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Sul pensiero di Jean-Claude Michéa
“Un nuovo paradigma sociale. Natura umana e teoria politica in Jean-Claude Michéa” (Meltemi, 2023) è la fatica tramite cui Bianca Fazio ricostruisce il pensiero del filosofo francese e la sua critica al liberalismo. Lungi dal renderci una scialba e asettica introduzione, l’Autrice discende nella costruzione filosofica, ma sarebbe meglio parlare di “decostruzione”, di Michéa.
Il filosofo francese – e l’Autrice per lui – muove da un’intuizione spesso ignorata o sottovalutata: i moderni Stati liberali e, in seguito, l’ordine mondiale liberale si fondano su una visione antropologica essenzialmente negativa, cioè quella hobbesiana dell’homo homini lupus e della guerra di tutti contro tutti.
Due cause storiche hanno contribuito a affermare l’egemonia di una simile visione. In primo luogo, le guerre civili di religione che, dopo la riforma protestante e lo scisma anglicano, hanno imperversato in Europa tra il XVI e il XVII secolo: esse, anziché unire la popolazione di uno stesso Paese verso un nemico esterno – come era stato con le crociate –, hanno inasprito le spaccature esistenti tra le classi sociali. In secondo luogo, la rivoluzione scientifica, che ha alterato il rapporto tra uomo e natura, legittimando il primo quale padrone del mondo, e comportato l’estensione del metodo scientifico anche all’ambito morale e politico, allo scopo di costruire un’organizzazione sociale capace di assicurare la pace tra uomini e donne rappresentati – secondo la visione antropologica negativa di cui dicevamo poco prima – come mossi da passioni ferine e abitanti del peggiore dei mondi possibili, cioè del c.d. stato di natura.
Come evidenzia l’autrice, “[l]o scopo della legislazione del nuovo ordine sociale è evitare di far sprofondare l’umanità in un’infinita guerra civile planetaria”: per raggiungere questo obiettivo, il diritto deve essere ideologicamente neutro, scevro di alcuna “riflessione particolare su quello che potrebbe essere il miglior modo di vivere in comune”; viene perciò meno l’idea di un bene, naturale o soprannaturale, a fondamento dell’azione politica. Alla neutralità assiologica del nuovo ordine corrisponde la privatizzazione dei valori morali, cioè la relegazione all’ambito individuale delle scelte di carattere morale, così come della religione.
Valore al vertice del sistema politico liberale è la libertà intesa come “metavalore, ovvero un valore che permette la coesistenza di tanti valori diversi fra loro” e dunque agli uomini di condurre la propria esistenza senza bisogno di condividere la sorte né ideali con i propri simili: l’individuo che abita lo spazio liberale è atomizzato e titolare di diritti naturali che gli appartengono non in virtù della sua connessione al corpo sociale ma in forza della sua provenienza dallo stato di natura e che sono connessi tanto alla necessità di proteggersi dalle aggressioni (questo profilo è sottolineato in particolare da Hobbes) quanto alla necessità di appropriarsi di ciò che gli consente di sopravvivere (su questo aspetto insiste invece Locke).
Queste nuove basi antropologiche spianano la strada alla sacralità del diritto di proprietà e all’innatismo del commercio: il mercato – presentato pure esso come assiologicamente neutro, al pari del diritto – diviene il motore delle relazioni tra le persone e tra i popoli; esso, consentendo agli uomini di vivere in società seguendo solamente i propri rispettivi interessi, minimizzerà i motivi di discordia, così convertendo “i vizi privati in virtù pubbliche”[1] e contribuendo a realizzare quell’impero del male minore teorizzato da Michéa: luogo politico ove ogni ricerca della verità e del bene viene vanificata in favore dei due imperativi del relativismo etico – a livello personale – e della stabilità del sistema politico – sul piano collettivo –. Il mercato, e dunque il liberalismo economico, viene a completare il liberalismo politico, di cui rappresenta l’altra faccia della medaglia; secondo Michéa, tramite il mercato “il paradigma liberale finisce per sistematizzare, ampliare e autorizzare proprio quella guerra di tutti contro tutti che si voleva fuggire”: la disparità sociale prodotta dal mercato si innesta così sull’uguaglianza astratta sancita dal diritto liberale.
Ciò che inficia e può delegittimare ai nostri occhi il mercato e il diritto è la circostanza che essi, in quanto costrutti dello Stato liberale e dunque di un’istituzione moderna, sono forme di socializzazione essenzialmente secondarie, che si innestano, mediante la forza dell’autorità statale, su altre forme di socialità, prevaricandole. Queste ultime connotano in via originaria la civiltà umana e si sostanziano nell’“antropologia del dono”, intendendo con questa espressione tutti quegli scambi, da sempre effettuati dagli uomini, che non sono classificabili in termini di acquisto e vendita e non rispondono alla logica capitalista di soddisfare l’interesse ad accumulare una maggiore quantità e qualità di beni: nell’antropologia del dono non è possibile distinguere la sfera economica dalla sfera morale, né il piano economico ha conseguito una sua autonomia rispetto alla vita sociale. Questa antropologia, articolata sul triplice obbligo di dare, ricevere e ricambiare, crea legami sociali: i doni sono di per sé controprestazioni fatte per mantenere un’alleanza vantaggiosa e un fascio di valori – fiducia, lealtà, amicizia, sentimento del bel gesto, primato degli interessi della collettività – attecchisce sulla loro pratica, così che la guerra della generosità sostituisce del tutto la guerra. L’antropologia del dono non concepisce – come invece l’antropologia negativa fondante l’ordine sociale liberale – individui preesistenti alla società, ma indica nel triplice obbligo dare-ricevere-ricambiare il meccanismo fondante di ogni comunità: suo corollario è che i beni e i servizi vengono a assumere un valore ulteriore rispetto a quelli d’uso e di scambio e cioè un “valore di legame”, che risiede nella loro capacità, se donati, di creare e riprodurre relazioni sociali.
Inoltre, l’interiorizzazione del triplice obbligo dell’antropologia del dono fa sì che tra gli uomini prosperi la pratica – teorizzata da George Orwell – della common decency o comune decenza, cioè l’esercizio di una sorta di onestà naturale, che funge da criterio per discernere il giusto e l’ingiusto. Mentre la common decency alligna tra le classi popolari, ove la stima e la considerazione della propria persona risiedono nel rapporto con gli altri, che le fa tornare indietro alla persona stessa, la classe dominante del sistema capitalista ha smarrito questa pratica, avendo interiorizzato il modello dell’individuo pre-sociale e auto-interessato teorizzato dal sistema liberale, “le cui azioni non tengono mai conto dell’esistenza e delle esigenze degli altri”. Comunque, il vuoto etico proprio dell’ordine liberale è presto riempito dal mercato, che si propone di fare la morale agli uomini in mancanza di indicazioni teleologiche volte a conferire significato alla vita: gli ideali che il mercato propugna sono quelli della crescita, intesa come orientamento a “perseguire all’infinito il processo di valorizzazione del capitale”, e del progresso, ereditato dalla filosofia illuminista e dalla sua battaglia contro i poteri dell’Ancien Régime e strumentale, mediante il superamento di tutte le pratiche e i valori ereditati dal passato, a legittimare sul piano culturale la neutralità assiologica del mercato e con ciò a aprire alla commercializzazione sempre più ambiti della vita umana. La crescita e il progresso promanano entrambi da una concezione materialista della storia, che cioè raffigura il corso storico come determinato dallo sviluppo delle forze produttive e della tecnica e che è comune tanto al capitalismo liberista quanto al socialismo produttivista; se ci si smarca da questa concezione, non solo si approda a una visione meno deterministica dell’evoluzione del mondo, ma “[l]a Crescita e il Progresso prendono il volto di ideologie calate dall’alto”: queste portano in sé il germe dell’autodistruzione in quanto mettono a repentaglio i propri presupposti materiali, sia proponendo lo sfruttamento all’infinito delle risorse naturali, essenzialmente finite, che compromettendo – proprio tramite il superamento dei codici comportamentali ereditati dal passato di cui dicevamo prima – le condizioni stesse della sopravvivenza morale dell’umanità.
Il perpetuarsi dell’ordine liberale, con la sua intrinseca neutralità assiologica e la religione dei consumi, porta, secondo Michéa, alla formazione di un uomo nuovo, la cui funzione nella società è quella di capitale umano destinato a produrre ricchezza e la cui esistenza si compendia nell’acquisto di beni e servizi corrispondenti a desideri, emozioni e sogni che gli sono stati indotti dalla propaganda commerciale: tutti questi acquisti sono mirati a costruirsi una nuova identità, che, quand’anche presentata come trasgressiva, rappresenta l’apogeo del conformismo. È evidente che questa vera e propria mutazione antropologica in corso (o perlopiù già compiuta?) erode la possibilità della common decency orwelliana.
Come si può controbattere i corrosivi effetti del liberalismo e rifondare dal basso uno spazio sociale che restituisca a uomini e donne la dignità loro sottratta dal mercato? Michéa propone di ripartire dall’antropologia del dono e quindi da quelle forme di socialità primaria che si articolano sugli obblighi di dare-ricevere-ricambiare: è dalla loro pratica che può emergere, oltre che una più equa ripartizione dei beni materiali, un essere umano meno isolato e più fraterno, mosso da un sentimento del bene che, lungi dall’essergli inculcato da uno Stato etico, deriva dall’esercizio quotidiano della condivisione e dagli sforzi per la costruzione di uno spazio, anche valoriale, comune.
L’Autrice ci guida fino agli esiti più visionari del pensiero di Michéa, in un saggio che, risalendo i secoli, fa strame del pensiero liberale. Si impossessi di quest’opera chi crede che un’alternativa, antropologica ancor prima che economica, sia possibile.
[1] Il virgolettato è tratto da Jean-Claude Michéa e non da Adam Smith, come invece si potrebbe pensare.
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