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Esiste una terza via credibile?

La maggior parte delle persone, quando si avvicina il momento del voto, votano per chi promette loro di abbassare le tasse e di aumentare gli stipendi. Tutto il resto, se siano fascisti o anti-fascisti, conservatori o amanti del progresso, non conta nulla. Per non parlare della politica estera che, come è noto, interessa a malapena i ministri del Consiglio. È l’opportunismo il vero criterio democratico. Basti vedere la recente vittoria di Trump in Iowa, con più del 50% dei voti, per levarsi ogni dubbio. Chi dice il contrario: o è un nostalgico delle ideologie o mente sapendo di mentire.
Più o meno sono questi i ragionamenti portati avanti dagli opinionisti e giornalisti mainstream. Con questo disprezzo per il popolo e per l’intelligenza delle persone, il giornalismo di regime continua a produrre articoli che hanno il solo scopo di offuscare e imbrogliare le menti. In pratica, ci riempiono la testa di discorsi fanta-ideologici (Acca Larenzia, LGBTQIA+, farina d’insetti, ponte sullo stretto, spoils system Rai, ecc…), per poi giungere alla conclusione che il popolo-gregge, quando si trova di fronte alla scelta elettorale, si accontenta di una piccola mancetta, di una semplice promessa per un “reddito di cittadinanza”. Per costoro è tutto un voto di scambio. Ma allora perché chiacchierano così tanto di “valori”, di “idee”, di “visione del mondo”, di “indirizzo politico”, se ciò che conta è solo l’egoistico interesse personale?
Anche rispetto ai problemi internazionali, si sostiene che ciò che impedisce ai governi — in questo caso alla Meloni — di prendere una posizione autonoma, ovvero vincolata alla nostra Costituzione e non sottomessa alle logiche ricattatorie d’oltreoceano, sia sostanzialmente il fatto che il nostro indebitamento ci proibisce di avere un margine di manovra ampio rispetto alla gestione dell’economia e degli investimenti. Anche qui, due pesi e due misure. Infatti, se da una parte si discute di “libertà”, di “giustizia” e di “difesa dei valori occidentali” — ad esempio quando si parla della guerra in Ucraina —, dall’altra si fa sempre riferimento agli umori dei Mercati e al possibile declassamento del nostro paese, non appena si decidesse di fare di testa nostra.
Gira e rigira hanno sempre ragione loro. E come accaduto di recente nei confronti delle dichiarazioni “shock” sul genocidio in atto a Gaza, espresse in diretta televisiva da alcuni artisti del festival di Sanremo, l’ultima parola di accondiscendenza al regime dev’essere sempre la loro (vedi la scandalosa lettura a Domenica In del comunicato dell’Amministratore Delegato Rai, Roberto Sergio).
Tornando all’economia. Vista come è messa l’inflazione e la crisi della risposta politico-diplomatica dell’Europa nei confronti della guerra, non mi sembra che questa loro difesa della “ragione” sia poi tanto conveniente. Chissà che, forse, non si debba cominciare a sospettare di chi crede di avere sempre ragione, anche quando le evidenze empiriche dimostrano il contrario. Sul caso economico della guerra in Ucraina, erano partiti dicendoci che le sanzioni avrebbero messo in seria difficoltà la Russia, e che ciò, di conseguenza, avrebbe riportato presto la pace e la giustizia in Europa. È accaduto l’esatto opposto.
A distanza di quasi due anni dal 24 febbraio 2022, la guerra continua senza sosta. E, nonostante le dichiarazioni del vice-segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Wally Adeyemo, il quale sostiene che la Russia si troverebbe a fare i conti con un’“economia di guerra” (fonte Euronews), a giudicare dalle stime fatte dal Fmi il Pil russo è “in crescita dello 0,7% nel 2023 e dell’1,2% nel 2024” con un’economia in “espansione del 2,2% quest’anno e dell’1,1% nel prossimo”. Dunque, chi ha ragione? I mezzi di disinformazione di massa o la lettura super partes di questi dati economici? Cosa sarebbe meglio per noi cittadini europei, dire che siamo alleati con coloro che vogliono solo il nostro bene, oppure dire che la sottomissione alle logiche militari della Nato, cioè degli Stati Uniti, ci espone in ogni momento a una nuova Guerra fredda, la quale ci vedrebbe coinvolti nel bel mezzo di un possibile conflitto nucleare?
D’altra parte l’Unione europea, pur non essendo mai stata una vera e propria unione, se non dal punto di vista monetario, ha comunque dalla sua il 42% degli italiani, i quali “preferirebbero puntare sull’Europa come forza alternativa sia agli Usa che alla Cina” (dati DISPOC/LAPS e IAI ottobre 2022). Come dargli torto? Infatti, se dovessimo davvero scegliere, forzatamente, fra diventare dei piccoli stati “satellite” (termine geopolitico) di imperi egemoni come Russia, Cina o Stati Uniti, oppure tentare di costruire una nostra Terza Via europea, autonoma e politicamente credibile, non vi è dubbio che la seconda ipotesi sia quella da preferire. Da realizzare. Ma è realisticamente possibile? Un sistema politico europeo indipendente, non eterodiretto né dall’una né dall’altra superpotenza, è immaginabile?
La fiducia degli italiani non durerà per sempre. Anzi, a ben vedere, si sta rapidamente sgretolando. In quanto questa Unione europea, questa forma affaristica che è l’Unione europea, sta dimostrando anno dopo anno la sua vera identità anti-comunitaria. Ed è questo il vero problema di dimensione epocale a cui stiamo andando incontro. Proviamo a pensare a cosa succederebbe se dovesse farsi ancora più drammatica la situazione bellica internazionale; se un giorno dovessimo davvero essere costretti a scegliere, obtorto collo, fra il modello imperiale cinese e il modello militare-consumistico statunitense? Ovviamente, alcuni di noi hanno già scelto da quale parte schierarsi. Mentre ancora pochi, purtroppo, si danno da fare affinché questa scelta possa non essere l’unica mossa obbligatoria.
Per favorire l’ipotesi politica di un’autentica Terza Via, però, dovremmo innanzitutto riportare in vita nel dibattito pubblico la critica spirituale che autori come Pico della Mirandola nel Rinascimento e Karl Jaspers a metà del Novecento hanno proposto sotto il nome di “spirito europeo”. Uno spirito che, come scriveva Jaspers, abbraccia tanto Omero quanto la Bibbia; tanto Platone quanto Dante; tanto Gerusalemme quanto Roma. Tutti argomenti, questi, oggi marginali e secondari. Quindi, al di là delle sterili polemiche sanremesi, le quali sono scaramucce di passaggio, abbiamo urgente bisogno di occuparci di ciò che una volta si sarebbe chiamata “cultura politica”. O, più semplicemente, Pensiero! Dobbiamo pensare in grande per non essere “satellite” né “colonia” di nessuno. Dobbiamo farlo insieme, con coraggio, se vogliamo uscire dalla polarizzazione e dalla famosa e famigerata sindrome dei “due blocchi”, entro la quale ci vorrebbero tenere intellettualmente in ostaggio ma che non possiamo in nessun modo permetterlo.
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