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Capitalismo woke


24 Nov , 2023|
| 2023 | Recensioni

Il capitalismo è diventato di “sinistra”? Quello che parrebbe un paradosso, più che una provocazione, è un quesito al centro di un testo, (C. Rhodes, Capitalismo woke, Fazi 2023) di estrema attualità, e forse persino anticipatore per quanto riguarda il dibattito italiano ed europeo. Si dedica ad un fenomeno tipicamente statunitense, che ancora pare non abbia lambito significativamente il Vecchio Continente, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente, le cause LGBT, l’antirazzismo, i diritti delle donne e simili.

Il libro in poco più di 300 pagine svolte il tema in 13 capitoli, leggibili quasi indipendentemente dal resto; il primo di essi enuncia la questione in termini generali, e ciascuno dei seguenti lo specifica ed arricchisce in base ad esempi specifici.

L’elemento di riferimento centrale è il termine woke, di cui l’autore fornisce una essenziale ma completa illustrazione: come si descrive nel terzo capitolo (Il capovolgimento dell’essere woke), la parola (che letteralmente significa “ risvegliato” o per estensione semantica “consapevole”) nel suo senso politico deriva la sua accezione da un discorso di Martin Luther King e dal milieu del movimento per i diritti dei neri negli Usa, ma è stata resa celebre al di là di tale ambiente dalla cantante soul Erykah Nadu nel 2008, finché il movimento Black Lives Matter l’ha consacrata nel 2013 come parola chiave del progressismo contemporaneo.

Successivamente woke da termine molto connotato in una radicalità sociale (antirazzismo ma anche anticapitalismo, antimperialismo ecc.) ha avuto uno slittamento semantico per designare una attenzione un po’ ipocrita e ostentativa a cause progressiste di moda quali il razzismo, il cambiamento climatico, la parità femminile, e simili. Alla fine il termine è stato più usato dai suoi detrattori che dai sostenitori, in senso quasi completamente deteriore, indicando una esibizione di virtù morali in tali direzioni, sfociando nella battaglia culturale sul “politicamente corretto”.

Il tema centrale del libro riguarda il fatto che numerose aziende statunitensi (con qualche escursione nel contesto australiano) abbiano abbracciato tali temi e facciano attivismo in tal senso, fornendo una variopinta galleria di esempi: dal ricco CEO di  BlackRock che tuona contro l’ingiustizia sociale, allo spot di Nike contro il razzismo; da Gillette (azienda di lamette da barba) che fustiga la “mascolinità tossica”, al sostegno di varie compagnie al referendum australiano del 2017 sul matrimonio omosessuale. Questi non sono esempi isolati: “fra le imprese, soprattutto quelle globali, vi è una tendenza significativa ed osservabile a diventare woke” (p. 32), tanto che “secondo il New York Times il capitalismo woke […] è stato il leitmotiv di Davos 2020”.

Com’è ovvio, il favore verso tale attivismo sarà di segno simile all’atteggiamento verso i temi in se stessi: tendenzialmente benevolo nel mondo progressista, e di violento rigetto in quello conservatore. Secondo molti commentatori di destra culturale le aziende sarebbero cadute vittime di una agenda progressista che minerebbe il capitalismo: “le grandi aziende sono diventate il principale tutore culturale della sinistra”; “la sinistra culturale ha conquistato le burocrazie delle aziende americane” (due commentatori citati alle pp 15-16). Oltre alla antipatia per la sostanza stessa di tale agenda, fa capolino l’argomento secondo il quale i dirigenti d’azienda non avrebbero il diritto di far valere un punto di vista valendosi del peso economico che possono esercitare – che si limitassero a fare il loro mestiere senza debordare in politica insomma. Argomento non privo di persuasività, anche se va detto, sia pure per inciso, che questa posizione mostra un discreto livello di ipocrisia: non pare che da quel versante politico si sia mai sollevato grande clamore quando industriali reazionari come i fratelli Koch hanno sostenuto e innaffiato di soldi varie realtà religiose conservatrici, o antiambientaliste afferenti al Partito Repubblicano.

Dato che già il sottotitolo del libro fa intuire la sua posizione assai critica (“Come la moralità aziendale minaccia la democrazia”), occorre specificare che l’autore, l’australiano Carl Rhodes, non è un conservatore o un reazionario. Nella sua pregevole ricapitolazione dello sviluppo di Black Lives Matter (pp. 46-55) ha parole elogiative verso tale movimento, individuandone le radici nelle mobilitazioni degli anni Sessanta di M. L. King, e non risparmia le critiche a chi lo attacca da posizioni identitarie: “per la destra antiwoke la libertà di parola si traduce nella libertà di attaccare chi non è d’accordo con lei.”

Eppure la sua posizione verso il capitalismo woke è altrettanto se non – paradossalmente – più critica e negativa di quelle di segno conservatore.

Fra i detrattori gli argomenti in voga sono sostanzialmente due. Secondo il primo un’azienda ha solo il dovere di fare utili, e non dovrebbe fare moralismo o promuovere una determinata agenda politica – non tanto per l’ingiustizia di approfittarsi del proprio potere economico per far avanzare le proprie opinioni, ma per distogliere energie dal suo scopo primario. Il secondo fa leva sulla strumentalità di tali posizionamenti: sarebbe solo un pretesto per rifarsi l’immagine – il celebre greenwashing sui temi ecologici, per esempio. Naturalmente versioni diverse di queste due linee di attacco si trovano mescolate – l’accusa di ipocrisia e incoerenza in particolare ha sempre una grande efficacia, ed è facile stigmatizzare il VIP che corre col jet privato al vertice contro il riscaldamento climatico.

Sintetizzando, secondo la prima critica i dirigenti woke sarebbero troppo poco capitalisti, anche perché rischiano di fare meno profitti; per la seconda lo sarebbero ma con modalità ingannevoli ed incoerenti, usando gli ideali come mero marketing.

La prima obiezione per l’autore è assolutamente da respingere: le aziende che hanno esibito un attivismo woke più accentuato non hanno visto un crollo dei propri utili ma al contrario hanno consolidato se non rafforzato la loro posizione sul mercato. Questo tenendo conto anche del fatto che non si tratta solo di un posizionamento di immagine a costo zero (rilasciare comunicati con le proprie posizioni e mandare i dirigenti a fare dichiarazioni ha un costo nullo ovviamente) ma anche di contributi concreti – parliamo di milioni di dollari per queste cause. Eppure il ritorno di immagine consente non solo di recuperare i costi ma di ampliare gli utili.

Questo ci porta alla seconda critica, che Rhodes analizza andando oltre l’accusa un po’ superficiale di falsità o ipocrisia, ma gettando uno sguardo alla logica interna dell’impresa. Le due modalità di approccio aziendale che esamina sono la responsabilità sociale d’impresa (RSI) e il mecenatismo dei ricchi.

Il primo di questi principi è un richiamo ai dirigenti a considerare nelle proprie decisioni le ricadute su tutti i soggetti (detti stakeholders, “portatori di interessi”) coinvolti. Si dovrà dunque gettare un occhio su consumatori, lavoratori, fornitori, ecc. per includere anche il loro benessere, oltre a quello di proprietari. Questo sembra in contraddizione con la centralità del primato degli azionisti. L’autore mostra come tale nozione – secondo la quale il primo dovere e obiettivo primario dell’azienda è produrre profitti per essi, appunto – serpeggia nella ricerca accademica negli anni Settanta per esplodere nella cultura aziendale nel 1983, conformemente al disegno dei governi neoliberisti di Thatcher e Reagan di costruire ogni individuo come un capitalista. Ma in realtà poiché il fine è di pulire il biasimo che l’impresa attira su di sé perseguendo esclusivamente profitti, la RSI può essere vista non come una attenuazione degli interessi degli azionisti ma come una miglior strategia per la tutela degli stessi a lungo termine, evitando boicottaggi, pubblicità negativa, rivalse legali e simili.

Qualcosa di simile è il mecenatismo filantropico dei ricchi, il cui riferimento principe è Andrew Carnegie e il suo saggio Il vangelo della ricchezza. Si tratta, in questo caso, di usare una certa parte del proprio patrimonio a favore di opere di utilità sociale – soprattutto di carattere culturale, ai tempi del magnate (tipo biblioteche o musei); una sorta di strategia politica per evitare che la recrudescenza della diseguaglianza lasci spazio al socialismo, dando una parvenza di armonia fra ricchi e poveri. Tale forma, se pare abbastanza sorpassata nella sua modalità ottocentesca- primo novecentesca (segnata da un paternalismo abbastanza fuori fase), sopravvive oggi nelle fondazioni foraggiate dall’oligarchia che erogano borse di studio o altri tipi di sovvenzioni; ed è proprio una di queste, la Andrew Mellon Foundation che nell’estate del 2020 ha annunciato una decisa priorità “alla giustizia sociale in tutte le sue forme”.

Entrambe queste forme di “redistribuzione dall’alto”, al di là degli innegabili impatti positivi che sicuramente possono avere sui loro beneficiari diretti, prestano il fianco a critiche sulla loro sincerità o sulla rilevanza sull’insieme della società: i limiti di tali orientamenti saranno logicamente il non poter mettere in discussione la base del profitto, dovendo limitarsi al sentiero stretto della compatibilità con essa.

Simili critiche colpiscono in pari misura il capitalismo woke. E’ facile vedere come fra i temi di tale impegno ci sia una forzosa selezione determinata dagli interessi preminenti: non si è ancora visto le grandi aziende scendere in campo contro l’elusione fiscale, perché sono i primi a praticarla.

Rhodes però non si limita a stigmatizzare una forma di strumentalità o incoerenza, ma nel nucleo forte della sua argomentazione si spinge più lontano. Prima di tutto la considera una forma di sfruttamento ulteriore. Nel capitolo in cui si descrive il posizionamento della National Football League (NFL) contro il razzismo si suggerisce un parallelismo suadente: il 70% dei giocatori della NFL è afroamericano, ma le squadre sono tutte possedute da bianchi; dopo una lunga tradizione di sfruttamento commerciale delle doti fisiche dei neri, adesso avviene la cannibalizzazione delle loro lotte. La NFL, infatti, dopo aver sbattuto fuori importanti giocatori perché per protesta si inginocchiavano anziché cantare l’inno nazionale prima delle competizioni in segno di protesta per la brutalità della polizia, ha introdotto nel luglio 2020 il canto Lift Every Voice and Sing, un brano considerato fra le massime espressioni del radicalismo nero, prima di ogni partita. Simboli e slogan vengono così sfruttati – quando cambia il vento – per rifarsi l’immagine continuando a macinare profitti.

Ma non è solo questo. L’autore, citando l’avvocato costituzionalista John Whitehead (p. 20) vede nel capitalismo woke una modalità con cui le grandi imprese si stanno sostituendo al governo democratico, regredendo a una forma di neofeudalesimo. E lo fanno nel modo seguente: nel contesto in cui l’amministrazione Trump ha mancato di dare risposte convincenti a problemi quali la violenza poliziesca e il controllo sul possesso di armi, esse si sono poste come nuovi “riferimenti morali”. Come afferma, in maniera inquietante, il presidente della Ford Foundation, di fronte agli squilibri sociali “in mezzo alla tempesta la voce più chiara è stata quella delle imprese”. Gli amministratori delegati di General Motors e Wal-Mart si sarebbero “assunti il rischio di dire la verità al potere”. 

Alcuni passi citati fanno veramente rabbrividire: esponenti delle più grandi aziende di un paese che è universalmente considerato una corporatocrazia che si appellano alla responsabilità morale di tenere una postura etica di fronte ai mali che affliggono la società. Tutto ciò ricorda la cosiddetta “cattura oligarchica”, il processo in cui il mondo degli affari riesce a controllare le istituzioni nominalmente dedite al bene pubblico per fare i loro interessi. Adesso sono le stesse strutture simboliche emancipative che vengono colonizzate e sfruttate.

Senza contare il fatto che il panorama di sconsolante svuotamento della politica di affrontare i problemi sociali lo hanno in buona sostanza creato le imprese stesse, corrompendone soggetti e prendendo il controllo degli apparati, vampirizzati dalle varie lobby. Proprio in ragione di ciò è sorto il populismo identitario di Trump e di altri suoi simili nel mondo.

L’autore in merito a ciò suggerisce di “diventare woke nei confronti del capitalismo woke”, rifacendosi all’etimologia originaria del termine: essere consapevoli che i guasti sociali non verranno risolti da esso, ma aggravati, perché promosso dagli stessi soggetti che li hanno determinati.

Rimarrebbe da dire quanto tale testo parli agli europei e agli italiani in particolare. Può darsi che tale fenomeno arrivi anche qui, come molte mode da oltre atlantico. Chi scrive non pensa che ciò avverrà, almeno in queste forme, perché il contesto sociale è profondamente diverso e un processo di adattamento sarebbe impegnativo. Ma si deve segnalare che qualcosa del genere è già avviato nel Vecchio Continente: non le imprese diventano direttamente la fonte del verbo moralizzatore, ma gli apparati burocratici diretta espressione delle pressioni lobbistiche e della tecnocrazia: gli organi della Commissione e la BCE. Se si pensa infatti al modo in cui esse si stanno attivando sul tema del cambiamento climatico abbiamo un perfetto esempio di cattura oligarchica di un tema una volta patrimonio di gruppi radicali o anticapitalisti per volgerlo a vantaggio del profitto privato o comunque giocarlo nel letto di procuste di strumenti di mercato. Anche in questo campo il suggerimento di Carl Rhodes a mantenere la barra dritta e non farsi ingannare focalizzando l’attenzione sui problemi sociali reali (p. 267) pare convincente; ma chi scrive direbbe piuttosto: tenere presenti i nodi strutturali, cioè i meccanismi di accumulazione di profitto, di abbassamento dei salari e dell’agenda di privatizzazioni e liberalizzazioni propugnata dalla mannaia della centralità della concorrenza nel diritto europeo che schiaccia il costituzionalismo democratico.

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