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Ventuno anni fa se ne andava Giorgio Gaber
Introduzione. Giorgio Gaber se ne andava ventuno anni fa, ma la sua opera sembra essere in un dialogo fitto, costante con il nostro tempo. Nel momento, infatti, in cui si richiama alla memoria un autore storico si dovrebbe sempre tenere a mente tale domanda decisiva: quale è la sua relazione con l’epoca presente – perché riattualizzarlo (anche in maniera critica). Ma con Gaber (e Sandro Luporini, suo mitico compagno di scrittura, che resterà costantemente sullo sfondo del nostro scritto) questo processo sembra in qualche modo venire da sé, spontaneamente: la loro opera, infatti, si lega, strettamente, a quello che avviene (e continua-ad-avvenire) nei nostri giorni. E questo significa un qualcosa di molto specifico: che loro, in qualche modo, hanno anticipato i tempi, come, cioè, da alcuni elementi embrionali siano riusciti ad intravedere l’avvenire, e, ancora, da alcune tracce siano stati in grado di profetizzare alcune strutture fondamentali della società contemporanea.
Gaber è, dunque, un autore critico del presente, la cui opera, tuttavia, all’interno di esso, sta come subendo un processo di cristallizzazione: da essa, infatti, si estrapolano concetti circostanziali, senza seguirne rigore e logicità del pensiero. Ci troviamo, cioè, in una situazione (solo) apparentemente paradossale: il mondo che Giorgio Gaber ha profetizzato, criticandolo, si è rivelato in tutta la sua barbarie, e, pur tuttavia, continua a tessergli le lodi. Si può quindi cantare all’interno di un talent show uno dei suoi classici – La libertà è partecipazione – in modalità che assumono le forme di un’inconsapevole parodia. Il pensiero di Gaber, dunque, nonostante un’apparente presenza nei media, sembra essersi, nei fatti, dissolto: risulta necessario un lungo lavoro di riattualizzazione (di recupero, cioè, della sua forma più dura).
All’interno di questo ricordo di Gaber, tratteremo soprattutto i suoi ultimi tre album – Un’idiozia conquistata a fatica, La mia generazione ha perso e Io non mi sento italiano (pubblicato postumo) – al fine di mettere in evidenza, tra le altre, questa specifica problematica: mostrare come egli abbia saputo attraversare fasi storiche differenti, resistendo a quel tempo di crisi (quella frattura, ine estrema sintesi, istituitasi tra gli anni ’80 e ’90) che ha dissolto, in definitiva, vari artisti, ed intellettuali, della sua epoca. Egli, cioè, non è stato solamente figlio del suo tempo (piuttosto, la sua arte è stata in grado di rappresentare periodi storici differenti) e, allora, ci si deve chiedere: cosa è ciò che gli ha permesso di resistere, di rigenerarsi in un tempo storico avverso? Come, cioè, è riuscito a divenire estremamente attuale anche per la nostra contemporaneità? Forse – questa è la nostra ipotesi – vi era in lui qualcosa di deviante, eretico sin dall’inizio (nella sua arte come nella sua visione del mondo) che gli ha permesso, in qualche modo, di rigenerarsi: è proprio, cioè, quel seguire sentieri non battuti (il non esser integralmente immerso all’interno del suo tempo) che ha contribuito a far sì che egli potesse vedere società differenti – Giorgio Gaber appartiene, cioè, a quella rara schiera di artisti non scomparsi al tramonto di un’epoca.
A proposito del tema del rigenerazionismo, ciò che gli ha consentito di resistere è anche, probabilmente, quella stretta relazione, mai dismessa, tra opera ed esistenza: il fatto, cioè, di non esser mai falsamente ideologico, seguace passivo delle tendenze del tempo, tentando, piuttosto, di reinterpretare, e raccontare, il mondo a proprio modo, legando, sin dall’inizio, Kultur (politica), arte ed esistenza – «bisogna partire da se stessi. Io racconto me stesso, faccio un discorso esistenziale» (Gaber G. in Harari G. (a cura di), 2011, p.62). Nostro compito sarà dunque quello di approfondire alcuni questioni centrali nell’opera dell’ultimo Gaber: le tesi, tuttavia, si costituiranno come necessariamente problematiche. Prima, infatti, abbiamo parlato di impianto rigoroso, logico del suo pensiero, ma questo non significa che esso al suo interno non riveli contraddizioni, ambiguità (un certo differire): egli, infatti, è uno di quegli autori il cui rigore è necessario anche, e soprattutto, per esprimere l’incompiuto, il polivalente. Così, la messa a tema di alcuni punti decisivi gaberiani si staglierà su questo sfondo strutturalmente mobile: egli stesso amava parlare di «soluzioni aperte» (Gaber G. in Harari G. (a cura di), 2011, p. 16).
Il tutto è falso. Probabilmente in questo passaggio, che è poi il titolo del primo brano del suo ultimo album, Io non mi sento italiano, si condensa uno dei nuclei centrali della riflessione di Gaber sulla contemporaneità: l’assenza, cioè, di alcuno spazio ulteriore, la riduzione di ogni antagonismo a momento del potere, l’impossibilità, in definitiva, quasi di pensare forme di vita differenti – «questo è un mondo che ti logora di dentro ma non vedo come fare ad esser contro» (Gaber G., Il tutto è falso, 2003). In altri termini, una seconda natura che ingloba ogni elemento, al punto che si costituisce come sempre più difficile differenziare, discernere e, conseguentemente, contrapporsi, combattere: se, infatti, il tutto si presenta come un monolite unitario, compatto all’interno del quale essenziale e marginale confondono, continuamente, i propri limiti, allora è evidente come il processo dialettico rivoluzionario subisca una fortissima battuta di arresto, così come si presenta altrettanto difficile innescare fratture o lacerazioni all’interno delle strutture di potere. Il tutto è falso si costituisce anche, quindi, come la constatazione del dissolvimento di qualsiasi forma di contro-potere: ogni evento (anche potenzialmente eretico) non può – sembra – divenir parte di quella totalità lì.
Il mercato. Il problema della totalità ci riconduce al problema del mercato, centrale in tutta la riflessione gaberiana: esso, infatti, si costituisce come quel significante vuoto in grado di accogliere al suo interno i significati più contraddittori, finanche le eresie. Questo è un tema decisivo: la riduzione di ogni antagonismo a momento del mercato – «la chitarra suonava senza smettere mai ed ognuno di noi si sentiva così liberato senza rendersi conto che anche lì si imponeva la follia del mercato» (Gaber G., Il mercato, 1997-2000). Qui, una cifra fondamentale della nostra società: lo sfruttamento, in ogni campo (dallo sport all’arte, dal sociale al politico), di qualsiasi idea, ad una prima istanza negativa, deviante, e la sua conseguente immissione in un ingranaggio ben definito. Il mercato come forma-mondo da cui sembra impossibile fuoriuscire (insieme al dissolvimento di qualsiasi piattaforma esterna, o contro-potere) ci pone, così, di fronte ad un dilemma che sembra, anche ora, insolubile: «oggi un paese che rifiuta la sua logica rischia di diventare un paese povero, un paese che l’accetta con allegria rischia l’annientamento totale delle coscienze» (Gaber G., Il mercato, 1997-2000).
Capitalismo e forma di vita – note sulla reificazione. Ciò conduce alla fuoriuscita da un terreno esclusivamente economico e all’istituirsi, conseguente, di una strettissima relazione tra mercato e coscienza, capitalismo e forma di vita: «il mercato, il libero mercato, detta liberamente i tempi e i ritmi della vita» (Messner C., 2012, p.46). Qualsiasi attività umana, infatti, all’interno del mercato come forma-mondo, corre il pericolo di perdere il suo carattere originario e divenire merce, res, strumento del capitale: e cioè l’assorbimento, sempre più intenso, da parte del capitalismo di quella che, ad una prima istanza, potremmo definire (ancora in termini romantici) umanità. E, quindi, la spettacolarizzazione mediatica di qualsiasi evento, anche il più funesto: la tramutazione, cioè, del carattere del tragico dell’essere umano in merce da intrattenimento per una forma di coscienza sempre più svuotata – «nel gioco del falso e del vero qualsiasi dolore del mondo è spettacolo puro» (Gaber. G., Spettacolo puro, 1997-2000). Un processo che sembra inglobare anche quegli spazi che sembravano intatti, a partire dall’infanzia. Celebre La stanza del bambino, brano che descrive quel traumatico passaggio da un luogo mitico, spazio di purezza ed avvenire, ad un’infanzia capitalistica, che nasce immediatamente satura, gonfia, piena di «cose mai più usate, inutili disgustose, sazietà opulenza nausea» (Gaber. G., La stanza del bambino, 1997-2000). Alla stanza del bambino, ostruzione dell’avvenire, si costituisce come complementare La stanza del nonno, privazione della memoria: una vecchiaia, cioè, considerata sempre più inadeguata (non-utile) per un mondo accelerato che si nutre di costanti novità (anche se, al fondo, in definitiva, solamente apparenti): «solitudine, solitudine totale. Rintanato, abbandonato gettato via, in questo osceno chiamiamolo così, mondo così lontano da un’esistenza che lentamente, scompare totalmente ignorata, in questo porco chiamiamolo così, mondo, che continua la sua corsa convulsa, frenetica, travolgente» (Gaber G., La stanza del nonno, 1997-2000).
Libertà americana – atomizzazione ed omologazione. Giorgio Gaber compie, così, una destrutturazione e differente formulazione del concetto di libertà. Quale tipo di libertà, infatti, si potrà costruire in un ordine-mondo divenuto mercato, e, ancora, in un capitalismo costituitosi come forma di vita? Qui è il centro della sua critica: a quella che egli definisce libertà americana. Una libertà, nella sostanza, obbligatoria che, cioè, deve sottostare ai ritmi, ed alle scadenze, imposti dal mercato, e che anela, dunque, ad una redenzione universale (pur declinata nel massimamente individuale) mediante un processo di costante accumulazione: «libertà ipertrofica che sogna la salvezza attraverso un consumo illimitato: ha un bel fisico l’individuo gonfiato oltre la misura stabilita da un’evoluzione coerente, una bella figura che poi, al primo impatto con la realtà, si appiattisce e si sgretola» (Gaber G., in Harari G. (a cura di), 2010, p.254). Quest’individuo che si gonfia è dunque colui che immagina una libertà ab-soluta, sciolta da ogni vincolo (apparentemente senza limiti): una libertà che si definisce, esclusivamente, nella maggiore o minore assenza di limiti alla propria individuale ed atomizzata autonomia. Ma questo, secondo Gaber, è qualcosa di inautentico, alle soglie del falso, in quanto sono assenti proprio quei caratteri fondamentali che contraddistinguerebbero la vera libertà: e cioè, le nozioni di limite e di relazione (partecipazione). Libertà, infatti, non è la possibilità (necessità) di accumulare oggetti all’infinito, così come non è la costruzione di mondi solitari, tendenti a considerare l’alterità esclusivamente come ostacolo, impedimento, limite da oltrepassare: «”vera”, “autentica”, sarebbe una libertà che, certamente, fosse “uno spazio personale, ma che [coinvolgesse] anche gli altri, uno “spazio di incidenza” esistenziale e di partecipazione reale in cui praticare la responsabilità della propria vita» (Gaber G. in Harari G. (a cura di), 2011, p.32). Nella civiltà della libertà americana, piuttosto, continuano a prodursi due fenomeni, apparentemente antitetici, ma, in realtà, complementari: quelli di atomizzazione ed omologazione. Una libertà dimentica dell’alterità, del proprio carattere orizzontale, si costituisce, infatti, come una libertà di atomi, scissi (in competizione o in reciproco disinteresse) tra di loro, ma che, simultaneamente, rispondendo, collettivamente (pur se sempre particolarmente), ad i dettami di quella disgregata forma-mondo comune rende gli individui, infine, simili, interscambiabili, assenti di qualsiasi singolarità: «e immagino un futuro senza alcun rimedio una specie di massa senza più un individuo» (Gaber. G., La razza in estinzione, 2011).
Cultura massificata e note sull’autonomia. Quale significato assume la cultura all’interno della società contemporanea? Questa tematica, strettamente pasoliniana, viene ripresa da Giorgio Gaber (non l’unica corrispondenza tra i due pensatori): e, cioè, la messa in discussione di una certa declinazione della cultura, considerata, in alcuni casi, addirittura corruttrice per lo sviluppo dell’umano. La nostra epoca, infatti, sembra incitare e promuovere l’emancipazione culturale: ma quale è la relazione di quest’ultima con la vita, con l’esistente? Secondo Gaber (seguace di Pasolini) nell’impossibilità di rispondere a questa domanda nell’oggi si celano tutte le crepe del contemporaneo: quest’ultima, infatti, diviene sempre più divulgazione, mero strumento per l’impiego, e, ancora, sapere orizzontale, accademico, assente di profondità. La cultura come ornamento (e, cioè, la non-cultura) che può aiutare, nel migliore dei casi, ad accrescere la propria posizione in quest’ordine del mondo, ma che ha perduto ogni forma di dialogo con il perché (quella domanda di sensatezza) di ogni essere umano: «la coscienza non è data da una quantità di conoscenze in senso orizzontale, ma dalla ricerca nel sapere, che non può essere limitato, della profondità. La ricerca del senso della vita» (Gaber G. in Fondazione Gaber, 2023, p.87). Ciò che è assente all’interno della cultura contemporanea è quella dimensione di verticalità (profondità), sostituita, sempre più, dall’orizzontalità (enciclopedismo): anch’essa, dunque, si costituisce in una sempre maggiore tendenza all’omologazione, venendo a mancare, sempre più, il compito proprio della singolarità – quella necessità di autonomia che dovrebbe, cioè, guidare qualsiasi individuo che si approssimi alla Cultura. Quest’ultima, infatti, quando è vera cultura, non è mai generalizzabile, costituendosi, piuttosto, come qualcosa da riattualizzare, di volta in volta, personalmente, in una relazione strettissima, mai dismissibile, tra ricerca ed esistenza, pensiero e vita: ed allora, la storia, la memoria, l’esempio sono sì decisivi ma per formare persone che pensino il singolo. Avremmo quindi bisogno ancora di formatori che educhino a questo processo, di quelli, cioè, che si definiscono, ancora oggi, come cattivi maestri: «l’etica del singolo non è generalizzabile. È testimonianza che si regge solo sull’atto singolare. Intesa come dottrina, come complesso di principi da insegnare, diventa falsa, genera ideologia, non coscienza. Possiamo solo buttarla lì: mostrare come noi facciamo, come noi viviamo e come vorremmo vivere, senza mai imporre agli altri la nostra cultura.» (Messner C., 2012, p.110).
Cultura estetica – civilizzata e borghese. La cultura contemporanea si costituisce allora, seguendo un’espressione cara al giovane Lukács, come cultura estetica. Essa, cioè, non è altro che una configurazione della civiltà dell’intrattenimento: abbandonato ogni dialogo con la vita, essa si riduce a «parole da conversazione» (Gaber G., Il conformista, 1997-2000), «gioco di opinioni» (Gaber G., Chissà, 1997-2000). Questo diviene così lo specchio di quel mondo compiutamente civile, assente di qualsiasi sostanza o durezza: una civiltà da cui è stato espunto il conflitto, all’interno della quale si può discutere di qualsiasi contenuto – anche originariamente contundente – con leggerezza e superficialità (la memoria che, oggi, si fa di Giorgio Gaber ne è un buon esempio). Una cultura divenuta definitivamente borghese, senza che si lotti più per combatterla, o anche solamente per ritornare a guardare il Nemico negli occhi: dimostrazione una (parte di) gioventù sempre più perduta, mancante di qualsiasi anelito, che prepara le fondamenta, sin dall’adolescenza, al fine di introdursi a questa forma del mondo – «all’occorrenza anche disonesti con tutta la meschinità dei giovani arrivisti» (Gaber G., Il grido, 1997-2000).
Prima etica/Seconda etica. La nostra cultura si costruisce, dunque, sull’apparenza e la conseguente perdita dell’essenziale. Reinterpretando Dostoevskij (insieme al giovane Lukács), ci potremmo servire della coppia concettuale prima etica/seconda etica: con la prima che si caratterizza per il rispetto pedissequo del mondo delle convenzioni, per l’adesione giuridico/formale ad ogni istituzione del tempo, per il seguire ogni tendenza dominante nella società, e la seconda che, invece, si costituisce come quel mondo che potremmo definire dell’anima, della sostanza (in cui assume un valore centrale il carattere della bontà), e che, conseguentemente, ha anche la possibilità di entrare in conflitto con quel mondo formale-istituzionale sopra descritto. Gaber potrebbe dire che il nostro mondo è dominato dalla categoria della prima etica: e cioè da contenuti, anche (in alcuni casi) apparentemente giusti, ma che si reggono su una completa distanza dall’esistenza (dall’anima), dall’intenzione buona, costruendosi, piuttosto, su quei caratteri di fariseismo ed ipocrisia, fondamentali nella nostra civiltà. Vari sono i brani in cui il cantautore milanese mette a tema questo problema. Sicuramente Il conformista o Il potere dei più buoni si possono considerare una critica a quel tipo umano così diffuso che, pur di apparire dalla parte giusta della storia, e di seguire la propria ambizione di corto raggio, aderisce ad ogni tendenza del contemporaneo: «è il potere di più buoni costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni che un domani può venir buono per le elezioni» (Gaber G., Il potere dei più buoni, 1997-2000). In Incontro si riflette, invece, in modo specifico sulla distinzione tra azioni formalmente buone e quella che potremmo definire come carattere sostanziale della bontà: e, cioè, tra solidarietà astratta e solidarietà esistenziale in cui la discriminante, qui, è un elemento apparentemente invisibile, eppure decisivo, in quanto la sua presenza contribuisce alla possibilità di costruzione di nuove modalità di stare al mondo (di differenti forme di vita) – «no, intendiamo, ben venga qualsiasi slancio che possa alleviare le sofferenze di altre persone, c’è solo da sperare che la nostra bontà, sia il più possibile, pulita. Perché anche la bontà, se è compiaciuta finta o addirittura interessata, non serve a procurarsi un posto in paradiso. Sono esigenti i guardiani del cielo. La sola moneta che vogliono è l’amore» (Gaber G., Incontro, 1997-2000). Così ne L’Azalea, questa pianta da acquistare la domenica diviene simbolo di quell’essere umano borghese, civile, attento ad ogni elemento superfluo, se formale o convenzionale, ma mancante di ogni legame con il rigore, la durezza (ciò che conta realmente), la bontà – in estrema sintesi, assente di una qualsiasi forma di dialogo con il carattere essenziale dell’esistenza umana: «secondo me a San Francesco non piacevano le azalee. [..] La bontà vera commuove, rassicura. Quella finta, mi fa vomitare. [..] Esibizioni fatte per abbellire l’anima, e anche l’immagine» (Gaber G., L’azalea, 1997-2000).
Interludio – per un’altra Italia. Il rapporto conflittuale e contraddittorio che Gaber intrattiene con l’Italia costituisce uno dei temi più liminari da affrontare, nonché estremamente dibattuto: è divenuto celebre il suo brano Io non mi sento italiano (che dà anche il titolo al suo album uscito postumo). Tuttavia, appare evidente come la sua critica all’Italia sia la contestazione da parte di chi ha vissuto profondamente le fratture, le contraddizioni, gli anni tragici di questo paese ed il cui esser-contro si lega strettamente, alla possibilità di una costruzione di qualcosa di differente – in una battuta, di un’altra Italia: ospitale, aperta al mondo, non relegata staticamente nei propri confini, all’interno della quale possano sorgere, finalmente, le potenzialità per una nuova Kultur condivisa.
Terzo millennio, antiprogressismo e nuovo Medioevo. Nella nostra cultura che procede, senza intralci o impedimenti, verso il futuro vi sarebbe la necessità di una battuta di arresto: questo è uno dei nuclei fondamentali della poetica di Gaber. Il terzo millennio, infatti, simbolo apparente di un avvenire radioso, coincide, nei fatti, con una forma di civiltà «al capolinea, al termine del mondo» (Gaber G., Verso il terzo millennio, 2001): ogni nuovo elemento del contemporaneo non si traduce, infatti, in progresso valoriale (qualitativo), così come lo sviluppo tecnico (razionale) non significa, acriticamente, avanzamento per l’umanità. D’altronde, in Occidente, al grado massimo dello sviluppo ci ritroviamo al grado minimo di coscienza (anima), e, cioè, alle soglie di ciò che Gaber, pasolinianamente, considerava nei termini di un traumatico mutamento antropologico: «sviluppo senza progresso: mi sembra la sintesi più appropriata della nostra epoca» (Gaber G. in Fondazione Gaber, 2023, p..90). Così la barbarie (crf. Gaber G., Barbari, 1997-2000) è interna alla nostra civiltà (altro che presunti attacchi dall’esterno): è la nostra civiltà ad essere portatrice di un annichilimento dell’esistenza, della politica, della cultura, conducendoci alle soglie di ciò che il cantautore milanese definiva nei termini di un nuovo Medioevo. In Bella gente si ripercorre, così, la storia d’Italia dagli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra ad oggi, con un taglio marcatamente antiprogressista – «che bella gente che brulicava in ogni piazza, come fosse un’altra razza, con il coraggio di un progetto per ribaltare proprio tutto. [..] Che bella gente che pascolava negli anni ’80 senza lasciare mai un’impronta. Con l’ottimismo dell’italiano, che ci ha portato così lontano. Un paradiso dove quasi tutti, avevan gli occhi dei ricchi. [..] Che bella gente quella di ora. Un pò abbruttiti fuori e dentro, con la pretesa di esser contro. Quell’aspetto quasi innocuo, indifferente. Con dei problemi così meschini che ti potrebbero fregare o per invidia, o per vanità, o per poche lire» (Gaber G., Che bella gente, 1997-2000). Lontanissimo dall’idealizzare il passato (con cui avrà sempre un rapporto critico – lui stesso conierà l’espressione di generazione che perde), Gaber, tuttavia, simultaneamente, intravede la necessità di non considerare il mondo contemporaneo come progredito: piuttosto, scorge la necessità di ripercorrere, e recuperare, alcune tracce del passato (a loro volta contradditorie) alla ricerca di embrioni per un potenziale, e differente avvenire.
Interiorità nel contemporaneo. Si pone allora il problema, sempre più urgente, di come vivere (abitare) in un cosmo in disgregazione. E qui il discorso di Gaber si stratifica, diviene più complesso, con un continuo slittamento di piani: la ricerca di una sempre più difficile rivoluzione comunitaria e di una nuova aurora (problematiche che egli non abbandonerà mai) cominciano, sempre più, a legarsi ad un discorso legato all’interiorità, al campo degli affetti, alla spiritualità. L’illogica allegria, brano uscito nel 1980 ma riproposto, non a caso, nel suo ultimo album, si costituisce, così, come un inno grato all’esistenza intesa nel suo carattere donativo, a prescindere dagli eventi contingenti o storici (pur, cioè, nella massima disperazione, o disgregazione) – contemplare, amare (baciare, dostoevskjianamente) la terra, nonostante tutto: così Heidegger, interprete di Hölderlin, scriveva – «può un uomo dire quando la vita non è che pena guardare il cielo e dire: così anch’io voglio essere? Sì». Ne Il luogo del pensiero, riaffiora, seppur in altri termini, la medesima problematica: nel momento in cui il capitalismo, e la cultura estetica, sembrano assorbire qualsiasi elemento, quali sono gli strumenti a nostra disposizione per contrastarli? Ancora una volta, il problema di come abitare una Kultur in crisi. E qui sono la solitudine, e più specificamente quello che egli definisce il luogo del pensiero, a costituire quelle possibilità di fronteggiare l’assorbimento dalla barbarie del contemporaneo: «il luogo del pensiero un rifugio dove mettersi al riparo dall’affanno dal presente e del futuro/ uno spazio abitato dalle cose più vere come un piccolo mondo che io possa contenere» (Gaber G., Il luogo del pensiero, 1997-2000). Questa svolta intimista di Gaber non significa, tuttavia, come accennavamo, l’abiura di quella componente di conflitto, di contrasto al mondo: essa può essere un modo per ritardare, o anche preparare e costruire nuove forme di lotta su nuove basi, ma mai costituirsi come la soluzione ultima o definitiva ai problemi posti dal contemporaneo – «la salvezza personale non basta a nessuno» (Gaber G, Io come persona, 1994). «Preparati alla guerra con la pace nel cuore»: questo passaggio della Bahagavita riesce a condensare al meglio una parte decisiva della poetica dell’ultimo Gaber.
Il grido – esistenza e politica. Da dove ricominciare, allora, per combattere, nuovamente, sul piano comunitario, da quale anello della catena iniziare a ripensare un mondo nuovo: come, cioè, riattivare una coscienza rivoluzionaria. Nell’ultimo Gaber, infatti, all’interno di questa critica integrale alla Kultur contemporanea, vi è, simultaneamente, la constatazione di un anelito taciuto, né compiutamente consapevole, coltivato da una parte di società che attende, pur maldestramente, il differente. Qualcosa, che, ancora oggi, appare privo di voce, significato, o di qualsiasi simbologia: «è un gran vuoto che vi circonda e che vi blocca come se fosse un grido in cerca di una bocca» (Gaber G., Il grido, 1997-2000). E qui, in questo passaggio, ritorna quella centralità dell’esistente, e, cioè, quella relazione strettissima, oggi inscindibile, tra mutamento antropologico e rivoluzione politica: «è al livello più intimo dell’esistenza personale, che Gaber individua il solo terreno da cui potrebbe, un giorno, sorgere un movimento per la trasformazione della società» (Messner C., 2012, p.30). Come se il campo degli affetti, delle relazioni – dell’esistenza tout court – all’interno di questo nostro mondo civilizzato acquisisse un significato immediatamente politico: nella coltivazione della propria inquietudine ed angoscia (individuale/comunitaria) vi sarebbe, cioè, la possibilità di mettere le basi, costruire le fondamenta per nuove scintille rivoluzionarie. Ed ecco allora che anche le relazioni affettive, intime, per chi le osserva attentamente, serbano in sé il potenziale di fuoriuscire da un piano esclusivamente privato e divenire un fatto culturale, politico – qui, infatti, si costituirebbe quel primo passaggio (/anello) per rimettere in movimento una civiltà ormai ferma, statica: «forse è da lì che ciascuno di noi dovrebbe ripartire, dall’individuo e dalle sue contraddizioni. Forse è lì che si nasconde la voglia di frequentare ancora il futuro con gioia» (Gaber G., in Harari G. (a cura di), 2011, p.109).
Per un altro umanesimo: Una nuova aurora sarebbe dunque data da un altro umanesimo che costituirebbe simultaneamente quella scintilla rivoluzionaria: è qui, su questo campo, che potrebbero nascere, infatti, altre, differenti, forme di conflitto. La rivoluzione politica si lega, così, strettamente, alla coltivazione, messa in moto, di una differente antropologia, con i due ambiti che istituirebbero, così, una relazione circolare: esistenza come motore della politica la quale, diverrebbe, a sua volta, potenzialità di massimo arricchimento per la prima – «allora si potrebbe immaginare un umanesimo nuovo con la speranza di veder morire questo nostro Medioevo col desiderio che in una terra sconosciuta ci sia di nuovo l’uomo al centro della vita» (Gaber G., Se ci fosse un uomo, 1997-2000). Questa è dunque una tematica che affiora, con costanza, nella poetica dell’ultimo Gaber, in molti dei suoi brani. Quando sarò capace di amare, ad esempio, si lega alla problematica di una nuova forma di vita – il differente modo di vivere le relazioni (anche intime, private) costituisce, simultaneamente, la possibilità di un nuovo sguardo politico: un diverso modo di abitare il mondo che aprirebbe, cioè, le porte ad una differente epoca. Così, nella sua nota Qualcuno era comunista si condensa una parte decisiva della riflessione dell’ultimo Gaber: innanzitutto la sua parte critica – la memoria di un mondo differente, di un contro-potere, e, quindi, la fine di quel sogno ed il sorgere di una Kultur disgregata. E, tuttavia, la memoria può anche costituire il significato di speranza per l’avvenire – scriveva il giovane Lukács (dalle tonalità tragico-utopiche): «esisteva qualcosa che è poi scomparso, potrebbe esistere ancora, chissà quando». Insomma, il mondo, anche se, oggi, sono poche le tracce che sembrano procedere in questa direzione, non si chiude mai definitivamente, la storia non finisce ed allora bisogna essere vigili, pronti – è, ancora una volta, una svolta antropologica, secondo il cantautore milanese, che potrebbe aprire la strada, finalmente, all’aurora di una politica ed una Kultur differenti: «e allora tu mi dirai: “Non c’è salvezza”. No, questo non si può dire. Le risorse dell’uomo sono imprevedibili. Si potrebbe forse cominciare a pensare, o anche a operare, nel senso di un cambiamento sostanziale dell’animale uomo. Una specie di mutazione antropologica» (Gaber G., L’ingenuo (1978), in Id., L’ingenuo [seconda parte], 1997-2000).
Bibliografia citata nel testo:
G. Gaber, L’illogica utopia. Autobiografia per parole e immagini, a cura di Guido Harari, Milano, Chiarelettere, 2010.
G. Gaber, Quando parla Gaber. Pensieri e provocazioni per l’Italia di oggi, a cura di Guido Harari, Milano, Chiarelettere, 2011.
G. Gaber, «Gaber racconta se stesso», a cura della Fondazione Gaber, in Collector’s Edition, 2023.
C. Messner, La realtà come passione. Filosofia, politica, responsabilità in Giorgio Gaber, Palermo, Navarra Editore, 2012.
Discografia citata nel testo:
G. Gaber, Io come persona, 1994.
G. Gaber, Un’idiozia conquistata a fatica, 1997-2000.
G. Gaber, La mia generazione ha perso, 2001.
G. Gaber, Io non mi sento italiano, 2003.
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