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Paolo Mieli, Netanyahu e Trump, o dell’ambiguità e delle fake news dei media italiani
La quasi totalità degli intellettuali mainstream, dei media e dei politici al governo in Italia si è schierata come un soldato ubbidiente con la politica di rappresaglia indiscriminata decisa dal governo israeliano di Netanyahu verso il popolo palestinese della striscia di Gaza. “Che cosa avreste fatto voi al posto di Benjamin Netanyahu dopo la strage compita da Hamas del 7 ottobre?”. Questa secca domanda è stata posta dall’autorevole giornalista ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli ai partecipanti alla trasmissione Otto e Mezzo del 30 ottobre curata da Lilli Gruber su La7. Il prestigio di Mieli è accresciuto per il fatto che da qualche anno presenta il canale tematico della RAI dedicato alla storia italiana e mondiale a cui partecipano alcuni tra i più eminenti storici italiani e francesi: Mieli dovrebbe quindi essere illuminato dalle “grandi lezioni della Storia”. Il senso della domanda dell’opinionista italiano, considerato generalmente una personalità moderatamente riformista che vanta anche con legittimo orgoglio la sua origine ebrea, sembra essere: Netanyahu doveva in una maniera o nell’altra reagire e punire i terroristi di Hamas, e non è quindi colpa sua se questi terroristi a Gaza si fanno scudo della popolazione innocente.
La professoressa Nadia Urbinati, titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York, ha giustamente ribattuto che si rifiutava di rispondere a una domanda così assurda che sollecita una risposta completamente decontestualizzata. È ovvio che la prima spontanea risposta a una strage tremenda di 1400 vittime innocenti è la vendetta, immediata, giusta e tremenda e sanguinosa vendetta. Ma una risposta di questo tipo sarebbe puramente emotiva e non terrebbe per nulla in conto le conseguenze negative della vendetta cieca, controproducente sia per il rilascio degli ostaggi che per la situazione complessiva di Israele e dei territori occupati. Non si può dimenticare che Hamas governa Gaza dove in un territorio minore (365 kmq) della provincia di Monza (405) vive chiusa e sigillata una popolazione di due milioni e mezzo di abitanti: solo una minoranza esigua di questa popolazione appoggia attivamente Hamas. Anche su un piano puramente militare sembra impossibile che un esercito potente e tecnologicamente avanzatissimo come quello israeliano debba necessariamente combattere le milizie di Hamas con bombardamenti di massa che distruggono un intero paese. Il terrorismo va vinto e sradicato: ma il bombardamento cieco e indiscriminato è criminale. La vittoria sul terrorismo è possibile solo se vengono affrontate anche le radici del contrasto profondo e tragico che da molti decenni oppone Israele ai palestinesi, cioè essenzialmente l’occupazione e la colonizzazione illegale delle terre palestinesi da parte di Israele.
È ovvio che ogni cittadino democratico si augura che i terroristi che hanno compiuto l’orrido massacro di 1400 israeliani siano passati per le armi, e che il terrorismo venga cancellato e distrutto. Dovrebbe essere comunque chiaro che i bombardamenti e il terrorismo di Stato, oltre che essere illegali, atroci e immorali, sono controproducenti e alimentano ancora di più il terrorismo dei gruppi più estremi. Sembra che il governo di ultradestra di Netanyahu – costituito da integralisti religiosi, suprematisti e ultranazionalisti che vorrebbero scacciare dalla Palestina tutti i palestinesi per costruire la Grande Israele – stia perdendo la testa. Un suo ministro, Amichai Eliyahu, intervenendo in una trasmissione della radio israeliana, alla domanda se sostenesse il lancio di “una specie di bomba atomica per uccidere tutti” a Gaza ha risposto “è un’opzione“. Eliyahu ha dunque minacciato il ricorso alla bomba atomica che Israele – un paese che ha sempre rifiutato di aderire ad alcun trattato internazionale contro la non proliferazione dell’arma atomica – sicuramente possiede. In seguito alle sue dichiarazioni Netanyahu ha “sospeso” Eliyahu dalle sue funzioni ministeriali. L’Arabia Saudita ha però criticato il governo israeliano per non averlo destituito. “Non riuscire a licenziare immediatamente il ministro dal governo e semplicemente congelarne l’adesione riflette il massimo disprezzo per tutti gli standard e i valori umani, morali, religiosi e legali del governo israeliano“, ha affermato il ministero degli Esteri saudita in una nota. Anche la monarchia giordana ha dichiarato che le osservazioni del ministro costituiscono un “appello al genocidio e un crimine d’odio” contro i palestinesi.
Nonostante le minacce atomiche e i bombardamenti contro civili innocenti, definiti “criminali” da parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, e nonostante la strategia di Natenyahu consista nella deportazione di massa del popolo di Gaza in Egitto, gli intellettuali italiani sono molto teneri con l’attuale politica israeliana. Mieli per esempio si è detto “imbarazzato” perché Netanyahu dopo la strage del 7 ottobre ha scritto un post in cui scaricava la colpa del massacro ai dirigenti dei suoi servizi segreti, post che qualche ora dopo ha dovuto cancellare e per cui ha dovuto chiedere scusa. Ma il termine “imbarazzato” usato da Mieli è quasi un vezzeggiativo e appare largamente insufficiente e assolutorio per quanto il premier israeliano ha fatto e sta facendo. La risposta alla domanda di Mieli “Che cosa avreste fatto voi al posto di Benjamin Netanyahu” dovrebbe in effetti essere una sola: Netanyahu doveva immediatamente dimettersi per la responsabilità diretta che ha del massacro di innocenti israeliani, e non solo e non tanto per essersi lasciato cogliere del tutto impreparato dall’attacco a sorpresa di Hamas, ma soprattutto per avere manifestamente promosso e finanziato e consolidato per anni il potere di Hamas a Gaza e per avere apertamente sabotato ogni soluzione al “problema palestinese”.
L’ONU dichiara ufficialmente che a Gaza l’esercito di Israele sta commettendo crimini di guerra, proprio come quelli commessi in Ucraina, per i quali la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto nei confronti di Vladimir Putin. Anche in Palestina, come in Ucraina, c’è uno Stato occupante, Israele, e un popolo aggredito e spogliato delle sue terre, i palestinesi. Tuttavia quasi tutti i maggiori intellettuali italiani non denunciano questa semplice, tragica verità. Due pesi e due misure. Come se un morto innocente palestinese valesse di meno di un morto innocente israeliano! Anzi, molti danno addirittura la colpa all’ONU per avere cercato di fare rispettare il diritto internazionale. Ma così i sostenitori di Israele non fanno il bene dello Stato ebraico. L’unica condizione per cui il Paese nato dallo Shoah può continuare a vivere e prosperare è la pace: ma la pace non potrà mai essere costruita sulla base dei bombardamenti e delle colonie israeliane.
Paolo Mieli è un esempio illustre della posizione generalmente ambigua degli intellettuali anche “progressisti” italiani, dei quotidiani mainstream, dei telegiornali del regime Meloni verso la politica coloniale di Israele. Sembra che i nostri maître à penser e i media– con alcune (per fortuna) notevoli eccezioni come gli studiosi della rivista Limes, il Fatto Quotidiano e il Manifesto – non riescano a riconoscere l’evidenza, cioè che i palestinesi sono oppressi dal colonialismo israeliano. Sembra che i nostri più illustri maître à penser non siano in grado di denunciare chiaramente che il popolo palestinese subisce a Gaza bombardamenti indiscriminati e in Cisgiordania rappresaglie e omicidi da parte dei coloni israeliani (oltre 100 morti palestinesi dopo il 7 ottobre). Gli intellettuali italiani più teneri si limitano a essere solidali con il popolo palestinese solo per “motivi umanitari”. Ma il problema è più drammatico: con l’assedio di Gaza da parte di Israele il conflitto potrebbe incendiarsi anche in Cisgiordania, e poi condurre a una guerra regionale con gli integralisti islamici di Hezbollah e con l’Iran, e addirittura a una guerra mondiale se intervenissero nel conflitto gli Stati Uniti e di seguito Russia e Cina.
Mieli ha affermato che Netanyahu avrebbe dovuto dimettersi a favore del ministro della Difesa Aluf Yoav Gallant perché il primo è incapace di fare la guerra mentre il secondo è più performante e preparato nell’attività bellica. Ma questa considerazione è ancora una volta ambigua. In realtà Netanyahu avrebbe dovuto dimettersi subito dopo la strage di Hamas perché ha sempre favorito, promosso e anche pagato questo gruppo con l’obiettivo esplicito di fare naufragare il processo di pace avviato a Oslo: dividere le organizzazioni politiche palestinesi e promuovere la colonizzazione della Cisgiordania e di tutta la terra palestinese.
Sono numerosissime ormai le autorevoli e chiare testimonianze, riportate anche dal prestigioso quotidiano Haaretz e dal New York Times, che dimostrano come Netanyahu abbia promosso l’ascesa della terrorista Hamas per contrastare Abū Māzen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e per sabotare così gli accordi di pace di Oslo e la costituzione di due Stati, Israele e Palestina. Su Wikipedia si può trovare la seguente, chiara affermazione (mai smentita) del premier israeliano: “Chiunque voglia contrastare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas e il trasferimento di denaro ad Hamas. Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi della Cisgiordania”. Solo grazie a Netanyahu sono potuti giungere a Hamas i fondi del Qatar per centinaia di milioni di dollari, che Hamas ha utilizzato per fare la guerra a Israele! In effetti Netanyahu dovrebbe essere considerato politicamente responsabile degli assalti contro il suo popolo. La politica estremista, sostanzialmente razzista del suo governo ha sortito il crudele effetto di risvegliare i peggiori incubi di antisemitismo e di jihadismo in tutto il mondo.
In Italia da anni i grandi media, telegiornali pubblici e privati in testa, e i grandi intellettuali ripetono però sempre gli stessi slogan. I nostri grandi e piccoli intellettuali mainstream continuano a dire: “Israele ha il diritto di esistere come Stato e deve difendersi dal terrorismo palestinese e arabo”. Questo è ovvio e del tutto condivisibile. Ma è falsa l’altra affermazione che la destra continua a ripetere, cioè che Israele è costretta a occupare i territori di Palestina perché lo Stato ebraico non è riconosciuto dai palestinesi. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina già nel 1993 aveva riconosciuto Israele e questo riconoscimento è alla base degli accordi di Oslo. Traduco letteralmente da Wikipedia: “Le lettere di mutuo riconoscimento furono scambiate tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina il 9 settembre 1993. Nella loro corrispondenza, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat concordarono di iniziare a cooperare per una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese. L’OLP ha riconosciuto il diritto di Israele ad esistere in pace, ha rinunciato alla militanza palestinese e al terrorismo e ha accettato la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e la risoluzione 338 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Israele ha riconosciuto l’OLP come un’autorità legittima che rappresenta il popolo palestinese e ha accettato di avviare negoziati globali per la pace israelo-palestinese processi. Questi accordi iniziali tra Rabin e Arafat gettarono le basi, e in realtà furono il preambolo, dell’Accordo di Oslo I del 13 settembre 1993.” Il diritto di Israele a esistere è ormai accettato dai palestinesi dell’OLP anche se respinto da Hamas. Netanyahu e i suoi governi hanno però sempre rifiutato gli accordi di Oslo e hanno emarginato l’OLP per mantenere il dominio sull’intera Palestina.
La cosa incredibile è che in Israele i giornali e l’opinione pubblica denunciano pubblicamente le malefatte e i crimini di Netanyahu e del suo governo, e che anche negli Stati Uniti i giornali più autorevoli, come il New York Times e il Washington Post, denunciano apertamente i guasti della lunga leadership (circa 16 anni) di Netanyahu. Il dibattito in Italia è molto più anodino e conformista di quello che si svolge in Israele e a Washington, nel centro dell’impero dell’Occidente. Voglio qui riprodurre alcune citazioni condivisibili prese dal Financial Times, un giornale internazionale che, come noto, rappresenta gli interessi della grande finanza e dell’Occidente capitalista ma che certamente non può essere accusato di essere contro Israele e, tanto meno, di essere antisemita.
Tra il 2012 e il 2018, Netanyahu ha dato l’approvazione al Qatar per trasferire a Gaza una somma complessiva di circa un miliardo di dollari, almeno la metà della quale ha raggiunto Hamas, compresa la sua ala militare.
La gestione del conflitto non è mai stata così catastrofica come sotto il primo ministro Benjamin Netanyahu. Nella speranza di dividere la leadership palestinese tra gruppi rivali, Netanyahu ha incoraggiato Hamas a prendere il controllo di Gaza. Probabilmente sarà ritenuto responsabile anche del fatto che l’esercito non è riuscito a individuare in tempo i piani offensivi di Hamas.
Mentre lotta per evitare la condanna in un caso di corruzione, Netanyahu ha anche formato un governo che fa affidamento sui partiti di estrema destra. Questi partiti hanno sostenuto la crescente aggressione da parte dei coloni israeliani in Cisgiordania.
(La furia americana dopo l’11 settembre, ndr) ha portato a una decennale “guerra al terrore” che molti americani ora considerano mal concepita e autodistruttiva. Israele potrebbe imboccare la stessa strada pericolosa.
Dal 2009, Netanyahu ha cercato di eliminare ogni prospettiva di una soluzione a due Stati espandendo gli insediamenti nella Cisgiordania occupata.
Purtroppo fino a quando non verranno risolti questi problemi di fondo diventerà assai improbabile, se non impossibile, sradicare il fondamentalismo e il terrorismo islamico che minacciano le cittadine e i cittadini di Israele.
Quanto più Gaza è sotto assedio e bombardamento, tanto più difficile diventa contrastare le accuse di doppi standard (sulla guerra in Ucraina, ndr).
La guerra sta fomentando contemporaneamente l’antisemitismo e l’islamofobia.
Una vittoria militare non potrà mai garantire una pace duratura. Ciò richiede una soluzione politica, le cui prospettive non sono mai sembrate così lontane.
Quando la Russia interrompe le forniture energetiche alle città ucraine, Mosca viene accusata di crimini di guerra. Israele ha tagliato i collegamenti di acqua, carburante ed elettricità con Gaza.
Si sostiene spesso che Israele dovrebbe cercare di eliminare Hamas. È facile capire perché. Ma è probabile che si riveli impossibile. Hamas è tanto un’ideologia e una rete quanto una organizzazione.
Sia Hamas che i talebani utilizzano tattiche terroristiche. Ma la verità sgradevole è che sono anche movimenti sociali e politici con radici profonde.
Con i talebani reinstallati in Afghanistan, chi potrebbe escludere che Hamas continui a governare Gaza tra vent’anni, per quanto improbabile possa sembrare adesso?
Nonostante tutta la sua attuale retorica sulla distruzione di Hamas, non esiste ancora una via militare verso la pace. A differenza degli edifici di Gaza, l’aspirazione palestinese ad uno Stato non può essere ridotta in polvere dalle bombe. La sicurezza a lungo termine di Israele esige che si riprenda il cammino verso una soluzione politica.
Attraverso attacchi come questi, le organizzazioni terroristiche vogliono tre cose: instillare paura, attirare l’attenzione sulla loro causa e provocare una reazione eccessiva. Il terrorismo da solo non mina uno Stato costituito. Ma i capi della sicurezza israeliani sanno che l’obiettivo di distruggere Hamas è probabilmente fuori dalla loro portata. Hamas ha una base politica e un ampio sostegno esterno da parte dell’Iran.
Il governo israeliano non ha ancora alcuna visione che vada oltre l’uccisione dei leader di Hamas.
Israele dovrà adottare misure per facilitare l’emergere di un partner palestinese disposto a rifuggire la violenza e a vivere fianco a fianco con essa. Non solo i palestinesi ma anche gli israeliani trarrebbero beneficio da uno Stato palestinese.
L’esperienza israeliana in Libano corrisponde alla lezione che gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno poi imparato così dolorosamente in Afghanistan, Iraq e Libia. Gli interventi militari da soli non raggiungono gli obiettivi politici. Allontanare un avversario dal potere senza un piano realizzabile su ciò che verrà dopo non porta a una maggiore sicurezza.
L’Autorità Palestinese è troppo debole e il vuoto di potere verrebbe probabilmente riempito dalle bande criminali. Ciò rischia di trasformare la Striscia di Gaza in una Somalia o in un Afghanistan alle porte di Israele, mettendo ulteriormente a repentaglio la sicurezza.
Le relazioni di Israele con l’ONU sono così pessime che è difficile immaginare un’amministrazione ONU del territorio.
A mia conoscenza, a parte qualche singola eccezione, nessuno dei maggiori quotidiani e telegiornali italiani, pubblici o privati, ha avuto l’intelligenza e il coraggio di affrontare con questa lucidità la tragedia del Medio Oriente.
La domanda che intellettuali colti e raffinati come Paolo Mieli si dovrebbero porre è: come è possibile che a 75 anni dalla costituzione dello Stato di Israele si sia giunti all’orribile massacro di 1400 cittadini israeliani e al successivo massacro di circa 10.000 e oltre palestinesi? Come si è arrivati a questo punto? Come è possibile che gli accordi di pace di Oslo siano stati sabotati, e non per colpa dell’Autorità Nazionale Palestinese ma soprattutto da parte di Israele e da Netanyahu in particolare?
Gli insediamenti colonici in Cisgiordania sono circa 280, alcuni ufficiali mentre altri autonomi e nemmeno riconosciuti da Tel Aviv, e ospitano quasi mezzo milione di persone. A Gerusalemme est, cioè la Gerusalemme dei palestinesi, si sono insediati altri 200 mila israeliani. La colonizzazione è in crescita e ha comportato e continua a comportare l’espropriazione di case e terreni a danno degli abitanti autoctoni palestinesi, che sono anche fortemente limitati nella libertà di movimento. In Cisgiordania dopo la strage di Hamas sono stati assassinati da parte dei coloni oltre 100 palestinesi (finora, ma il numero è destinato a crescere). I 700 mila israeliani insediati nei territori palestinesi rappresentano l’ostacolo maggiore a qualsiasi piano di pace basato sulla soluzione invocata dall’ONU, dal presidente americano Joe Biden e da Papa Francesco di “due popoli e due Stati”. I coloni hanno costruito le loro città e i loro insediamenti, le loro scuole e gli ospedali ma su terre non loro. In queste condizioni è diventata quasi impossibile la soluzione dei due Stati: bisognerebbe che circa 700 mila coloni israeliani abbandonassero le terre e le proprietà acquisite. Per questo motivo la pace è lontana.
Il problema è che Netanyahu ha amicizie molto potenti. È un grande amico di Donald Trump: insieme hanno deciso che l’ambasciata americana fosse spostata da Tel Aviv a Gerusalemme. Ma i media italiani si sono ben guardati dall’esprimere una chiara condanna del tentativo di completa annessione della città santa di Gerusalemme da parte di Israele. Il partito di Netanyahu, il Likud, è associato al Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei (in inglese European Conservatives and Reformists Party, ECR) di cui è presidente Giorgia Meloni. La presidente del governo italiano ha sempre incontrato con gioia e grande cordialità Netanyahu. È ora che media e intellettuali si indignino per queste torbide relazioni. È ora di imporre la rescissione di questi opachi legami.
Il premier di Israele ha molti amici tra i potenti politici del partito repubblicano americano e dell’estrema destra internazionale, ma è ormai odiato dalle cittadine e dai cittadini israeliani. I recenti sondaggi mostrano che l’80% circa vorrebbe le sue dimissioni immediate. Nel suo discorso del 28 ottobre Netanyahu ha dichiarato che la guerra per vendicare le 1400 vittime palestinesi è “tra la civiltà e la barbarie” e ha citato la Bibbia per giustificare il bombardamento indiscriminato di donne, bambini e uomini, affermando che “c‘è un tempo della pace e c’è un tempo della guerra. E questo è il tempo della guerra”. Ma per Netanyahu e il suo governo di ultra-destra non c’è mai stato il tempo della pace. Il premier israeliano sembra completamente disinteressato alla sorte dei circa 240 ostaggi nelle mani di Hamas e punta solo a rimanere al potere; con questo obiettivo in mente potrebbe puntare a allargare il conflitto, portarlo anche in Libano entrando in guerra con gli Hezbollah, e quindi poi anche con l’Iran, per continuare a governare sul caos, sul sangue e sulle lacrime degli innocenti.
Perché Mieli e gli altri maître à penser nazionali non hanno il coraggio e la franchezza intellettuale di condannare fermamente la violenta colonizzazione della Palestina che i governi di Netanyahu, con la collaborazione di Donald Trump, hanno promosso e militarmente difeso? Perché Israele ha ignorato e sabotato tutte le risoluzioni dell’ONU sulle colonie e perché lo Stato ebraico ha sistematicamente organizzato la discriminazione dei palestinesi sulle loro terre? Questo è il nocciolo della questione. È ovvio che fino a quando continuerà il processo di espulsione dei palestinesi e la discriminazione violenta dello Stato ebraico a danno dei palestinesi non ci potrà essere nessuna pace e il terrorismo islamico troverà un facile terreno di cultura presso masse giovanili brutalmente oppresse. Affinché si possa tentare di avviare una nuova strada di pace Hamas deve essere sconfitta e sradicata, e Netanyahu e gli elementi del suo governo di estrema destra segregazionista e suprematista devono rassegnare le dimissioni e abbandonare la politica. Questa è l’unica via stretta, difficilissima ma possibile, per una soluzione durevole.
Per fortuna l’America di Joe Biden non vuole certamente essere trascinato in una guerra con l’Iran per colpa di Netanyahu, e tenta di sollecitarlo alla prudenza in vista della riproposizione degli accordi di Oslo. Nel frattempo i nostri intellettuali e politici alla provincia dell’Impero faticano anche solo ad accennare a minime critiche verso il governo fascistoide di Netanyahu. Quanti sono gli intellettuali che si sono schierati apertamente a favore delle manifestazioni di centinaia di migliaia di israeliani che si sono opposti al tentativo di Netanyahu di stravolgere la Corte Costituzionale semplicemente per non essere processato per i tre casi di corruzione di cui è accusato? Se Netanyahu riuscisse nel suo intento allora – e bisogna denunciarlo apertamente – Israele non sarebbe più una democrazia, perché mancherebbe il terzo potere indipendente, la magistratura. Perché nessun grande intellettuale italiano mainstream ha osato criticare la “democratica” legge del 2018 voluta da Netanyahu che ha valore quasi-costituzionale – in Israele non esiste una Costituzione – e che afferma che “la realizzazione del diritto di autodeterminazione nazionale in Israele è unica per il popolo ebraico”, che proclama “Gerusalemme unita come capitale”, e l’ebraico come unica lingua ufficiale, dimenticando ogni diritto per il popolo arabo? Soprattutto, secondo questa legge, “lo stato guarda allo sviluppo dell’insediamento ebraico come un valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuovere la sua realizzazione e consolidamento”.
Non è più sufficiente affermare che l’unica democrazia in Medio Oriente è Israele per giustificare sempre tutto quello che fa. Anche Benito Mussolini è salito “democraticamente” al potere, nominato dal Re e dal Parlamento. Occorre ricordare che le democrazie – come quella ateniese e quella americana fino alla Guerra Civile – possono benissimo essere democratiche all’interno e schiaviste all’esterno. La democrazie non possono essere sempre e comunque assolte per diritto divino.
La verità è che la situazione in Medio Oriente non si aggiusterà finché a dirigere il popolo palestinese ci saranno gli estremisti che vorrebbero eliminare lo Stato di Israele, e fino a quando dall’altro lato ci saranno Benjamin Netanyahu e il suo governo di estrema destra. Solo l’America di Joe Biden ha il potere di imporre la pace in Medio Oriente. Ma ci vuole un “regime change”, un cambio di regime sia nello Stato ebraico confessionale di Israele sia a Gaza. Ci vuole un ricambio di classe politica palestinese anche in Cisgiordania dove Abu Mazen a capo dell’ANP sembra ormai squalificato. Solo con un cambio radicale delle formazioni che governano i due popoli contendenti sarà possibile avviare dei veri negoziati di pace, come quelli di Oslo, sempre avversati da Netanyahu oltre che dall’integralismo arabo. Ma una pace possibile può venire solo se l’amministrazione americana finalmente si imporrà su Israele e solo se verrà concordata con la Russia e la Cina, ovvero con Siria e Iran. Tutto questo naturalmente è molto più facile a dirsi che a farsi.
In ultima analisi una soluzione al conflitto può venire comunque solo da Washington, e solo se l’amministrazione americana capirà che Israele è diventato un alleato troppo pericoloso per essere ancora sostenuto in ogni sua azione e reazione. L’Europa in tutto questo conta poco o nulla, e segue la politica americana sempre e solo pro-Israele: come tutti i servitori zelanti e schiocchi, l’Unione Europea si è quasi sempre dimostrata ancora più filo-Netanyahu degli USA di Joe Biden. Però l’Europa non può e non deve disinteressarsi del Medio Oriente, perché da lì viene il petrolio e perché da lì potrebbe scoppiare la Terza Guerra Mondiale.
Rimane una domanda: perché gli intellettuali mainstream sono così acriticamente dalla parte di Israele anche se i suoi governi alimentano il colonialismo? Pesa indubbiamente il senso di colpa diffuso in Europa presso le classi dirigenti – intellettuali compresi – per la Shoah, lo sterminio di milioni di ebrei che la Germania e poi l’Italia hanno scientificamente ordito contro il popolo ebraico. Ma credo che più ancora pesi il fatto che gran parte degli intellettuali italiani preferisce schierarsi sempre e comunque con i potenti e mai con i deboli.
Per anni il governo di estrema destra di Netanyahu ha cercato di mettere sotto il tappeto, di silenziare il problema palestinese. Per anni Netanyahu ha tentato di fare dimenticare Gaza, la “prigione a cielo aperto”, e l’occupazione della Cisgiordania. Il governo Meloni non può limitarsi a una politica di condanna del terrorismo e di aiuti umanitari verso la Palestina: dovrebbe denunciare le rappresaglie indiscriminate di Netanyahu contro la popolazione palestinese e mediare per la restituzione degli ostaggi. L’Italia e l’Europa dovrebbero moltiplicare gli sforzi per la fine immediata del massacro a Gaza, per riaprire la strada delle trattative e della pace e per il riconoscimento reciproco dei diritti dei due popoli, quello israeliano e palestinese.
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