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A che ora è la fine del mondo?
Si può essere ambientalisti in tanti modi, anche senza per forza sposare un riduzionismo elitario e apocalittico all’insegna del “Fate presto”. D’altra parte la storia più recente ci rende istruiti circa il segno regressivo di tale logica, non solo perché essa deprime la vitalità democratica e alimenta false polarizzazioni, ma anche perché, di austerità in decrescita, può essere facilmente curvata a vantaggio degli interessi di pochi privilegiati e declinata in termini di impoverimento generalizzato. Sullo sfondo il tentativo della macchina occidentale in crisi di strumentalizzare, ancora adesso, la questione green per rilanciare e rilegittimare se stessa sia sul fronte produzione-consumo, sia sul fronte ideologico e di lotta geopolitica. Senza dimenticare l’emergenzialismo come sottosuolo spirituale del nostro tempo circondato da un misto di chiusura asfittica di orizzonti e di “edonia depressa”. Soprattutto, l’emergenza – scrive Carlo Galli – “comprime il diritto di critica, le voci di dissenso, e implica una tendenziale uniformazione, la discriminazione del non-conforme, del nemico interno – l’accusa di essere «no-vax» ha colpito chiunque chiedesse spiegazioni, o eccepisse in qualsivoglia modo le misure decise dalla politica e legittimate dalla scienza -: il che è ovviamente pericoloso per la democrazia”. L’uso politico-mediatico delle emergenze, reali o enfatizzate che siano, diventa cioè lo sfondo e la copertura ideologica per assolutizzare alcuni temi e sottrarli alla discussione pubblica, sancendo tanto l’insindacabilità del bene superiore (nel nome del quale vengono richiesti sacrifici continui che non possono essere oggetto di dissenso), quanto l’intrascendibilità dell’ordine esistente, falsamente ricomposto.
Ma forse c’è qualcosa di ancora più profondo. In questo senso c’è chi vede nell’appello ecologista i segni di una nuova religione, che partecipa in una forma più igienizzata, fra profezie di catastrofe e speranze di salvezza, alle nuove forme di spiritualità che attraversano l’Occidente secolarizzato e in crisi di identità: una sorta di paganesimo, secondo alcuni, rivisitato alla luce dell’ecologia con i suoi riferimenti a un divino naturale. Si passa così da un’idea di natura “matrigna” ad una concezione salvifica della stessa, mentre antropocentrismo e volontà di potenza rimangono elementi centrali ma celati dietro sembianze rovesciate (il suprematismo etico può forse essere considerato espressione di tutto ciò). D’altronde il fattore religioso, tra ansie apocalittiche, attese palingenetiche e tendenze ad assolutizzare, non scompare mai del tutto, ma si sposta, più o meno sottobanco, da un “centro spirituale di riferimento” ad un altro. Di conseguenza non sbaglia chi ritiene manicheismo (che ci chiama ad una eterna lotta del Bene contro il Male, assuma quest’ultimo il fantasma delle autocrazie o del negazionista di turno) e millenarismo (si veda l’ossessione da fine del mondo imminente) le coordinate di senso del nostro tempo, qui in Occidente.
Ciò che è veramente paradossale, però, è come i rischi più grandi di catastrofe, legati ai nuovi scenari di “guerra mondiale a pezzi”, vengano invece ampiamente sottovalutati, così come viene costantemente misconosciuta, nella rappresentazione edulcorante e priva di senso storico-dialettico dei nostri giorni, la natura opaca, ambivalente e problematica dell’umano, abitata da un “impasto pulsionale” di tendenze contrarie.
Sostenere tutto questo non significa comunque sottovalutare il problema concernente i cambiamenti climatici che, al netto dei toni apocalittici, producono effetti sempre più tangibili. Oppure negare l’impatto delle attività umane sulle accelerazioni riguardanti gli incrementi di temperatura attuali, un dato questo riconosciuto da larga parte della comunità scientifica. Quello che si vuole qui criticare è il rapporto tra tali evidenze e la loro declinazione tanto catastrofista e allarmistica, quanto pauperistica e tecnocratica.
Da più parti ci giunge il lamento: “non c’è quasi più tempo” o addirittura “ormai è finito il tempo”. Eppure non si capisce perché non si possa assumere un approccio più laico e meno enfatico, perché non si possa ragionare anche nell’ottica della mitigazione del danno e in termini di adattamento a situazioni inedite piuttosto che assumere esclusivamente la prospettiva dell’azzeramento totale dei processi: pretendere di governare per intero il clima ci pare illusorio, ma è comprensibile che l’uomo non si rassegni alla perdita di centralità nell’universo e continui a credere che tutto dipenda nel bene e nel male dalle sue opere. Inoltre, non si comprende perché ciò che ispira il principio di precauzione in fatto di ridimensionamento delle azioni clima-alternanti (prudenza, equità, proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza) non debba valere anche quando si riflette sugli effetti delle azioni da intraprendere, sui diversi interessi da contemperare, sull’impatto che tali misure possono avere sulle condizioni di vita concreta delle persone qui ed ora, quindi ancora una volta sul rapporto tra la certezza dei costi attuali e la possibilità dei benefici futuri, con particolare riferimento alle esigenze presenti e future dei ceti popolari.
Nel frattempo assistiamo a questo paradosso: c’è da “fare presto” quando si tratta di chiedere sacrifici e cambiamenti immediati nelle abitudini di vita della maggioranza della popolazione, ma la stessa urgenza non vale quando si denunciano ben più consistenti minacce per l’ambiente, quali ad esempio le dinamiche di guerra o le vie assai trafficate del commercio globale.
Il rischio, quanto mai evidente, è che anche in questo caso si riproponga il nesso di consequenzialità tra (presunta) neutralità della tecno-scienza e azzeramento della politica democratica nel nome del celebre motto “There is no alternative” di matrice liberal-tecnocratico, con tutte le conseguenze che ben conosciamo in fatto di austerità per il 99%, di eterni benefici per l’1% e di spoliticizzazione integrale. Il tutto condito da dosi massicce di fanatismo, moralismo e caccia alle streghe.
Detto questo, la questione ambientale resta un terreno di battaglia centrale e ineludibile. Si tratta tuttavia di pensare ad un ecologismo del 99% capace di intrecciare quella grande domanda di una qualità della vita diversa che attraversa la nostra società. Ricercando un nesso profondo tra questione sociale, questione ecologica e questione democratica/nazionale, nel nome di un’idea di socialismo comunitario del vivir bien e in vista di un ecologismo che non si esaurisca nell’esemplarità dei gesti individuali, ma si ponga l’obiettivo di ribaltare le fondamenta dei processi di integrazione sovranazionale degli ultimi decenni, a partire dal dogma della libera circolazione di merci e capitali. Le istanze da rivendicare sono molteplici: dalla riduzione dell’orario di lavoro alla mobilità sostenibile, dalla lotta agli sprechi e all’inquinamento alla messa in sicurezza del territorio, dal contrasto alla speculazione edilizia alla tutela del patrimonio storico-artistico del nostro Paese, passando per un nuovo paradigma urbanistico che favorisca relazioni diverse contro i tanti fattori di solitudine ed esclusione del nostro tempo. Questi alcuni temi, ma l’elenco delle urgenze è troppo lungo per ricondurre il tutto ad una sintesi efficace.
In ogni caso abbiamo già sperimentato in passato esperienze di successo capaci di coinvolgere un’ampia fascia di popolazione, basti pensare alla battaglia referendaria in difesa dell’acqua pubblica del 2011: esempio di ecologismo egemonico che oggi forse sarebbe considerato troppo al di sotto del firmamento retorico dei tanti manifesti strumentalmente alimentati da ampi settori del mainstream.
Così come viene comunemente declinato e propagandato (tutto schiacciato in maniera spesso isterica e dogmatica sul tema comunque importante dei cambiamenti climatici), il messaggio ecologista, questa almeno è la sensazione di chi scrive, rischia invece di rimanere confinato a un circolo ristretto di pochi ma rumorosi affezionati o risolversi in un conflitto a bassa intensità politica cavalcato cinicamente dai nuovi poteri globali.
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