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Elogio della storiografia

Nel 1938, Benedetto Croce, rispondeva alle grandi sfide del proprio tempo, scrivendo La storia come pensiero e come azione.
Il libro nasceva dall’esigenza di aguzzare l’ingegno e acuire la penna in risposta all’avanzata dei totalitarismi e dei suoi lacchè.
Infatti Croce viveva in prima persona la grande crisi dell’impianto teoretico del pensiero liberale, a cui aveva dedicato tutte le proprie fatiche, dopo il fallimento della sua più compiuta realizzazione pratica (la Repubblica di Weimar), sostituita precipitosamente dall’irrazionalismo politico della “volontà di potenza” del nazionalsocialismo.
Pertanto sentiva la necessità di rafforzare il proprio grido di libertà e al tempo stesso condannare l’immobilismo di tanti intellettuali servili al fascismo.
A primo impatto, anche la scelta storicistica dello stesso Croce sarebbe potuta apparire come conservatrice o quantomeno pauci-politica, in una rinunzia all’attività dal sapore di ripiego su stessi, quasi in una ricerca spasmodica della parresia.
Invece tale posizione è più simile alla sallustiana “maius rei publicae commodum ex meo otio“.
Infatti la polemica verso i fascismi, ma anche contro i sofismi scientisti e materialisti, metteva in evidenza la funzione pratica del testo e del suo utilizzo.
Oggi allo stesso modo, difronte al dilagare di questioni di difficile soluzione, la scelta di ricorrere alla critica storica può diventare una strada praticabile, anche in virtù della momentanea occlusione dei campi della politica attiva partecipata.
Pertanto procederò alla disamina di due autori cardine del pensiero storiografico del Novecento, mettendoli in contrapposizione, dimostrando come la storia e la storiografia possano da un lato aprire la mente criticamente verso la realtà e dall’altro possano costituire uno strumento ideologico-egemonico per difendere strenuamente lo status quo, anche nelle sue forme più aberranti della disparità biologica, della disuguaglianza sociale e perfino della guerra totale.
1.La pretesa di proporre la storia come modello filosofico, o quantomeno come insegnamento di vita, non è completamente campata in aria e già in epoche molto remote si riteneva di poter trarre giovamento e sapienza dal passato, indipendentemente dal fatto che si aderisse ad una soluzione lineare della storia come progresso (Hegel) o ad una prospettiva circolare di eterno ritorno (Nietsche) nell’eco vichiano dei corsi e ricorsi storici.
Infatti già la selezione del materiale da sottoporre alla ricerca impone una ferma scelta d’impostazione che produce effetti sostanziali sul piano del risultato finale, cosa che non si può negare nemmeno nel più teorico degli storici, o in storici che scelgono scientemente di trattare eventi apparentemente avulsi dalla realtà circostante e che invece hanno segnato profondamente la società di un’epoca e di quelle a seguire.
Pertanto la dizione di neutralità e di scientificità ancor meno si addice a chi decide di fare filosofia con la storia come accade nel Durant de Le lezioni della storia[1].
Non convince affatto il postulato secondo cui si stia adoperando per una scienza della storiografia, la sua adesione al positivismo ne fa, invece, trasparire una precisa scelta di campo che ammanta l’intero racconto.
Ed inutile e dannosa si dimostra essere l’applicazione del metodo sperimentale al sapere storico, in quanto risulta essere una lettura semplicistica secondo una dinamica causa-effetto che non tiene conto del soggetto, dei suoi desideri, i suoi impulsi, le sue passioni e le sue illusioni, oltre che di una innegabile dimensione metafisica.
Alla storia non si possono applicare criteri diagnostici medici né categorie delle scienze naturali, altrimenti si correrebbe il rischio effettivo di una “storiografia psicologica” che sprofondi in uno scientismo adornato di preconcetti naturalistici e in definitiva apra le porte a razzismi biologici e sociologici.
Infatti Croce rifugge subito da un’idea di purezza della storia e dalla possibilità di applicare ad essa il metodo scientifico, in quanto la immerge nella necessità ineludibile del problema storico dalla quale sorge, ma conservandone la sua portata relativa e sganciandola dalla concettualizzazione filologica, senza perdere di vista il reale e la militanza etico-filosofica, anzi non ammettendo una filosofia senza storia, ma solo una filosofia dentro la storia.
Se è vero “che per narrare la storia bisogna innalzarsi sulle passioni e allontanare idee e giudizi preconcetti”, è altrettanto falso “che si debba narrarla fuori da ogni compartecipazione alle lotte della vita e scansando ogni compromissione filosofica”.
La storia diviene così immanente alle cose del mondo, alle quali prepara e rinvigorisce l’azione, proprio in virtù del fatto che è rappresentazione di un bisogno morale.
La storiografia non si staglia nello spazio delle idee fini a se stesse, ma queste sono raffigurazioni effettive del reale che la storia ne dà.
Grande è l’opera che il Croce si prefigge di realizzare, ovvero quella di erigere una storia morale, una storia unidirezionale della libertà, tuttavia calzante appare la critica sollevata da Ugo D’Andrea, secondo cui, in una lettura di tal fatta, anche il fascismo avrebbe, a posteriori, giustificazione di esistere e si considererebbe fase necessaria (parentesi) verso il conseguimento dell’obiettivo.
Almeno, ciò va detto, in questo modo evita la tentazione di altri di ricondurre la libertà alla contingenza, alla contingenza politica che si vuole difendere, anche se finisce per accomunare, sullo stesso piano e sotto la formula grossolana di “materialismo storico”, diversi orientamenti che meritano tutt’altra attenzione.
Dunque Croce fa leva sull’elemento dialettico, speculativo, pertanto filosofico della storia per porre l’accento sul momento culturale che si contrappone alla logica della forza, della legge e in ultima battuta dello Stato, accettando, invece, la necessità storica, e declinando essa in chiave di vitalità.
In questo appare in Croce l’adesione alla concezione egemonica della politica, intesa come creazione del consenso, ma che non contempla la praxis (a differenza di Gramsci che appunto contrappone la propria dottrina che definisce etico-politica a quella di Croce che è speculativa), permettendogli dunque di espellere completamente il momento necessario del conflitto per costruire un paradigma storico che ne fa a meno.
La storia d’Italia la fa partire dal 1871, dopo le guerre d’indipendenza, quella d’Europa addirittura dalla restaurazione del 1815, rimuovendo l’epoca della rivoluzione francese e quella napoleonica.
Croce è talmente preso dalla costruzione del suo metodo da perdere di vista i suoi più importanti avanzamenti nel campo della storiografia e ciò per mantenere un’unità dialettica di pensiero che gli fa dimenticare il piano dell’azione che pure appartiene a lui.
Dunque, in ultima battuta, nonostante la dimensione di unicità della storiografia nel novero delle arti e delle scienze, questa non vive appartata dalle altre, anzi riconduce le altre ad unità in una storia dell’uomo e della civiltà che è propriamente la Storia etica, evitando di provocare un riduzionismo unitario di una storia che guarda ai particolarismi e agli individualismi.
Croce sceglie di percorrere una strada accidentata e faticosa che è quella della costruzione di una profonda identità soggettiva di stampo liberale, anche correndo il rischio di subire delle aspre critiche, ma facendolo in maniera ben consapevole dell’importanza della posta in gioco.
Differentemente Will e Ariel Durant adottano una posizione di comodo, secondo un punto di vista monista e imperialista.
Nel nome di un innato liberalismo e di un forte progressismo, nascondono, in realtà, tutto un substrato di ipocrisia, oscurantismo e conservatorismo che son ben visibili ad un lettore non accecato da fanatismo ideologico.
Ideologia, appunto, ideologia dell’Occidente (unico grande errore dello Hegel), nemmeno del moderno, perché non lo concepiscono e non lo vogliono concepire politicamente, la storia dei Durant non è etico-politica, ma, al contempo, è profondamente ideologica, non ammette relativismo alcuno, la storia che raccontano è fatta di assoluti.
Da grandi prestigiatori della parola e manipolatori del pensiero, scelgono e selezionano accuratamente gli avvenimenti che giustifichino ex post tutte le posizioni adottate da un preciso modo di pensare e governare (storia di tendenza).
Infatti se si tiene conto solo degli avvenimenti economici della Storia, o addirittura innalzando l’Economia alla pari della metafisica, è abbastanza chiaro che vedremo la storia come una Storia dell’economia secondo un determinismo economicistico e secondo una teologia dell’economico, pure se, come abbiamo già visto, in Durant, rifuggendo dal moderno, non vi sarebbe nemmeno un surrogato immanente e secolarizzato dell’auctoritas.
E bene fa Croce a criticare il determinismo marxista e Gramsci a rifuggirlo, il quale, pur riconoscendosi nella corrente di pensiero del materialismo economico, considerava la rivoluzione russa un miracolo e non l’effetto necessitato della rivoluzione industriale (Marx pensando alla rivoluzione si rivolgeva alla più potente economia del secolo, ovvero l’Inghilterra, non certo alla ruralità della società russa).
In ciò, i Durant sono bravissimi nell’utilizzare e forzare ogni avvenimento di qualsiasi epoca a proprio uso e consumo, così la povertà diviene un’abitudine negativa, mentre la competitività verrà considerata un elemento psicologico positivo come lo sono anche i sentimenti di rabbia e orgoglio, al contrario dell’umiltà.
Arrivano perfino a sostenere e difendere la guerra nella banalità della sua esistenza sempiterna(e chi può dar loro torto), così lungi dal prendere ogni posizione di sorta sul tema, si nascondono dietro lo schermo della bella favoletta del filosofo e del generale, senza prender(La guerra) sul serio nello scacchiere geopolitico internazionale (“Gli Stati Uniti devono assumersi il compito di proteggere la civiltà occidentale dai pericoli esterni”, ovviamente tutto questo lo fa dire al Generale, mica si prendono la responsabilità di affermare una cosa del genere!!!).
Finiscono per disseminare perle lungo tutto il percorso: il contratto sociale non esiste, esistono solo ordine e controllo, poi tutta questa forza va legittimata, altrimenti sarebbe solo violenza senza limiti (inoltre gli autori confondono continuamente i due termini forza e violenza, utilizzandoli come sinonimi).
Infatti Hobbes è ben conscio che il potere origina nel caos della sovranità, deriva dal miracolo teologico-politico che neutralizza e forgia, mica dal negoziato privatistico di soggetti di pari forza, però poi la rappresentazione del corpo unitario va artificialmente costruita altrimenti non si riuscirebbe più a governare tutto questo disordine.
E ancora proseguono, nella profonda banalizzazione di Hegel, nel quale la sintesi viene ricondotta ad una stabile e a-conflittuale riconciliazione che non conosce il negativo e soprattutto non ammette ripensamenti.
Tutto questo ricorda tanto le filosofie della fine della storia che vedevano nel crollo del blocco socialista sovietico lo sbocco naturale della neutralità tecnica ed economica del capitalismo, senza tener conto né del mondo multipolare né dell’assenza assoluta del concetto politico del moderno in quei paesi.
Mi pare che la Storia che ci presentano i Durant sia statica, proprio perché è una lettura a posteriori delle realtà storiche, partono da un dato di fatto incontestabile ed incontrovertibile che è la superiorità del loro mondo in un determinato tempo ed in un determinato luogo.
Ovviamente anch’io sto facendo consapevolmente uso d’ideologia, in una accezione irrinunciabile di essa, selezionando parti di un testo che poco mi convince per impostazione e contenuti e non certo per un passatismo o un relativismo che non mi appartengono, ma per prendere sul serio la storia, non come modello concettuale astratto, ma nella sua natura strettamente politica e pertanto reale e vivente.
2.Pertanto disquisire di storia non ha un valore meramente retorico, ma ha risvolti pratici di notevole impatto.
In definitiva assume tutt’altra rilevanza discorrerne dinanzi alla spaventosa e turbinosa avanzata di tempi apocalittici, in cui questa ci aiuta a viverli e al tempo stesso a rifuggirli, trovandovi in essa riparo, in quanto ultimo baluardo identitario e valoriale al progressivo imbarbarimento e impoverimento del pensiero portato avanti da alcuni movimenti culturali (si pensi alla cancel culture nei paesi anglofoni).
Dunque a poco giova l’esercizio accademico di classificare la stessa in termini di periodi e sue caratteristiche, anche perché non esiste una sola Storia con la maiuscola e nemmeno un periodo privo di ombre o uno di soli bagliori.
Infatti se aderiamo all’idea della storia come linearità dobbiamo subito aborrire la logica di una storia come avanzamento o progresso, o di una sua rotta tutta europea/occidentale, in quanto bisognerà tener conto delle contraddizioni e dei fallimenti a cui si è andato incontro e ancora si andrà, proprio perché questa opera per frammenti anche nella sua dimensione liberale.
Questa linearità è ammissibile, al massimo, politicamente, come processo di secolarizzazione, ovvero per il tramite della concettualizzazione escatologica della saga del Crepuscolo degli Dei (Götterdämerung), di una storia che è fuoriuscita dal mito, immanentizzazione nel Cristo e infine adesione al relativismo, di forma (come luogo di discussione) e non etico (nel senso deteriore del nichilismo).
Al contrario non ha alcun senso parlare di circolarità della storia se questa non è presa sul serio e non serva affatto da monito per il futuro e da sprono all’azione seppure nella consapevolezza dell’unicità di ogni momento che è prodotto della viva vita che sempre crea e sempre distrugge.
Perché “solo una vita fermentante senza impedimenti immagina mille nuove forme, improvvisa, emana una forza creatrice”[2], così da poter prendere piena contezza che “tout change” affinché il nuovo mondo si disveli e si “alzi un grido al ciel tonante” di libertà.
[1] W. Durant, A. Durant, Le lezioni della storia, Edizioni Settecolori, Milano, 2023;
[2] R. Luxemburg, La rivoluzione russa in Scritti scelti, Einaudi, Torino, 1975, pp. 599-601;
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