sguardo sul mondo, del proprio posto in esso e con gli altri, giungere ad una diversa concezione dei valori. Questo gesto sarebbe anteriore e propedeutico ad ogni azione politica nella società: ‹‹la mia peggiore, più disperata e forse inguaribile tentazione è il MAO (e l’impegno politico verso il mondo) mentre la Ragione in me ha (avrebbe) definitivamente, obiettivamente, soggettivamente scelto il TAO. E sono convinta (dopo 89 anni di vita ormai) che la realtà sta qui, lì, nel TAO››[4]. La Morante si affida qui ad un affascinante gioco di parole che reitera più volte nel carteggio: il Mao (da Mao Tse-Tung) indicherebbe la lotta attiva nel mondo, il Tao, invece, richiamandosi all’antica saggezza cinese che prescrive il wu wei (il non agire), indicherebbe un’attività contemplativa sul modo di concepire il mondo e la vita. Sarebbe quest’ultima ad essere la ‹‹vera realtà››: ancora prima della condizione di sfruttati e oppressi, c’è la concezione del mondo di cui si è portatori. Occorre che questa sia innanzitutto emendata perché si compi una vera rivoluzione.
Per questo motivo, la Morante può scrivere che il suo modo di contribuire alla rivoluzione, ‹‹permanente e disperata›› aggiunge[5], è quello di investire il ricavo dai diritti d’autore dei suoi libri nella diffusione più ampia dei medesimi. Per Fofi questa via, pur essendo importante, è la meno indispensabile. Inoltre, potrebbe portare direttamente alla paralisi dell’azione. Il solo sforzo spirituale di concepire uno sguardo alternativo sul mondo potrebbe ridursi alla ricerca di un eden perduto e irraggiungibile, che la stessa Morante, d’altronde, ammette di cercare[6]. La poesia può avere un valore, solo se però è ricerca in grado di anticipare ai lettori un mondo possibile, un insieme di valori superiori a cui tendere[7]. Per Fofi, molto più fiducioso nella creatività spontanea di minoranze eticamente determinate, la cosa più importante è partire dalla memoria di un bene dato e ricevuto, e dunque tangibile, su cui fondare poi pratiche alternative a quelle del potere, utopie concrete. Egli scrive in un passo che è bene riportare per intero:
‹‹La nostalgia va bilanciata dalla ricerca (che tu continui a fare; ed è semmai fra questi due poli il senso di certa tua poesia), anche quando questa ricerca dovesse essere disperata. Importa proiettarsi, in avanti, partendo dal pur lieve barlume di un ricordo di qualcosa di bello e pulito (cioè giusto e vero) (e con la poesia o con le azioni o con l’esempio: anche se, come sai, faccio una precisa scala tra questi tre momenti, e in teoria, se esistesse, privilegerei la fusione dei tre, che si realizza molto di rado, oggi ad esempio un po’ in Mao…). Importa aver voglia di uscire, neanche crederci, solo averne voglia, come primo passo, ché il resto viene da sé››[8].
Fofi evita di indottrinare al marxismo, pur avendo – soprattutto in quel periodo, molta fiducia nella Storia. Il singolo individuo deve partire da qualcosa di concreto, da una pratica che nel suo piccolo ha funzionato per sé e per gli altri e cercare di organizzarsi con i propri compagni. Sarebbe questo il primo passo. È il mettersi insieme, il ragionare insieme condividendo emozioni e proposte in luoghi reali e con coloro che ne hanno bisogno, che può portare a nuove visioni delle cose. In questo senso, egli può scrivere alla Morante: ‹‹Ho un immenso rispetto per quello che tu scrivi, ma sinceramente non credo pesi di più delle cose che dice e fa, mettiamo, Viki con i suoi bambini nel Gallaratese, e Franca cogli immigrati a Francoforte››[9].
Il punto di partenza sarebbero le buone pratiche su cui, poi, può innestarsi una profonda ricerca di senso. Per la Morante, invece – e su questo punto i due interlocutori sembrano restare distanti, il vettore ha senso inverso: la pratica resta cieca e non sa dove andare se non è preventivamente fondata da una profonda ricerca di senso, che non può essere compiuta che dal singolo nella sua segretezza. ‹‹Che fare, dunque, andare fra gli uomini, o meditare in solitudine? (Marta o Maria) (…) è inutile andare fra loro finché non si è capito (ciechi che guidano altri ciechi), e perciò sarà meglio meditare da soli finché non si sia capito qualche cosa››[10].
Il carteggio sembra diramare due direzioni non assimilabili, ma tangenti in un punto fondamentale: il senso del possibile. È questo che bisogna preservare e scoprire – insieme e durante l’azione, per Fofi; nella solitudine creatrice e prima dell’azione, per la Morante. Senza di questo non può esserci militanza. In questo, en passant, possiamo notare l’acume dell’analisi di Mark Fisher sul realismo capitalista: è estirpando la concepibilità collettiva di un mondo possibile alternativo che il capitalismo contemporaneo prospera.
Chiudo poi la moka e accendo il fornello. Parlo a Goffredo, emozionato, del mio lavoro e volontariato con le persone sordocieche e disabilità varie e gli esprimo i miei dubbi sull’ambiguità della mia azione in un mondo che rifiuta i più fragili. ‹‹Serve la rivoluzione e voi avete rinunciato!›› mi replica.
Ma fintantoché condivido tempo e lavoro con persone che sento a me affini, oserei dire con termine desueto “compagne”, ragionando sul dolore che vedo e condivido, sento che qualcosa di più possa nascere da un giorno all’altro. E forse in questo c’è un po’ di Mao e anche di Tao.
[1] G. Fofi – E. Morante, Cara Elsa. Storia di un’amicizia, a cura di G. Fofi, Liguori, Napoli 2022, p. 10.
[2] Ivi, p. 39.
[3] Ivi, p. 23.
[4] Ivi, pp. 9-10.
[5] Cfr. p. 6.
[6] Cfr. p. 13.
[7] Cfr. p. 26.
[8] Ivi, p. 27.
[9] Ivi, p. 41
[10] Ivi, p. 21.
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