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L’ombra della guerra si allunga in Sudamerica?


4 Dic , 2023|
| 2023 | Visioni

La storia del Venezuela è molto tormentata, il canale di Nova Lectio le ha dedicato un paio di video di approfondimento circa due anni fa[1]. Assai meno conosciuta, invece, è quella di un altro paese ai suoi confini, la Guyana, per meglio dire la Repubblica cooperativa della Guyana, per distinguerla da quella francese, uno dei territori d’oltremare, residuo dell’immenso impero coloniale di un tempo, e il Suriname, ex Guyana olandese, indipendente dal 1975.

Questa nazione grande più o meno 100mila kmq quadrati in meno rispetto all’Italia (all’incirca 214mila contro i 301mila nostrani), con una popolazione di poco più di 800mila abitanti – il 40 per cento dei quali ancora nel 2017 viveva in condizioni di povertà – si affaccia sull’oceano Atlantico e confina con Venezuela, Brasile e Suriname. Il suo territorio è costituito in buona parte da foresta amazzonica ed è ricco di giacimenti petroliferi, ma anche di altre risorse naturali come gas, oro, diamanti, acqua e legname, con un sottosuolo e una piattaforma continentale in buona parte ancora da sfruttare.

La sua storia è molto articolata. Tra le curiosità che vogliamo citare, forse poco conosciuta, è che in conclusione di una delle diverse guerra combattute nel ‘600 tra inglesi e olandesi, i Paesi Bassi riacquistarono una serie di territori perduti, compreso quello corrispondente all’attuale Suriname, cedendo in cambio all’Inghilterra la città di Nuova Amsterdam, che poi sarebbe stata ribattezzata New York in onore del Duca di York.

La colonia britannica della Guyana sarebbe stata formalmente costituita nel 1831. Furono i nuovi padroni ad avviare la bonifica del territorio e impiantarvi colture intensive, a cominciare dalla canna da zucchero, che favorì l’industria dei derivati di rum e melassa.

I movimenti indipendentisti, sviluppatisi ovunque già nel primo dopoguerra, tornarono in auge con la fine del Secondo conflitto mondiale.

Nel 1953 gli inglesi dovettero concedere una Costituzione alla Guyana, che però fu sospesa quando alle prime elezioni libere a trionfare fu il partito Progressista Del Popolo, guidato dai coniugi Cheddy e Janet Jagan, espressione della componente etnica maggioritaria di origine indiana: gli inglesi, temendo per i loro interessi economici e sospettando simpatie comuniste da parte del governo guidato da Jagan, decisero di inviare nel paese una spedizione militare e di sospendere la Costituzione, instaurandovi un governo ad interim. Ma il colonialismo era oramai al tramonto. Nel 1954 i paesi sudamericani, riuniti a Caracas, ribadirono la necessità che tutti i territori coloniali del continente raggiungessero la piena indipendenza e nel 1957 le elezioni videro una nuova affermazione del partito di Jagan (PPP), che non potendo tornare alla testa dell’esecutivo per l’opposizione britannica, ne divenne membro in qualità di ministro dell’Industria e del Commercio, mentre sua moglie Janet ebbe la Sanità.

Nel 1961 il PPP vinse nuovamente le elezioni e Jagan tornò alla guida del governo, nonostante continuassero gli ostacoli frapposti dagli inglesi. Il suo mandato durò circa tre anni, e non fu un periodo facile sotto molti punti di vista, fra crisi economiche e sociali. Nel mese di maggio del 1966 la Guyana conseguiva la formale indipendenza da Londra, pur restando membro del Commonwealth Britannico.

Nel 1970 la nuova Costituzione avrebbe attribuito allo stato la denominazione attuale di “Repubblica Cooperativistica della Guyana”, il cui primo Presidente fu Arthur Chung, giudice di origine cinese. Il paese si schierò coi non allineati e nel 1972 la capitale Georgetown ospitò la conferenza dei paesi che non si riconoscevano nei due blocchi, il che non impedì di intessere importanti relazioni con varie nazioni del blocco comunista, comprese URSS, Cina e Cuba. Il nuovo premier Forbes Burnham decise anche di far entrare il suo partito (Congresso Nazionale del popolo, PNC, nato da una costola del PPP) nell’Internazionale Socialista. Il suo governo avrebbe assunto progressivamente tratti autoritari, e nel corso del suo mandato si sarebbero ampliate le divisioni etniche e razziali nella società: Burnham sosteneva la componente di discendenza africana, contrapposta all’etnia indiana capeggiata da Jagan. Ci misero del loro anche Stati Uniti e Regno Unito i quali, per mano delle rispettive intelligence, fomentarono disordini politici innescati dal timore che la Guyana potesse trasformarsi in una “nuova Cuba”, pure infiltrandosi in vari gruppi politici e alimentando le tensioni razziali[2].

Negli anni Ottanta, complice una grave crisi economica, la Guyana fu costretta a riavvicinarsi agli Stati Uniti, il che provocò una serie di misure economiche che portarono inflazione, disoccupazione e un generale peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Seguirono forti proteste, mentre nel 1985 alla morte di Burnham, che nel frattempo era divenuto presidente della Repubblica, venne eletto Desmond Hoyte (sempre del PNC), che pensò bene di avviare una campagna di privatizzazioni per favorire investimenti esteri (a qualcuno ricorda qualcosa?).

Il malessere popolare e la richiesta di maggiore democrazia crearono nuovi disordini, tanto che nel 1991 fu proclamato lo stato d’emergenza, ma le elezioni del ’92 confermarono al potere il PNC guidato da Hoyte, che per l’occasione si alleò proprio con Jagan, che venne poi eletto alla carica di capo dello Stato. La politica di privatizzazione associata allo sviluppo del welfare proseguì anche in questa fase, contrassegnata da un progressivo peggioramento dei rapporti coi vicini Venezuela e Suriname, dovuta a una serie di dispute di confine. Nel 1997, morto Jagan gli succedette la moglie Janet, ma l’elezione fu contestata e diede origine a nuovi  disordini, protrattisi per un paio d’anni. Il paese è oggi guidato dal presidente Mohamed Irfaan Ali, il cui partito (Progressista del Popolo) ha vinto le elezioni del 2020, facendone il primo musulmano alla guida dello stato; Alì subentrava a David Arthur Granger, esponente del PNC, al potere dal 2015.

La vittoria di una forza che agli occhi degli americani (e degli inglesi) è di ispirazione marxista, avvenuta con un ristretto margine, non ha di sicuro fatto piacere alle multinazionali operanti nel paese, a cominciare dalla statunitense ExxonMobil, che paventava così la perdita dei lucrosi affari collegati ai giacimenti petroliferi scoperti di recente. Exxon, assieme ai partner Hess Corporation e China National Offshore Oil Corporation, si era difatti garantita lo sfruttamento del blocco offshore di Stabroek, situato nelle acque territoriali della Guyana, che frutta centinaia di migliaia di barili al giorno, con una produzione in costante crescita. Parliamo, per dirla tutta, di una compagnia che ci ha sempre tenuto a presentarsi come rispettosa dell’ambiente e attenta al «progresso ecosostenibile», per quanto si tratti della stessa impresa che – in base agli standard del Climate Accountability Institute – figura tra le prime al mondo per emissioni inquinanti, oltre a investire ingenti capitali per finanziare campagne di branding e attività di lobbying per screditare l’emergenza climatica, assieme alle “sorelle” Royal Dutch Shell, Chevron, BP e Total.

La Exxon è stata in questi ultimi anni il dominus della politica energetica della Guyana, il che spiega i timori circa il nuovo corso politico. Per la verità, non sembra che finora queste paure si siano concretizzate: basterà citare una notizia delle settimane scorse secondo cui l’italiana Saipem si è aggiudicata due contratti offshore, uno in Guyana e l’altro in Brasile, del valore stimato di circa 1,9 miliardi di dollari, per giacimenti situati proprio nel blocco di Stabroek, acquisendo il progetto da una controllata di ExxonMobil.

E qui veniamo alla cosiddetta “maledizione delle risorse”, che se è emblematica quando si parla di Africa, non è un’esclusiva del continente nero: come noto, il possesso di enormi ricchezze naturali non necessariamente porta prosperità alle popolazioni autoctone.

Leggiamo quanto scriveva a tal proposito la rivista Magazine Energy di ENI, nel numero 56 della pubblicazione: “ll più delle volte, questi Paesi diventano stati rentier, caratterizzati da un governo incentrato sull’estrazione di risorse naturali e sulla canalizzazione del reddito che ne deriva verso un determinato elettorato. I Paesi segnati da profonde divisioni etniche o tribali sono particolarmente inclini a questo tipo di scenario, con il governo che diventa un mero strumento nelle mani di un’élite che lo usa per monopolizzare le rendite delle risorse ed escludere i gruppi rivali”, composti per un “40 per cento di indiani, 30 per cento di africani, 10 per cento di indigeni e il restante 20 per cento misto. Fatto ignominioso, la politica del Paese presenta divisioni analoghe, con un partito popolare progressista che domina grazie al sostegno che gli viene, soprattutto, dalla popolazione indo-guyanese, e, all’opposizione, un congresso nazionale del popolo appoggiato prevalentemente dagli afro-guyanesi. Che cosa succede se si getta una valanga di denaro petrolifero su un sistema politico così strutturato? Molto spesso si produce una feroce scissione etnico-partigiana”[3]. Per quanto il presidente Alì abbia più volte assicurato il suo impegno per un utilizzo delle risorse per il benessere di tutti i cittadini e in linea con gli obiettivi di sviluppo e rispetto dell’ambiente, con tanto di programma varato dal Parlamento nel 2021, emergono una serie di contraddizioni e problemi – non ultima la mancanza di risorse strumentali e umane – che si frappongono alla realizzazione di queste finalità, senza contare che molti investimenti, specie stranieri, difficilmente sono fatti senza la garanzia di un ritorno: è risaputo che l’azione di questi soggetti – al di là dei proclami ufficiali – difficilmente si sposa realmente con istanze ambientali e/o delle popolazioni coinvolte.

E con questo veniamo ai giorni nostri, visto che non è certo un caso se ragioni di ordine economico e/o legate alle risorse naturali, a cominciare da quella petrolifera, siano in prima fila tra i fattori scatenanti di un nuovo e potenziale scenario conflittuale in America Latina.

In Guyana esiste una regione chiamata Esequiba (o Guayana Esequiba), grande all’incirca quanto la Grecia e situata nella zona del massiccio della Guiana, compresa entro i fiumi Cuyuni e Essequibo, con una estensione territoriale di circa 159 kmq, praticamente i due terzi del paese, con una popolazione di circa 128mila abitanti, per lo più indigeni di varie etnie.

Il territorio viene rivendicato, non da oggi, dal vicino Venezuela, che domenica 3 dicembre ha celebrato un referendum popolare consultivo, articolato in cinque quesiti e riservato ai suoi cittadini, in sostanza per chiedere ai venezuelani se vogliono l’annessione della regione di cui trattasi.

L’esito della consultazione appariva scontato in partenza. Per la cronaca, stando ai dati ufficiali diramati dalla commissione elettorale, avrebbero votato circa la metà degli aventi diritto (10.554.320 elettori), con una netta prevalenza dei si, stimata al 95 per cento per i cinque quesiti proposti, compreso il quinto – forse il più impattante – nel quale si chiedeva al popolo se fosse favorevole alla creazione di uno Stato, denominato Guyana Esequiba, e per il suo ingresso nella federazione venezuelana. Chiaramente non mancano le contestazioni ai risultati con l’opposizione, tra gli altri Henrique Capriles, due volte candidato alle presidenziali, che denuncia una partecipazione assai più ridotta, di poco più di due milioni di persone, a ciascuna delle quali sarebbero stati messi a disposizione cinque voti (uno per ogni quesito elettorale), dal che discenderebbe un risultato quintuplicato e “gonfiato” della partecipazione al voto.

Il vero interrogativo, a questo punto, è cosa farà il Venezuela di Maduro, per quanto il governo, vantando l’ampia partecipazione e l’unità dimostrata dal popolo, continui a parlare di una risoluzione pacifica della questione.

Il Brasile di Lula, timoroso di una deflagrazione, ha già deciso di mobilitare le sue truppe al confine, mentre sulla consultazione pendeva l’esito di un ricorso presentato dalla Guyana alla Corte Internazionale di Giustizia, volto non solo a rigettare le rivendicazioni del Venezuela, ma pure a far dichiarare la nullità dei cinque quesiti, per contrarietà alle leggi internazionali.

Tali obiezioni non hanno minimamente fatto arretrare Maduro, che contesta le posizioni del governo di Alì e i suoi sponsor, indicati negli Stati Uniti e nella compagnia ExxonMobil, accludendo una serie di ragioni assieme giuridiche e storiche.

Il vero nodo riguarda il titolo per il possesso della regione. Se la Guyana sostiene che le sue ragioni di fonderebbero sul lodo arbitrale del 1899, che assegnò la sovranità del territorio (allora colonia britannica) al Regno Unito, sostenendo che pure il Venezuela aveva accettato la sentenza fino a quando non aveva mutato indirizzo nel 1962, sostenendo che l’accordo in questione era stato preso in sua assenza (parteciparono in sua vece gli USA) e contro i suoi interessi: il contenuto del lodo del 1899 prevedeva, in estrema sintesi, che al Venezuela andasse il controllo delle terre circostanti la foce del fiume Orinoco, mentre alla Gran Bretagna venivano assegnate tutte le terre a ovest del fiume Essequibo.

Per queste ragioni, la Repubblica bolivariana fa leva sull’Accordo bilaterale di Ginevra del 1966, indicando in un’intesa tra le parti l’unico meccanismo legale per definire ogni eventuale controversia; per la cronaca quest’ultimo accordo fu firmato nel mese di febbraio tra Gran Bretagna e Venezuela, e la Guyana sarebbe subentrata a maggio una volta conseguita l’indipendenza formale dal Regno Unito.

Per quanto sia innegabile che la scoperta di nuove ricchezze naturali e i recenti accordi con importanti compagnie petrolifere possano aver dato nuova linfa alle rivendicazioni di Caracas, che già nel 2018 avevano condotto alla rottura delle relazioni diplomatiche con la Guyana, la questione è assai risalente. Per diversi analisti occidentali il referendum di Essequibo sarebbe solo un escamotage del presidente Maduro per suscitare il sentimento nazionalista e distrarre dalle richieste di elezioni libere, proveniente dagli Stati Uniti, che hanno subordinato l’allentamento dell’embargo allo svolgimento di elezioni “eque” (secondo Washington) nel 2024.

Premesso che il Venezuela, facendo leva sugli accordi di Ginevra, non riconosce la giurisdizione della Corte sulla questione, a Caracas si fa leva anche sul Trattato di Munster del 1648, che definiva i confini tra l’Impero spagnolo e i possedimenti olandesi nelle Americhe. Tali intese confermerebbero le sue ragioni visto che prevedevano che l’Essequibo appartenesse alla Spagna, allora potenza coloniale che controllava il Venezuela, sulla base del principio del uti possidetis, che implica che i confini degli stati nati a processi di decolonizzazione si fondino su quelli ereditati dal loro passato coloniale, ragioni condivise anche dagli stati membri dell’Organizzazione degli Stati dei Caraibi Orientali (OECS). Ulteriore argomento portato da Caracas è la continuità della sua piattaforma continentale con quella del territorio conteso, dove si trovano buona parte delle risorse, unitamente a una generica lotta condotta contro l’imperialismo di matrice anglosassone.

Pochi giorni fa la Corte dell’Aja si è pronunciata nel merito con un parere[4], interpretato a proprio favore da ambo le parti. Se a Georgetown si è accolta positivamente l’esortazione del tribunale al Venezuela ad “astenersi da iniziative che dovessero modificare la situazione prevalente nel territorio in litigio”, a Caracas si è insistito sul fatto che i giudici non hanno bloccato la consultazione referendaria, non disconoscendone pertanto la legittimità, pur affermando la stessa Corte che esisterebbe un “serio rischio che il Venezuela acquisisca ed eserciti il ​​controllo e l’amministrazione del territorio controverso nel presente caso”.

A questo punto solo il tempo e i fatti diranno se in America Latina scoppierà una nuova guerra, provocata da un’eventuale azione di forza di Caracas. Ci pensa El nacional[5], tra le più importanti testate del paese sudamericano, a rispondere alle accuse per una soluzione di questo tipo: “Il risultato non avrà conseguenze concrete a breve termine: il Venezuela cerca di rafforzare la sua credibilità e di rivendicare le sue pretese e ha negato che si tratti di una scusa per invadere e annettere con la forza l’area, come temono i Guyanesi.”

Per sentire correttamente anche l’altra campana, il Guyana Times[6] riprende l’impegno del governo e della popolazione alla difesa del territorio sovrano in caso di aggressioni dall’esterno.

Dal nostro punto di vista, sarebbe meglio non fare troppo affidamento sulle parole o sui proclami ufficiali, dato che l’esperienza insegna che, specie quando ci sono crisi e/o elezioni di mezzo (in Venezuela si voterà nel 2024), non è il caso di dar loro troppo credito. Quanto a un possibile intervento americano, pur non potendolo escludere in via di principio, sarebbe quantomeno improbabile visto l’impegno in molti altri versanti, di gran lunga prioritari per Washington.

Prego notare che non parliamo, se mai fosse, di interventi “umanitari” o in “salvaguardia della sovranità e dei diritti umani”, ma di azioni per la difesa di precisi interessi, ragion per cui riprendere il mantra di “aggressore” e “aggredito” sarebbe nel caso di specie una grandissima e indebita semplificazione dei fatti.

Il che non fa che alimentare il dubbio che aleggia sempre intorno a qualunque teatro conflittuale. Se nel territorio in questione non ci fossero risorse naturali siamo sicuri che saremmo a questo punto? Pur trattandosi, come abbiamo visto, di contestazioni risalenti, è altrettanto vero che queste si sono enfatizzate con la scoperta di nuove ricchezze, che – stando ad alcune proiezioni – potrebbero accrescere il PIL della Guyana nel giro di pochi anni, facendone uno dei maggiori produttori di petrolio a livello continentale e mondiale, per quella che sinora è stata tra le nazioni più povere dell’America Latina.

Il che per la via della famosa “maledizione delle risorse” sembra già aver aperto la strada alla corruzione e alla devastazione ambientale[7].

La vera questione è che guardando bene ai fatti e all’esperienza, non vi sarebbe alcuna necessità di arrivare a tanto. Basterebbe che una buona volta tutti gli stati – o per meglio dire, i loro governanti – trovassero un modus vivendi per sfruttare le risorse per il benessere dei rispettivi popoli, dal che discenderebbe che quasi tutte le guerre – combattute solo per interessi egoistici e/o strategici di ristrettissimi gruppi di potere – risulterebbero inutili.

La ragione per la quale questo non è mai avvenuto sarebbe da ricercare a livelli molto alti, nel silenzio del “convitato di pietra” dell’ONU, ma lo stesso interrogativo andrebbe proposto anche e soprattutto a tutti noi cittadini del mondo, che spesso ci beviamo passivamente qualunque narrazione o propaganda, funzionale a qualunque interesse, fuorché i nostri.

FONTI

Video del canale di Nova Lectio sulla storia del Venezuela: www.youtube.com/watch?v=ouIMOJsCADY (parte 1) e www.youtube.com/watch?v=G6Cm5ZkZ5J8 (parte 2)

www.treccani.it/enciclopedia/guiana/

www.bbc.com/news/world-latin-america-19546909

www.miraggi.it/storia/guyansto.html

datacommons.org/place/country/GUY/?utm_medium=explore&mprop=count&popt=Person&hl=it

www.ilperiodista.it/post/guyana-vincono-i-comunisti-quale-futuro-per-il-petrolio

www.qualenergia.it/articoli/exxonmobil-e-gli-altri-grandi-inquinatori-le-accuse-e-gli-ultimi-dati/

www.ilsole24ore.com/art/che-cosa-ci-fa-guyana-tutto-questo-petrolio-AD8zjbY?refresh_ce=1

www.ilsole24ore.com/art/offshore-saipem-si-aggiudica-contratti-guyana-e-brasile-19-miliardi-dollari-AFgFkypB

www.linkiesta.it/2023/08/la-pericolosa-fortuna-della-guyana/

scenarieconomici.it/dopo-il-referendum-i-domenica-il-venezuela-attacchera-veramente-la-guyana-intanto-il-brasile-muove-le-truppe/

www.lindipendente.online/2023/12/01/le-mire-territoriali-del-venezuela-riportano-i-venti-di-guerra-anche-in-sudamerica/

scenarieconomici.it/guyana-vs-venezuela-il-sud-america-rischia-di-vedere-un-nuovo-conflitto-militare-simile-allucraina/

www.ilfattoquotidiano.it/2023/12/02/venezuela-alle-urne-per-annettersi-due-terzi-di-guyana-la-disputa-sulla-sovranita-viene-da-lontano/7367151/

www.globalizacion.ca/guyana-contra-venezuela-proposito-del-rechazo-de-la-cij-de-la-excepcion-preliminar-de-venezuela-declarandose-competente/

www.aljazeera.com/news/2023/12/3/venezuela-holds-referendum-on-oil-rich-guyana-region-four-things-to-know

www.nytimes.com/es/2023/12/03/espanol/referendo-esequibo-venezuela.html

www.theguardian.com/world/2023/dec/03/tensions-rise-as-venezuelans-vote-on-disputed-territory-in-neighbouring-guyana

www.icj-cij.org/node/202654

www.elnacional.com/venezuela/venezuela-busca-reforzar-en-referendo-su-reclamo-territorial-con-guyana/#google_vignette

guyanatimesgy.com/guyanese-must-unite-to-collectively-defend-border-pm/

www.nasdaq.com/articles/brazil-increases-northern-border-military-presence-amid-venezuela-guyana-spat-ministry

www.bbc.com/news/world-latin-america-67583582

www.reuters.com/markets/commodities/venezuela-protests-guyanas-auction-offshore-oil-blocks-2023-09-19/

www.reuters.com/world/americas/guyana-asks-world-court-stop-venezuelas-referendum-over-disputed-territory-2023-11-14/

tg24.sky.it/mondo/2023/12/03/referendum-venezuela-oggi

www.lantidiplomatico.it/dettnews-esequibo_la_cig_respinge_le_istanze_della_guyana_per_impedire_il_referendum_consultivo_in_venezuela/5694_51865/

www.lantidiplomatico.it/dettnews-referendum_sullessequibo_la_propaganda_antivenezuelana_dei_media_mainstream/82_51877/

www.lantidiplomatico.it/dettnews-tensioni_venezuelaguyana_sei_fasi_storiche_per_comprendere_la_disputa_sullessequibo/5694_51556/

www.corriere.it/esteri/23_dicembre_04/venezuela-referendum-maduro-annettersi-70percento-guyana-cf7d7a04-9275-11ee-b4ce-f7c294a6ba9a.shtml

www.repubblica.it/esteri/2023/12/04/news/maduro_referendum_guyana_esequiba_tensione-421564301/

www.lantidiplomatico.it/dettnews-referendum_sullesequibo_in_venezuela_i_risultati_dei_5_quesiti/5694_51890/


[1] Link video del canale di Nova Lectio sulla storia del Venezuela: www.youtube.com/watch?v=ouIMOJsCADY (parte 1) e www.youtube.com/watch?v=G6Cm5ZkZ5J8 (parte 2)

[2] theintercept.com/2023/06/18/guyana-exxon-mobil-oil-drilling/

[3] www.linkiesta.it/2023/08/la-pericolosa-fortuna-della-guyana/

[4] www.icj-cij.org/node/202654

[5] www.elnacional.com/venezuela/venezuela-busca-reforzar-en-referendo-su-reclamo-territorial-con-guyana/#google_vignette

[6] guyanatimesgy.com/guyanese-must-unite-to-collectively-defend-border-pm/

[7] theintercept.com/2023/06/18/guyana-exxon-mobil-oil-drilling/

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