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Il Centro Studi di Confindustria detta la linea al Governo Meloni
La riscrittura che la maggioranza di Giorgia Meloni sta facendo sulla legge di Bilancio non è finalizzata per rispondere a chi contesta una vicinanza allo spirito della riforma Fornero (una misura prima vilipesa, poi applicata con tanto di aumento dell’età pensionabile e penalizzazioni per chi anticipa l’uscita dal mondo del lavoro), ma perché le critiche alla bozza di testo arrivano soprattutto dalle parti datoriali. Su Il Sole 24 Ore del 29 ottobre Bonomi non le manda certo a dire: «Alle imprese solo l’8% della manovra». E ancora: «Serve stimolare gli investimenti per le transizioni green e digitale. Senza interventi per la crescita margini stretti per i contratti».
Si va forse prefigurando uno scontro fra due visioni antitetiche? Da una parte la destra attenta ai risparmi delle famiglie italiane, dall’altra associazioni datoriali e forze di centro sinistra con queste che chiedono investimenti per la crescita economica?
Una sintesi non convincente dacché Confindustria prova – e con successo – a costruire un’intesa col Governo per indirizzare la manovra nel senso invocato dalle imprese. Non a caso gli industriali, al pari dei sindacati rappresentativi, plaudono al taglio del cuneo fiscale (la differenza fra il costo per il datore di lavoro e lo stipendio effettivo, che consiste in tasse da dare allo Stato) – che vorrebbero tuttavia strutturale, in modo da far pagare d’ora in avanti gli aumenti contrattuali alla fiscalità generale; e benedicono gli accordi di secondo livello con tanto di deroghe ai contratti nazionali, ove lo scambio tra incrementi della produttività e pochi soldi in busta paga risulta assai poco conveniente per i lavoratori.
Ma davanti a ogni manovra Finanziaria è normale che si scatenino associazioni e lobby economiche e di potere. Accade da sempre e per questo Bonomi e Confindustria usano la consueta bagarre per mirare ad altri obiettivi, innanzitutto per abbattere la tassazione del lavoro a carico delle imprese, in modo da fronteggiare l’aumento dei costi energetici. Quindi, se al momento due terzi del cuneo fiscale lo pagano le imprese, sarebbe impopolare chiedere una ripartizione che aumenti la quota che paga il lavoratore – da un terzo al 50% – in modo da diminuire le retribuzioni. Per questo motivo i confindustriali propongono al Governo di finanziare questa “operazione di equità”, facendola finanziare all’erario pubblico anziché farla pagare al singolo lavoratore. Le richieste di Confindustria, però, non finiscono qui: si dice esplicitamente che le imprese non possono accogliere richieste di aumenti salariali in linea con l’aumento del costo della vita senza avere indietro una qualche merce di scambio, prima fra tutte l’aumento della produttività. Il che ci fa comprendere come l’obiettivo reale sia tanto ambizioso quanto esplicito: incassare oggi la riduzione del cuneo fiscale a carico dello Stato per poi, a partire dal prossimo anno, rivedere a favore delle imprese tutto il sistema della tassazione sul lavoro e a sostegno della cosiddetta crescita. Ma anche in questo caso sarebbe sempre lo Stato a dovere finanziare l’intera operazione di riduzione delle tasse a favore delle associazioni datoriali.
Sempre sulle pagine de Il Sole 24 Ore Bonomi esplicita ulteriormente il punto di vista padronale asserendo che, senza stimoli agli investimenti e ulteriori tagli al cuneo fiscale, per le aziende non potrà esserci ripresa e le associazioni datoriali continueranno ad essere “danneggiate”. Bonomi guarda direttamente alla gestione delle risorse del PNRR: «Tra Pnrr e fondi del settennato europeo ci sono a disposizione più di 400 miliardi in sette anni, vanno messi a terra bene e velocemente per realizzare le infrastrutture e stimolare gli investimenti. Realizzare quell’Industria 5.0 fondamentale per la competitività e per rispondere alla sfida di Usa e Cina».
Per capire a cosa faccia riferimento si deve notare che complessivamente la Commissione Europea prevede lo stanziamento per tutti gli Stati membri di ben 743,8 miliardi di €, comprendenti sovvenzioni e prestiti. Di questi, quasi 300 miliardi sono parte del piano REPowerEU, che mira a implementare le capacità energetiche degli Stati membri nei termini di indipendenza energetica, diversificazione di utilizzo e approvvigionamento sostenibile (comprare energia a prezzi contenuti). Il resto delle risorse, invece, viene mobilitato per i vari PNRR dei singoli Paesi. Se i fondi per i PNRR sono in parte sovvenzioni e in parte prestiti, in misura quasi equivalente, per REPowerEU ben 225 miliardi sono costituiti solamente da prestiti. E’ per carpire questi fondi (ovviamente nella parte spettante all’Italia) che Bonomi fa pressioni sull’Esecutivo.
Le proposte dei padroni prendono spunto dalle ultime analisi del Centro Studi di Confindustria (L’economia italiana torna alla bassa crescita? – Rapporto di previsione Confindustria, Autunno 2023). Ancora una volta l’aumento della produttività diventa una sorta di mantra, senza che si prendano seriamente in considerazione le ragioni per cui proprio la produttività e il PIL italiano crescono in misura assai minore di altri paesi Ue. E dunque, dopo anni di regali statali (e sindacali) alle imprese, per aggirare la questione della crisi del sistema produttivo italiano ci si limita a denunciare come nel manifatturiero, in vent’anni, gli stipendi siano cresciuti di un punto e mezzo in più rispetto alla produttività! «Il divario con i nostri competitor è impressionante», dice ancora Bonomi, ma quali sono state le scelte dei padroni tedeschi, francesi o spagnoli? Siamo certi che la riduzione del costo del lavoro e i processi di delocalizzazione, gli scarsi investimenti tecnologici e in ricerca innovativa (anche per il ridursi dei margini di profitto) non siano fra le principali ragioni della crisi del modello Italiano? La soluzione non può essere quella di chiedere al Governo una manovra ad hoc per finanziare determinati processi di innovazione a carico della fiscalità generale… non si pulisce un pavimento alzando il tappeto e tirandoci la polvere sotto.
È sempre il Presidente di Confindustria, infine, a focalizzare l’attenzione sull’aumento dei tassi di interesse (che pare non subiranno ulteriori incrementi) da parte della BCE e sul costo del credito. Bonomi invoca i prestiti bancari e auspica un capitalismo finanziario «senza la sponda della garanzia pubblica», auspicandosi forse il ritorno di tempi di solidità economica. Peccato che, per il momento, debba essere proprio l’intervento statale a salvare i vari Istituti di credito dal fallimento. A preoccupare Confindustria e il suo Centro Studi, allora, sono la bassa crescita del Pil (per il 2023 +0,7%, nel 2024 +0,5%), i ridotti consumi delle famiglie, ma soprattutto gli scarsi investimenti (che si vorrebbe provare a cavar fuori dal capitale statale). Da qui nasce l’interesse per i fondi PNRR. Non sembrano invece interessare le percentuali di forza lavoro con contratti precari e part-time, che contribuiscono anche alla riduzione delle ore lavorate, o la sottoccupazione femminile, diffusa soprattutto nelle aree meridionali. Forse perché, in tal caso, la riflessione dovrebbe riguardare direttamente i limiti del modello capitalistico italiano. Dunque, da Confindustria arriva la richiesta di rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale, di abbassare la tassazione del lavoro, aumentare la produttività, stimolare gli investimenti e costruire e potenziare le infrastrutture logistiche, produttive e di comunicazione. Al contempo l’obiettivo è quello di potenziare la contrattazione di secondo livello e così facendo indebolire il contratto nazionale (stanno forse pensando a nuove gabbie salariali diversificando le retribuzioni su base locale, come timidamente avanzato qualche tempo fa dalla Lega?). Si chiede, in sostanza, di scaricare parte del costo del lavoro sui dipendenti (taglio del cuneo, aumento della produttività) e sullo Stato. Come apprendiamo dagli ultimi aggiornamenti sulla manovra in discussione, quest’ultima dovrebbe ammortizzare il costo sociale di tali richieste investendo risorse, ed ecco allora che si parla di «proroga per un anno del taglio del cuneo contributivo» e di «tassazione agevolata al 5% per i premi di produttività» (Il Sole 24 Ore del 30 ottobre, Valentina Melis). Le ultime misure di decontribuzione ipotizzate, infine, sembrano investire stranamente anche i redditi medio-alti (si pensi alla proposta di decontribuzione delle lavoratrici madri con reddito superiore ai 35 mila euro). Un Governo, dunque, vicino ai ceti popolari soltanto nella propaganda.
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