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Premierato: l’ennesimo grande pasticcio

C’è una costante nella storia politica italiana degli ultimi decenni, dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi: è quella che vede i protagonisti delle diversi fasi che si sono succedute nel tempo sentirsi investiti del compito di riformare l’organizzazione istituzionale del nostro Paese. Questi tentativi il più delle volte sono rimasti incompiuti, anche grazie all’opposizione del voto popolare, che, come nel caso della sonora bocciatura della controriforma costituzionale targata Renzi-Boschi, ha manifestato sempre grande saggezza e lungimiranza.
Il Governo Meloni non poteva essere da meno: anche stavolta la nuova fase politica che si è aperta intende caratterizzarsi nel segno di mediocri ambizioni costituenti, le quali stanno suscitando l’ennesima ondata contestatrice, che è giusto cavalcare, ma per motivi in gran parte diversi da quelli a cui si fa spesso riferimento.
Se il ddl Casellati, che concerne il premierato elettivo e il premio di maggioranza costituzionalizzato, va contestato è innanzitutto per le sue profonde incongruenze e contraddizioni, non perché condurrebbe il nostro Paese verso una pericolosa deriva autoritaria (come se la nostra malmessa “democrazia dei signori” non avesse già da tempo il volto di una post-democrazia senza popolo).
In ogni caso, quello che maggiormente infastidisce delle voci contrarie al nuovo disegno riformatore sono i volti da cui provengono: suona paradossale che i toni più allarmati ci giungano dalle vestali fanatiche del vincolo esterno euro-atlantista e della logica, quella sì a tutti gli effetti eversiva, del pilota automatico di matrice liberal-draghiana, che solo ora si accorgono di vivere in una condizione di democrazia sospesa. Sono le stesse “anime belle” che si scagliano contro i nuovi propositi di riforma istituzionale erigendosi a difensori delle prerogative del Presidente della Repubblica: sia chiaro, non di quelle originarie, bensì di quelle più recentemente assunte, da Giorgio Napolitano in poi, per assicurare la fedeltà e subalternità del nostro Paese al quadro asfittico, nonché ostile al nucleo sociale e politico della nostra Costituzione, delle compatibilità e dei legami sovranazionali, operando in alcuni casi delle vere e proprie forzature (basti pensare al veto su Paolo Savona) oppure manifestando una palese indifferenza nei confronti della volontà popolare (si vedano l’incarico a Carlo Cottarelli e la moral suasion di troppo a favore di Mario Monti prima, di Mario Draghi poi).
Ma vediamo nello specifico, facendo nostre le osservazioni critiche più penetranti, quali sono i limiti e le contraddizioni del progetto di riforma presentato dal Governo Meloni.
- L’ambivalenza di un’investitura, quella di cui è oggetto il Presidente eletto, che è per metà popolare e per metà parlamentare: proviene dal voto popolare, ma va consolidata con la fiducia delle Camere.
- Il problema “legge elettorale”: essa prevede un premio di maggioranza grazie al quale la coalizione vincente può garantirsi il 55% dei seggi. Tuttavia, nel caso di più coalizioni in gara, può bastare il 30% dei consensi per conquistare la maggioranza schiacciante in Parlamento.
- La finzione del popolo veramente sovrano. Nel corso della legislatura al Premier eletto può subentrare un Presidente del Consiglio non eletto, ovvero non votato dai cittadini nelle urne. Una vera e propria beffa per una riforma che intende consegnare la scelta del capo dell’esecutivo direttamente al corpo elettorale. Si dirà: dovrà però trattarsi d’un esponente politico «candidato in collegamento al presidente eletto». Ma siamo sicuri che per coloro che hanno optato a favore di Giorgia Meloni faccia lo stesso ritrovarsi poi Antonio Tajani Premier?
- Come è stato efficacemente fatto notare, la figura del Presidente non eletto destinato a subentrare in caso di crisi di governo al Premier eletto assomiglia a quella di un fantasma che aleggia sulle sorti della legislatura pronto però a materializzarsi con la statura d’un gigante. Perché quest’ultimo ha, paradossalmente, più poteri del Presidente eletto: può difatti minacciare lo scioglimento delle Camere per superare qualsiasi crisi politica, poiché la riforma vieta un terzo tentativo. Il Presidente eletto invece non può farlo.
- Nonostante lo scopo della riforma sia quello di rafforzare la figura del capo dell’esecutivo, che diventa oggetto di investitura popolare, questi, una volta ricevuto l’incarico, si trova in una situazione di potenziale debolezza: è infatti ostaggio dei piccoli partiti se i loro seggi sono indispensabili per conservare la maggioranza in Parlamento, giacché non è possibile sostituirli chiedendo soccorso a esponenti dell’opposizione, con una manovra parlamentare già sperimentata tante volte nel passato (contro tale evenienza, la previsione di una specifica misura “antiribaltoni”).
Questo molto in sintesi il quadro dei paradossi della riforma Casellati. Ma qual è la ragione di questo ginepraio di contraddizioni? La risposta forse risiede nei nostri costumi nazionali, almeno dalla Bicamerale dalemiana in poi: ci ostiniamo a fabbricare ibridi, creature imbastardite, da ultimo un animale dalle sembianze strane che è quasi presidenziale e quasi parlamentare.
Piuttosto che immaginare pastrocchi mai sperimentati altrove, conviene invece rivolgersi ai modelli europei che hanno dimostrato di funzionare bene, garantendo ad un tempo rappresentatività, governabilità e stabilità. Il modello tedesco, a nostro avviso, è quello a cui guardare con maggiore interesse: come l’Italia, la Germania è una Repubblica parlamentare, con la differenza, però, che lì, diversamente che da noi, il sistema dei partiti ha retto agli scossoni degli ultimi decenni.
Inoltre, quello che stiamo vivendo non è il momento storico per tentare salti nel vuoto, per azzardare manovre spericolate, per praticare rotture istituzionali forti. Piuttosto, c’è da innovare, ma in maniera accorta e prudente, senza immaginare stravolgimenti. Il modello tedesco ti consente di agire in questo senso, attraverso una riforma dell’esecutivo che anziché un inedito premierato elettivo prevede un più convincente cancellierato. Gli obiettivi rimarrebbero comunque gli stessi, ma collocati all’interno di un disegno dotato di maggiore coerenza con la nostra tradizione politica e istituzionale: resterebbe ferma la necessità di ridefinire gli equilibri in alto, affermando la presenza di una verticalità politica nuova, che sia più riconoscibile e dotata di una maggiore centralità (incardinata appunto nella figura del Cancelliere); accanto ad essa, l’esigenza di meccanismi a sostegno della tanto sbandierata stabilità (vedi la sfiducia costruttiva) e l’introduzione di una legge elettorale che garantisca rappresentatività, istanze di partecipazione e semplificazione del quadro politico (un proporzionale con sbarramento al 4% ci sembra lo schema giusto per l’Italia). Il tutto nel nome di una revisione efficiente del sistema politico-istituzionale, nella speranza – chissà – che tutto ciò promuova anche le condizioni per un nuovo protagonismo del Parlamento e per un processo di rivitalizzazione dei corpi intermedi.
Detto questo, è certamente vero che la stagione dei partiti di massa così come l’abbiamo conosciuta nei primi decenni del secondo dopoguerra non è più riproponibile, in una fase segnata da una diffusa “crisi di appartenenza e di significati” e dalla cosiddetta “crisi del rappresentato”, legata allo smarrimento del senso del legame collettivo e alla volatilità dei ruoli sociali e lavorativi. Siamo insomma in un tempo nuovo, contrassegnato tra l’altro da una grande mobilità degli elettori, da una marcata fluidità negli orientamenti politici e da cicli di popolarità temporalmente sempre più ristretti: prevale, nei fatti, chi è capace di una comunicazione efficace e innovativa, declinata in una chiave fortemente personalistica e polarizzante. Tuttavia, se i modelli del passato sono definitivamente superati, è altrettanto vero che l’esito non deve per forza coincidere con il grado minimo di radicamento socio-territoriale e di vuoto di cultura politica che caratterizza oggi il quadro partitico italiano.
Resta il fatto, in conclusione, che qualsiasi ipotesi di fuga dalla grave crisi di legittimità del nostro sistema politico attraverso acrobazie istituzionali è inevitabilmente destinata al fallimento. Non c’è difatti salvezza per le nostre istituzioni repubblicane se esse non sapranno ricostruire un legame con la vita profonda nel nostro Paese, se esse altresì non sapranno riconquistare quei poteri e quelle funzioni di cui si sono colpevolmente private per trasferirle altrove, in una sfera opaca e ristretta, ostile al principio della sovranità popolare. Così come non c’è salvezza per le nostre istituzioni nazionali se esse non sapranno esprimere una classe dirigente all’altezza delle gravi sfide che attendono il nostro futuro, ovvero una classe dirigente finalmente connessa, anche sentimentalmente, con le esigenze popolari di progresso materiale e spirituale.
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