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L’Utopia militare: l’alternativa blasfema di Jameson al nostro sciagurato presente
“Nel corso degli ultimi decenni si è assistito a una marcata diminuzione nella produzione di nuove utopie”: con questo incipit il critico e filosofo americano Fredric Jameson fa esordire uno dei suoi ultimi saggi intitolato, nell’edizione originale, in maniera assai efficace An American Utopia: Dual Power and the Universal Army. Il titolo adottato dalla traduzione italiana, pubblicata dall’editore Meltemi, sembra direzionare l’attenzione dell’autore su un piano più globale e generale: Risentimento sociale. Sulle alternative al capitalismo globale infatti non fa comparire il riferimento agli Stati Uniti, ma sembra insistere maggiormente sulla necessità che la politica si ripensi e si rigeneri dinanzi ai populismi di varie fogge. Un elemento resta essenziale: la necessità di un’alternativa a un ordine geopolitico, finanziario, culturale non solo alla sua prossima fine, ma soprattutto – come un animale ferito – capace nel suo prolungato tramonto di fare una quantità di danni tale da escludere ogni opportunità di ricostruzione e rinnovamento.
Tra i pensatori contemporanei, a mettere in connessione il concetto di “utopia” e l’America è stato Jean Baudrillard negli anni 80, quando parlava dell’iperrealtà americana come del pieno compimento dell’utopia nell’ottica dello spettacolo e del consumismo. Conseguire l’utopia è quanto di peggio possa però accadere a una civiltà, perché l’utopia ha senso e contribuisce al progresso di una collettività solo quando rappresenta il termine asintotico da conseguire, il faro a cui rivolgere azioni e pensieri. La sua capacità propulsiva, esattamente come il desiderio, si disperde e si capovolge nel suo opposto quando la agguantiamo, per questo un’utopia realizzata è un ossimoro, perché diventa luogo del non-luogo. “Utopia americana” non significa perciò contraddire l’assunto di Baudrillard, ma riattivare il motore della storia ristabilendo la prospettiva – palesatasi in tempi recenti, con sempre maggiore urgenza – della necessità che anche il tanto autocelebrato modello americano torni a servirsi di utopie in grado di direzionare l’agire pubblico, per uscire da una fase di tale gravità che sarebbe impossibile trovare uno scenario migliore per la riemersione dell’utopia (non a caso American Utopia è anche il titolo di un’opera di David Byrne e di uno spettacolo-concerto divenuto un film diretto da Spike Lee del 2020, a segnalare ulteriormente questa urgenza condivisa su più piani).
La recente diffusione dei racconti distopici sono una testimonianza delle difficoltà collettive a ipotizzare “futuri” e perciò “presenti” alternativi; facciamo molta meno fatica, sul piano dell’immaginario, a ipotizzare varie e sconvolgenti fini del mondo, crolli dei sistemi sociali e politici consolidati, nonché catastrofi naturali, ambientali, politiche che fanno da scenario alla gran parte delle narrazioni videoludiche, seriali, cinematografiche. Per progettare l’avvenire sono necessarie le utopie; affinché esistano le utopie, secondo Jameson, è fondamentale la Storia con la esse maiuscola. La morte dell’utopia deriva infatti da una rimozione del senso autentico della storia, che si è trasfigurata in neostoria (pastiche postmoderno, museo immaginario o persino nostalgia retromaniaca) che rappresenta un surrogato della comprensione storica autentica, messa al servizio delle dinamiche del mercato globale. Senza la categoria della testimonianza in quanto comprensione critica del passato e suo riconoscimento effettivo come fondamento del presente, è impossibile direzionare l’agire presente in vista di un futuro. Il postmoderno è caratterizzato da un’attitudine al presentismo proprio in questi termini: tanto il passato quanto il futuro, tanto la testimonianza quanto l’utopia sono assorbiti dall’esigenze del presente immediato, che sono esigenze corporali, fisiche, nervose, votate all’edonismo dello shock perpetuo: “La postmodernità in generale è caratterizzata da questo nuovo genere di temporalità presente, da una riduzione al corpo. In questa nuova dialettica di spazio onnipresente e di presente vissuto, o temporale, la parte sconfitta è la storia, la storicità, il senso della storia: il passato è andato e non possiamo più immaginarci un futuro”.
La tendenza catastrofistico-nichilista di Jameson, critico particolarmente sensibile alla letteratura, al cinema e alla cultura di massa in senso più generale, deriva dall’eredità della stagione della Scuola di Francoforte e in particolare del pensiero di Theodor W. Adorno, filosofo del quale Jameson nel corso degli ultimi decenni può essere ritenuto uno dei più significativi interpreti, in grado anche di rilanciare tale pensiero nell’ottica della cultura postmoderna. Ma veniamo alla dimensione propositiva che questo saggio esprime innanzitutto, fin dal titolo, non solo nel sottotitolo dell’edizione italiana, ma soprattutto nel titolo originale. Qual è in altri termini l’utopia americana proposta da Jameson? Diciamo subito che tale dimensione appare limitata, per certi versi insostenibile se non persino eretica. E d’altronde, le utopie o sono radicali, o non hanno senso di esistere. Questo lo sa bene Jameson, che scrive questo saggio nel “lontanissimo” 2016 (anni prima dell’emergenza pandemica e dell’acutizzarsi delle crisi geopolitiche), ma l’aggravarsi della situazione globale non può che rilanciare ulteriormente l’interesse nei confronti di queste pagine, che arrivano in Italia solo in questo sciagurato 2023. “Questo tramonto della storia, della storicità o della coscienza storica pone chi di noi crede ancora a un cambiamento sistemico radicale di fronte ad alcuni problemi politici molto concreti, e in particolare all’obbligo di pensare la rivoluzione in un modo nuovo”: ripensare non solo la politica nei termini istituzionali, ma anche la prassi rivoluzionaria secondo un nuovo modello, espresso da quelle due categorie, il “doppio potere” e l’ “esercito universale”, che nella riflessione di Jameson rappresentano due facce della stessa medaglia.
Il doppio potere è un elemento mutuato dal lessico leninista, essenziale anche nella teoria politica di Mao Tse-Tung e che si ritrova nel rapporto marxiano tra struttura/sovrastruttura e nella sua applicazione gramsciana: sostenere la doppiezza significa riconoscere la possibilità, soprattutto nella fase rivoluzionaria di transizione tra due ordini, di risultare persino “incoerenti” (la coerenza spesso è sinonimo di stupidità, avrebbe detto Adorno). In altri termini, il doppio potere contempla il momento della rivolta e l’istituzione progressiva del nuovo ordine; l’idea è quella di riconoscere una terza posizione tra il colpo di stato e la trasformazione graduale, ovvero tra la rivoluzione e l’instaurazione della socialdemocrazia conseguita attraverso gli strumenti del suffragio. Se la fine della storia ha determinato la fine dell’utopia, e la fine dell’utopia ha stabilizzato il divenire annullando ogni ideologia e di conseguenza ogni lotta di classe, allora la proposta di Jameson può sembrare per certi versi una cura persino più pericolosa del male che intende combattere; e tuttavia, traspare nell’argomentazione jamesoniana una sorta di malessere soprattutto nei confronti di quella “new left” e dell’ideologia woke così affezionate ai dibattiti sul politicamente corretto, non a caso interessati a rimuovere la storia piuttosto che a comprenderla. Al cinismo generalizzato rivolto alla politica, ormai universalmente intesa come un male, il cinismo di Jameson rappresenta un antidoto: che un marxista di vecchia data, legato alla cultura dei radicali anglosassoni e spesso ospite in Cina come Visiting Professor, si rivolga al proprio lettore proponendo come soluzione un’ “utopia militare” potrà lasciare interdetti in molti. D’altronde, se il mantra della sinistra, tanto quella giovanile quanto quella attempata, è sempre stato quello dell’ingenuo pacifismo e della de-militarizzazione, la proposta di Jameson (e questo ben prima degli attuali surriscaldamenti di origine geopolitico) è quella di istituire una democrazia militare, dove ogni cittadino oltre a svolgere la propria mansione professionale come accade comunemente, sarà anche membro di un esercito nella logica proprio di quel “doppio potere” a cui facevano riferimento. Una società emancipata non è il sogno di una collettività senza violenza e senza armi, ma la piena attuazione della consapevolezza che violenza e armi non potranno mai scomparire del tutto dal mondo: l’utopia d’altronde non è miraggio sognante e ingenuo, ma principio progettuale che indica la via.
Certo, in una cultura che ha accolto come un gesto di civiltà l’abolizione della leva militare, e che a tutto starebbe pensando fuorché alla reintroduzione di un arcaico retaggio di un mondo ormai scomparso, sembrano parole se non folli quantomeno isteriche. Invece l’argomentazione di Jameson non si lascia trasportare da alcuna enfasi: essa procede con metodo e con una calma che fa apparire tale utopia come la necessaria risposta alla dispersione generalizzato del senso di collettività del presente. Infatti, se i pregiudizi antimilitaristici coincidono con l’antisocialismo e con l’anticomunismo, al contempo essi entrano in conflitto anche con le logiche neoliberiste – e quando si scontentano tutti, probabilmente si è vicini alla soluzione più appropriata, all’utopia migliore. Per quale ragione l’utopia militare dovrebbe rappresentare un’opportunità per un nuovo ordine? Perché il cameratismo militare secondo Jameson è l’esperienza in grado di far maturare un’intera collettività in maniera democratica, perché si sta al fronte tutti insieme a prescinde dalla derivazione sociale e dal censo, dall’età e dai gusti sessuali. Il dovere di proteggere la propria comunità è il valore primario che mette in evidenza quanto fragile un sistema possa essere e di quanto ci sia bisogno di tutelarlo e preservarlo in ogni momento. Avere delle armi in pugno vuol dire toccare quello che è il fondamento di ogni vivere civile e libero, ovvero la “presenza latente” delle armi come sigillo di garanzia della democrazia, dalle quali siamo sempre troppo lontani per comprenderne la funzione. Il mondo militare, abbandonato nell’immaginario occidentale alle ideologie parafasciste, deve venire recuperato dalla sinistra non in chiave nazionalista, in fondo neanche in chiave classista, ma nella prospettiva “globale” (per quanto, quella di Jameson sia un’“utopia americana”, appunto). Il mondo militare abbatte le classi, abbatte le distinzioni, ed è uno dei pochi settori a essere intrinsecamente democratico: “Le immediate repulsioni verso le disgustose diversità culturali, l’ineludibile stare gomito a gomito con persone con le quali non hai niente in comune e che normalmente eviteresti – questa è la vera democrazia, normalmente nascosta dai vari rifugi di classe, dalle professioni o dalle stesse famiglie”. Che questo presupposto nella cultura europea spetti al settore scolastico sui diversi livelli, la dice lunga sui limiti del modello americano, dal momento che, come sappiamo l’educazione negli Stati Uniti non è un diritto democratico ma è sempre bilanciato sulle varie differenze sociali, rinforzando ulteriormente quelle differenze piuttosto che concedere una maturazione unanime e collettiva. Che anche nella vecchia Europa la direzione sia sempre più questa, ovvero la creazione di spazi differenziati a seconda della provenienza sociale e della disponibilità economica, ci suggerisce che, in fondo, la proposta di tale “utopia americana” possa valere anche qui da noi.
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