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Aristotelismi, materialismi ed eresie. Alcune note su di un recente volume


11 Feb , 2024|
| 2024 | Recensioni

Il recente saggio di Davide Ragnolini, Hyle. Breve storia della materia increata, edito da Rubbettino nell’autunno del 2023, costituisce una guida apparentemente snella e sintetica, in realtà densa ed erudita, per chi voglia orientarsi nella storia antica e medievale di un concetto così problematico e sfuggente per la tradizione filosofica e teologica occidentale, quale quello di materia. Il libro si suddivide in sei capitoli, seguiti da un epilogo, che ripercorrono momenti e questioni cruciali del dibattito antico, tardo antico e medievale sul concetto di materia: da quelle che l’autore definisce «protogonie pre-aristoteliche», ossia le filosofie presocratiche e quella platonica, al tema della materia in atto; dalla necessità cristiano-platonica dei padri della chiesa di pensare una forma senza materia, alle eresie «materarie» o materialistiche; dalla necessità teologica d’intendere la materia come privazione, a quella di liberare e di «immunizzare» Dio dalla materia.

Partendo dal rintracciare l’apparizione del termine hyle nel corpus delle opere di Aristotele e seguendone lo sviluppo nel dibattito antico e medievale, Ragnolini non intende «spiegare Aristotelem ex Aristotele» (p. 7), come scrive, ma avanzare la tesi che «la stessa storia filosofica e teologica occidentale possa essere riletta a partire dal problema della giustificazione della materia nel creato» (p. 8). In altri termini, non c’è filosofia né teologia antica e medievale che nella storia occidentale abbia potuto fare a meno di confrontarsi con il concetto di materia prima, increata o ingenerata, e con i problemi che essa comporta, ossia l’idea dell’eternità del mondo, della creatio ex nihilo o ex materiae, della coesistenza tra Dio e materia o della creazione di quest’ultima da parte della divinità.

La definizione aristotelica della hyle come sostanza tanto fisica quanto metafisica e logica, senza la quale nulla può essere predicato (p. 25), è assunta a termine di confronto permanente, sia in rapporto alle precedenti filosofie presocratiche e alla platonica, sia alle filosofie neoplatoniche e alla speculazione teologica dei padri della chiesa. In quanto sostrato, la materia è, nella prospettiva aristotelica, eterna, preesistente e anteriore, non separata dalla forma, ma «condizione fisico-ontologica del divenire» (p. 29). La materia non è, dunque, privazione assoluta, accidente o pura potenza, come una lunga vulgata la intenderà: «preesistendo a ciò che diviene risulta dotata di un attributo simile alla forma, e anzi condivide con questa una certa attualità» (p. 30).

L’autore identifica nella teoria aristotelica «una tappa teoretica fondamentale della materia increata» (p. 31). Egli assume il dibattito sulla hyle a elemento paradigmatico, evidenziando in particolare come la storia della filosofia dopo Aristotele, possa essere compresa nei termini di una lotta tra un partito creazionista, composto dai neoplatonici e dai padri orientali della chiesa che riducevano la hyle a chora o a propre nihil, e da un partito eternalista, composto dagli allievi dello Stagirita a partire da Teofrasto.  

Aristotele aveva materializzato l’intellegibile e reso la materia inseparabile dagli enti, escludendo dal novero dei fenomeni ontologici tanto l’idea della creatio ex nihilo che della corruptio ex nihilo (p. 47). Se la rappresentazione demiurgica del Timeo platonico meglio si accordava alla teologia cristiana delle origini, la definizione aristotelica di una hyle eterna poneva non pochi problemi al racconto biblico della creazione. Da Plotino, Porfirio e Proclo, a Filone di Alessandria e Origene, passando per Tertulliano e Giustino, dallo Pseudo Giustino ad Agostino, da Boezio a Giovanni Scoto Eriugena, per nominare solo alcuni degli autori trattati, Ragnolini illustra le soluzioni adottate tanto dai neoplatonici quanto dai teologi cristiani nell’opporsi a quelle dottrine che ponevano l’idea della co-eternità di Dio e della hyle, nonché nel ricostruire l’operazione di questi ultimi di «cristianizzare Platone» (p. 68) per accordarlo al racconto biblico. Queste pagine evidenziano in maniera chiara come dall’età tardo antica fino al basso medioevo, l’ilemorfismo aristotelico abbia rappresentato uno dei principali obbiettivi polemici di un’ortodossia teologica cristiana che proprio in quei secoli si stava componendo e strutturando, mentre il platonismo e la dottrina emanatista neoplatonica, accordate con la rivelazione dell’Antico e del Nuovo Testamento, divenivano elementi costitutivi dell’impalcatura teorica e filosofico-teologica di supporto.

L’autore ricostruisce come, proprio a partire da questa polemica condotta dai neoplatonici e dai padri della chiesa contro la concezione aristotelica di una hyle eterna sia emersa quell’idea della materia intesa come assoluta privazione: «sia la metafisica neoplatonica che quella cristiana potevano domare la questione della realtà materiale negando alla hyle perfino quello status mediano di ente inter nullam et aliquam substantiam, quindi squalificandola ontologicamente attraverso la sovrapposizione della nozione di materia e privazione» (p. 78). L’esigenza della teologia cristiana sarà quella di separare Dio da ogni possibile co-esistenza con la hyle, ponendolo al di fuori del cosmo e delle cose esistenti, salvaguardandone al contempo la sua trascendenza, indipendenza e separazione rispetto al mondo creato, ossia alla materia. La distinzione tra un’azione divina ad intra con cui Dio genera il Figlio, unigenito e della sua stessa sostanza, e di un’azione divina ad extra,con cui Dio crea il mondo, di una materia differente da sé e, dunque, privata della natura divina, sancirà definitivamente la fortunata soluzione teorica e dogmatica cristiana su cui si articolerà anche l’impalcatura teologica tomista.

È qui interessante rilevare come una caratteristica originariamente neoplatonica attribuita alla concezione aristotelica della hyle, la privazione, finirà col diventare, tra XIII e XVI secolo, una caratteristica propria dell’aristotelismo tomista. Un esempio di ciò ci è fornito tanto da un aristotelico cattolico come Alessandro Piccolomini, quanto da un critico di quella forma di aristotelismo cattolicizzato come Giordano Bruno, i quali entrambi ricondurranno l’idea della privazione della materia alla filosofia dello Stagirita.

Ancora fino alla metà del XIII secolo, Aristotele rappresentava un ostacolo alla strutturazione dell’ortodossia cristiana. La filosofia dello Stagirita, che giunge in Occidente attraverso le traduzioni latine dei commenti di Alessandro di Afrodisia, Avicenna e Averroè, o ancora mediato dal Fons vitae di Avicebron, porta con sé il peso di una concezione della materia inconciliabile con la teologia cristiana. Ragnolini ricorda come ancora nel 1210, con il Concilio di Sens, la dottrina contenuta nei cosiddetti Quaternuli di David de Dinant, commento ai Libri naturales di Aristotele, sia dichiarata eretica, e come solo pochi anni dopo, nel 1215, venga proibito l’insegnamento delle opere dello Stagirita nell’Università di Parigi. La dottrina di maître David, giudicata una stultitia da Alberto Magno e da Tommaso d’Aquino, sembrava aver compromesso definitivamente Aristotele da un suo possibile uso teologico. Occorre, tuttavia, non cadere nell’errore di identificare la filosofia di David de Dinant con una forma di panteismo o di materialismo, replicando le critiche che i due maestri domenicani Alberto e Tommaso adducevano, né pensare che si tratti di un aristotelismo naturalista. Non a torto si può definire David, come ha notato Elena Casadei, «uno studioso di Aristotele non aristotelico» (E. Casadei, I testi di David di Dinant: Filosofia della natura e metafisica a confronto col pensiero antico, Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2008, p. XV) o, per certi versi, un aristotelico antiaristotelico (Ivi, p. XVII). Se è vero, come osserva Ragnolini, che David identificava Deus e Hyle (Ragnolini, p. 104), bisogna però ricordare che questa identificazione non si dà tra due, ma tra tre termini, ovvero tra Deus, hyle e mens, ovvero tra Dio, materia e mente o anima, come leggiamo nel frammento P dei Quaternuli. Si tratta di una dottrina che tende all’unità dell’essere o della sostanza, che invera motivi già presenti nella lettura platonica e neoplatonica dell’eleatismo parmenideo, e che troveranno nuove formulazioni prima nell’elaborazione dell’idea teologica di posse-est di Niccolò Cusano, cioè di Dio come unità coessenziale di potenza e atto, poi nell’affermazione di Bruno, contenuta nel XV articolo della terza sezione del De vinculis in genere e che richiama esplicitamente il nome e la filosofia di David de Dinant, per cui «materia […] et forma […] unum et idem sunt».  

Allo stesso modo, se l’operazione che l’autore conduce di raffronto della concezione aristotelica della hyle con le successive formulazioni filosofiche e teologiche di matrice platonico-neoplatonica fornisce strumenti teorici e riferimenti testuali preziosi per la comprensione del dibattito sulla materia increata, occorre non cadere nel tentativo di adottare lo stesso nucleo tematico per comprendere ciò che precede quel dibattito, ravvisando un carattere di precorrimento nella storia della filosofia. In questo senso, ad esempio, l’osservazione che la filosofia presocratica non sia, in fin dei conti, che «un commento a margine della nozione di hyle, prima che questa venisse inventata (pp. 19-21), rischia non solo di ridurre quelle molteplici tradizioni filosofiche, in particolare la eleatica, a un unico dibattito e a una forma specifica della filosofia, ossia l’aristotelismo, analizzandole tramite lessici e categorie concettuali ad esse estranee, ma anche di eludere il senso storico profondo e proprio di quelle dottrine.             

Quello che il saggio di Ragnolini, invece, implicitamente suggerisce è il carattere storico delle filosofie esaminate, il loro non essere oggetti statici, monolitici, conchiusi, fermi e definiti, ma la loro continua mutevolezza concettuale e terminologica. Questa breve storia della materia increata ci aiuta così a intravedere la complessità di alcune delle stratificazioni, delle mescolanze e del carattere spurio delle filosofie, intese come costruzioni che abbandonano l’autore da cui prendono vita, per assumere molteplici e variegate forme nel corso dei secoli, spesso molto distanti dalla loro origine. Un esempio di ciò ci è dato proprio dall’intuizione della storicità dell’aristotelismo, o meglio, degli aristotelismi. Se dall’antichità al primo medioevo la filosofia di Aristotele, con le sue continue secolari mutazioni, rappresenta il nemico dottrinale della teologia cristiana, a partire dalla metà del XIII secolo, con l’opera dei due maestri domenicani Alberto e Tommaso, questa sarà riformulata, adattata all’ortodossia e sottratta all’eresia, divenendo lo strumento teorico portante della nuova ortodossia cristiano-cattolica. Ma ciò può avvenire, come sottolinea Ragnolini, soltanto forzando questa filosofia, ponendo cioè uno scarto tra le realtà intellegibili e la materia, ovvero rendendo «Dio immune dalla materia» (p. 109). «Lo sforzo teoretico» di Tommaso per affermare «un agente creatore divino, puramente formale» (Ibidem) comportava un superamento della dottrina aristotelica della materia, che l’autore riassume col motto «Hyle delenda est» (Ibidem). In altre parole, per fare della filosofia di Aristotele un fondamento della nuova teologia cristiana, occorreva traviare a abbandonare, se non distruggere, proprio la dottrina aristotelica della materia.

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