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Patto di Stabilità e Crescita: l’Italia condotta a “miti consigli”. Che ne sarà del MES?
Ad occupare la cronaca politica italiana ed europea delle scorse settimane, sono state due questioni molto importanti, il negoziato sul “nuovo” Patto di Stabilità e Crescita, su cui l’Ecofin ha già raggiunto un accordo, e la ratifica del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) da parte dell’Italia, su cui invece tutto è rimandato al 2024. Nondimeno, prima di affrontare la questione della riforma del MES, che è ancora oggetto di “contesa” tra Roma e Bruxelles, intendo, seppur brevemente, accennare all’accordo raggiunto sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita, un accordo che ha visto nuovamente l’Italia relegata a spettatrice delle trattative tra Germania e Francia. Salutato come “accordo storico”, anche da chi fino al giorno prima ne rintracciava i difetti, tale riforma sembra, ad un primo e rapido sguardo, penalizzare i paesi con un alto debito. La riforma invero non modifica molto delle vecchie regole di bilancio che da Maastricht in poi hanno contribuito a portare il Continente europeo in recessione e a trasformare gli Stati in aziende, sempre attenti a perseguire il pareggio di bilancio, ma prevede ora delle salvaguardie per garantire la riduzione del debito e lo spazio di bilancio, che sono chiare, vincolanti e soprattutto impegnative. Nonostante, dunque, la pandemia ne abbia mostrato i difetti, tornano i rigidi parametri quantitativi ed inevitabilmente le vecchie logiche dell’austerità, che privilegiano di fatto il rigore nei conti pubblici ad un ruolo attivo dello Stato nell’economia.
Chiusa la partita della riforma del Patto di Stabilità e Crescita, a tornare di stretta attualità sono le tensioni tra Roma e Bruxelles sulla ratifica del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Nondimeno, per capire di cosa qui si parla, è forse appena il caso di richiamare la riforma del MES, che è l’oggetto di tale “contesa”. Mi limiterò, qui, a soffermarmi sui suoi punti salienti, rimandando ad altre sedi un suo approfondimento (tra gli altri, si veda anche il mio L’Unione Europea tra destino comune e crisi permanente. Profili di teoria del diritto, ESI, 2021).
Accompagnata da un acceso dibattito per le conseguenze che potrebbero derivare dalla sua applicazione, in un momento in cui la pandemia si mostrava ancora in tutta la sua virulenza, l’Eurogruppo – il 30 novembre 2020 – aveva approvato una riforma del MES, in verità già discussa nel 2019, che conferma il regime distinto previsto per le linee di assistenza finanziaria precauzionale, due linee di credito che hanno l’obiettivo di aiutare gli Stati, le cui condizioni economiche sono sane, a prevenire situazioni di crisi (le altre forme di assistenza condizionata, com’è noto, intervengono invece dopo il dissesto cui intendono fare fronte). Pur confermandone il regime distinto, la riforma prevede però che uno Stato che rispetti i parametri del Patto di Stabilità e Crescita potrà chiedere un prestito, ricorrendo ad una linea di credito condizionata precauzionale (PCCL), semplicemente presentando una “lettera di intenti” – è questa la novità della riforma – con la quale si impegna a rispettare i parametri del PSC per tutta la durata del finanziamento, anziché firmare un memorandum d’intesa per come era prima previsto. Uno Stato che, al contrario, non rispetti pienamente i parametri del Patto potrà accedere solamente ad una linea di credito soggetta a condizioni rafforzate (ECCL), sottoscrivendo un memorandum d’intesa in cui sono contenute le condizionalità da rispettare, e cioè austerità e riforme strutturali. Perché, però, sia attivata una linea di credito soggetta a condizioni rafforzate il debito dello Stato beneficiario dovrà essere giudicato sostenibile dal MES, che di fatto diventa “giudice” del debito degli Stati. Il Fondo salva-Stati europeo, che ha perso ogni scopo possibile d’esistenza e che non ha alcuna legittimazione democratica, avrà allora, con la riforma, tanti incentivi ad agire come una agenzia di rating non soltanto nel momento in cui uno Stato chiederà un finanziamento, ma anche in prospettiva futura, cosa che certamente non può essere salutata con favore da Stati come la Spagna o l’Italia.
La riforma prevede, inoltre, che gli Stati dovranno emettere titoli di debito con Clausole di Azione Collettiva (CACs) Single-Limb. Invero, dal 2013 tutti i titoli di Stato dei paesi dell’eurozona, con durata superiore ad un anno, contengono già un tipo di CACs, le Double-Limb. Occorre qui precisare che le Clausole di Azione Collettiva sono uno strumento di tutela dei creditori che può essere attivato qualora un debito dovesse subire una ristrutturazione. Nondimeno, al di là del diverso nome (Single-Limb e Double-Limb) la differenza tra i due tipi di clausole è sostanziale: mentre infatti le Double-Limb per essere attivate, e quindi per avviare una ristrutturazione del debito, hanno bisogno di una doppia maggioranza, dei detentori del debito nel suo insieme e all’interno di ogni sottocategoria di titoli, le Single-Limb consentono invece di aggregare tutti i titoli del debito pubblico (sarà dunque sufficiente la maggioranza dei detentori del debito nel suo insieme). In altre parole, con le Single-Limb sparisce la doppia maggioranza e si rende più semplice la ristrutturazione del debito di uno Stato perché basterà, perché ciò avvenga, la sola maggioranza del totale dei detentori del debito pubblico. Per quanto le autorità europee abbiano sin da subito chiarito che la riforma non rende automatica la ristrutturazione, è però facile intuire che se un paese dovesse rivolgersi al MES, così per come modificato, avrebbe certamente più possibilità rispetto a prima di procedere verso la ristrutturazione del suo debito sovrano, non fosse altro che la procedura per arrivarci è stata resa più facile. Se al momento attuale una ipotesi di ristrutturazione dei debiti sembra remota, così potrebbe non essere nel momento in cui la BCE smetterà di acquistare titoli di Stato in modo massiccio. D’altronde, già il 27 luglio scorso la Banca Centrale Europea ha annunciato di voler completamente interrompere per il prossimo anno l’acquisto di titoli di Stato nell’ambito del PSPP (Public Sector Purchase Program), mentre nei giorni scorsi ha fatto sapere che, a partire dalla metà del prossimo anno, ridurrà di 7,5 miliardi di euro al mese anche l’acquisto di titoli di Stato nell’ambito del PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program), il programma di acquisto dei titoli di Stato che era stato varato nel 2020 da Christine Lagarde per far fronte alla pandemia da Covid-19.
Un altro aspetto della riforma, tutt’altro che marginale, riguarda, poi, l’introduzione del common backstop (paracadute finanziario), che trasforma il MES nel “prestatore di ultima istanza” del Fondo di Risoluzione Unico (FRU) – istituito con il fine di salvare le banche in crisi, grazie ai contributi del settore bancario stesso –, laddove si siano esauriti i mezzi finanziari disponibili del FRU o nel caso in cui questi risultino insufficienti per la risoluzione del caso specifico.
Alla luce di quanto sin qui detto, seppur rapidamente e senza alcuna pretesa d’esaustività, ben si comprende allora come il MES post-modifica sia ancora più “pericoloso” di quello ante-modifica, il quale non è stato quasi mai attivato dagli Stati – neppure nei momenti di maggiore bisogno – per l’effetto “stigma” che porta con sé e per l’austerità e le riforme strutturali che, come la Grecia ha imparato a sue spese, accompagnano il suo utilizzo e che di fatto azzerano il ruolo della politica democratica nelle scelte di politica economica. Sulla riforma del MES bisogna, perciò, senza fare tifo da stadio, riconoscere che è “tecnicamente” fatta male, visto che penalizza Stati, come l’Italia, che hanno un alto debito pubblico. Certo, se poi la sua ratifica viene vista solo come una questione solamente “politica” ci sarà chi ne individuerà le virtù e chi i difetti a seconda delle proprie convinzioni politiche e partitiche. Ma non è così che si dovrebbe fare. Nondimeno, al di là delle attuali resistenze, credo che il Governo italiano, così per come già fatto con il Patto di Stabilità e Crescita, ratificherà il trattato del MES, con tutti i suoi evidenti “difetti di fabbrica”, non perché chi oggi governa il Paese ne apprezzi le virtù, ma solo per le pressioni che arriveranno, ed in parte sono arrivate, da Bruxelles e Francoforte. Ennesima prova, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che, pur cambiando i governi, la logica europea di fondo non cambia.
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