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Gli houthi: economia e guerra nel 2024
Prevedere l’andamento dell’economia pare diventato più un esercizio di chiromanzia che l’esercizio di principi scientifici con una salda base concettuale. Dopo il 2007-2008 abbiamo avuto la crisi del covid-19 nel 2020 e quella della guerra in Ucraina nel 2022. Le crisi si susseguono con una velocità che impedisce di riprendersi dalla botta precedente prima che arrivi la successiva. Non sappiamo se la acutizzazione della conflittualità in Medio Oriente possa costituire una ennesima discontinuità.
Detto questo possediamo strumenti che ci possono dare una idea delle prospettive future, per quanto aleatoria: le crisi hanno una grande capacità inerziale, ed una caduta di indicatori base (pil, occupazione, indebitamento) ha bisogno di uno sviluppo rilevante per non trascinarsi per anni. Sappiamo quanto in basso siamo arrivati, ergo possiamo ipotizzare quanto ci possa volere a risalire la china – sempre che non interventano altri eventi imprevedibili.
La pubblicazione più nota e citata non sembra di grande utilità. Il World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale esce due volte l’anno, ad aprile e ottobre. L’ultimo è datato il 10 ottobre, tre giorni dopo l’attacco di Hamas che ha acceso le polveri della guerra a Gaza, quindi ovviamente non ha potuto tenere conto di questi eventi. Il prossimo aggiornamento del Fmi è previsto per il 30 gennaio prossimo.
Il 29 novembre 2023 era uscito tuttavia l’Economic Outlook dell’OECD. In esso si citano tutti i fattori che destavano preoccupazione nel 2023: l’inflazione persistente, la crescita del pil stentata, le politiche monetarie restrittive. Con l’aggiunta delle tensioni geopolitiche. Per cui le previsioni sono una crescita del pil mondiale inferiore nel 2024 rispetto al 2023 (dal 2,9% al 2,7%), e perdurante divergenza – economie emergenti meglio dei paesi ricchi, fra cui il fanalino di coda sarà ovviamente l’Europa. La nuova guerra in Medio Oriente potrebbe invece influire sui prezzi dell’energia e sul commercio, spandendo la sfiducia nei mercati e rendendo le conseguenze dell’innalzamento dei tassi di interesse delle banche centrali più forti e pericolose. Anche i paesi più poveri e indebitati rischiano, perché un aumento del valore del dollaro rovinerà che ha un debito da pagare in tale valuta – come accadde negli anni Ottanta.
Più recentemente il 4 gennaio scorso è uscito l’imponente rapporto ONU World Economic Situation and Prospects 20204; si tratta di un ampio report realizzato in collaborazione fra otto agenzie delle Nazioni Unite, di cui le più conosciute sono UNCTAD e UN Department of Economic and Social Affairs.
Secondo gli autori, le perduranti incertezze ed i rischi dovuti ad alti tassi d’interesse delle banche centrali dei paesi più ricchi con conseguente credito più difficile e alti debiti, abbassano le previsioni della crescita mondiale al 2,4% per il 2024; le economie di Usa, Europa e Giappone vanno verso la flessione, mentre – guarda un po’! – i paesi dell’Asia centrale del CSI (quelli non inglobati dalla Ue) vanno meglio del previsto, “riflettendo la crescita più alta delle aspettative della Federazione Russa”. La Cina che si stima sia cresciuta del 5,3% nel 2023, dovrebbe scendere al 4,7% nell’anno seguente.
In diversi paesi paesi la disoccupazione ha visto una ripresa nel 2023 migliore che dopo il 2008, ma in modo frammentato: nella maggior parte di essa questa rimane elevata, ed il ogni caso la crescita dei salari non è stata tale da bilanciare l’erosione del potere d’acquisto per l’elevata inflazione.
Anche le politiche delle banche centrali rivestono un ruolo particolarmente gravoso per il restringimento dello spazio fiscale, soprattutto dei paesi più poveri: nel 2022 circa 50 paesi spendevano per ripagare gli interessi del loro debito più del 10% delle loro entrate, e 25 oltre il 20%!
Un altro elemento rilevante è la stagnazione del commercio internazionale, cresciuto nel 2023 solo dello 0,6%. Il rapporto arriva a dire che questo fattore non agisce più come elemento trainante per la crescita mondiale.
Se dal corposo rapporto ONU volgiamo lo sguardo alla più stretta attualità, si vede come tale rischio paia rapidamente concretizzarsi.
Solo pochi giorni fa nessuno aveva sentito parlare degli Houthi. Si tratta di un gruppo armato nello Yemen, emerso durante la durissima guerra civile nel paese che controlla una notevole porzione di territorio, di confessione sciita e facente parte del cosiddetto Asse della Resistenza assieme a Hezbollah, Hamas, Iran, Siria, milizie irachene, l’alleanza flessibile di vari gruppi e potenze regionali in funzione anti-Usa e anti-Israele.
Gli Houthi si ritiene che posseggano armi di una gittata rilevante, come suggerisce l’immagine seguente:
Come ritorsione contro Israele e i suoi alleati, la milizia ha attaccato delle navi merci che passano per il Mar Rosso, con l’intenzione di danneggiare lo Stato ebraico e i suoi alleati.
Lo stretto di Bab el-Mandeb collega il Mediterraneo con il Golfo di Aden e quindi con l’Oceano Indiano. Si tratta di un passaggio strategico che interessa il 12% del commercio globale, l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) stima che fino a un quarto del marittimo traffico mondiale passi lungo questa rotta.
Come conseguenza degli attacchi, le maggiori compagnie di trasporto hanno cambiato rotta, dirigendo le navi verso la circumnavigazione dell’Africa:
Il portale Flexport, specializzato nei trasporti di merci, riporta che le assicurazioni per le navi in trasnito presso l’area sono aumentate di dieci volte; di conseguenza il Baltic and International Maritime Council (BIMCO), un’associazione marittima di armatori che rappresenta il 60% del tonnellaggio mondiale ha consigliato ai suoi membri di tutte le industrie di evitare l’area del Mar Rosso.
Niente come questa situazione mostra la correlazione fra geopolitica e flussi commerciali. Chi teorizzava un mondo piatto, dove tutto può liberamente spostarsi e fluire senza problemi aveva fatto male i suoi conti, e la scorrevole, astratta idea di una globalizzazione senza ostacoli urta con le asperità della geopolitica nella sua dimensione più forte, quella bellica.
Quali conseguenze? Il Kiel Institute of World Economy, un importante pensatoio tedesco dedicato ai temi economici e commerciali, ha segnalato in un report dell’11 gennaio scorso che il flusso per la rotta del Mar Rosso è crollato del 70% rispetto al normale nel dicembre 2023. “La deviazione delle navi a causa degli attacchi nel Mar Rosso intorno al Capo di Buona Speranza in Africa significa che il tempo necessario per trasportare merci tra centri di produzione asiatici e consumatori europei è significativamente esteso fino a 20 giorni”, con un relativo aumento dei costi. Il seguente grafico tratto dallo studio del Kiel Institute mostra plasticamente il trend discendente (nella curva blu scuro), che si riverbera in un calo nel mese di dicembre 2023 del commercio globale dell’1,3%.
Tutto ciò spiega perché gli Usa abbiano deciso di intervenire militarmente nell’area coi propri alleati, ma va detto che le forze armate saudite hanno bombardato gli Houthi per anni interi senza ottenere risultati strategicamente definitivi, né può esser dato per scontato che i loro alleati come l’Iran restino a guardare, perciò l’efficacia di un intervento occidentale non fornisce molte garanzie di stabilizzare la situazione se a Gaza lo scenario continua a deteriorarsi, nonostante l’entusiasmo da Istituto Luce dei più fanatici tifosi filo-Usa:
Insomma, se l’influsso delle crisi precedenti pare aver già gettato una pesante ipoteca sull’anno che ci apprestiamo ad affrontare, con debiti più difficili da ripagare e politiche fiscali volte alla ben conosciuta austerità, il panorama mediorientale suggerisce un possibile ulteriore deterioramento. Decisamente sarà un anno interessante.
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