Mio caro Fernando Pessoa,
cosa dell’inquietudine mi appartiene? La separazione, forse. Il tale con il cappello nel bar seduce una giovane dai modi ottocenteschi. Li guardi e costruisci immaginari nel ventre delle cose che accadono e cadono simultaneamente in questo istante. Dal quarto piano spalancato sull’infinito, nella plausibile intimità della sera che scende, alla finestra, sull’inizio delle stelle, i tuoi sogni vanno, in ritmico accordo con l’evidente distanza, in viaggio per paesi sconosciuti o ipotizzabili, o solamente impossibili.
Mio caro, non conosco le voci degli altri, nelle marce funebri notturne, paggi dalla bionda freschezza sguainanti lame scintillanti. La vita mi appartiene nell’estraneità. Ti immagino seguire l’arabesque dei pensieri, non fissare nulla, se non annotazioni sull’inconscio. So, essere la tua prospettiva sfalsata dal tentativo di eludere la vita mentre, scrivendola, ti si è rivelata. Non potevi più fingere di non vedere. Volevi allontanarti dagli altri, da tutti. Ti ho imitato in questa estinzione, ma non era un vezzo il mio: desideravo smettere di errare. Fu il sommo errore. Tolta la pazzia restava una melanconica coltre di macerie. Non fuggite, amici, la pazzia, non esiste vita fuori dal delirio, non è che la noia della nostalgia, la schiuma della nevrosi.
Tu sai, bisogna abitare un paese spettrale, popolare di spettri il mondo, non lasciare spazio al deserto, non lasciargli scandire il tempo. Il deserto sono gli altri, ma li ho come te elusi, prima che tutto tornasse a manifestarsi, mi è rimasta l’insignificanza. Dicevi di non poter amare, l’amore era un’idiozia che non potevi concederti. Cosa mi diresti se ti rivelassi che solo l’amore salva, non l’essere amati ma l’essere mossi eroticamente verso la conoscenza. L’amore che i maestosi immortali, come te, hanno dato alle pagine, mentre io lo cerco negli esseri umani, e mi struggo di non poterli sentire, resto a guardare con le mani poggiate a un vetro, sento la separazione, non il cuore. Il tuo cuore era fatto di visioni, forse per questo gli altri potevano inquietarti fino a disgustarti, erano parti del prisma con cui il reale si mostrava e occultava simultaneamente.
Non posso usare le tue parole per parlarti, vorrei solo tornare a sentire le cose, vorrei tornare al principio dell’inquietudine e sventrarla. Cosa si prova controcorrente? Quel ritratto franato dall’insignificanza è ormai la tentazione di credere che se avessi fatto esattamente come loro non sarei qui a raccattare briciole, a ricomporre rovine. Tu conosci il sogno, l’irrazionale che si fa pensiero, la melanconia tramutata in estrema immaginazione; la distanza che con le parole e il proliferare di idee si può ottenere vagolando senza meta pur restando perfettamente immobili. Le folli peregrinazioni, le identità sovrapposte, l’ironia degli pseudonimi. Eri nella relatività assoluta, fucante latinità rapita dalla freddezza di un barbaro. Nessuna contraffazione intellettualistica; restavi perfino nella sparizione, restavi accanto alla bellezza e alla miseria umana. Le donne che amavi erano le irraggiungibili, sognate in paesaggi notturni. La tua luna era sempre uno spicchio, la tua finestra un crepuscolo sull’intera persona – impersonale – una sola moltitudine. Restavi onirico, era il desiderio a inseguire e fuggire, nella tua terra eternamente straniero. Non avevi che da restare in una stanza, fumare una pipa, osservarla, riformulare il desiderio incandescente della sconosciuta viandante, della donna ingioiellata nel Caffè al culmine della strada, delle sue labbra. Diglielo, dillo a tutti di non guarire, di non diventare normali, perderebbero la possibilità di inventare. Non guarire, ascoltare il boato delle notti inquiete. Ma guarire, ora. Non esiste un tempo maturo per leggerti, ogni tempo è maturo e acerbo. Tu parli con le ombre.
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