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“I facitori della Parola”: 30 anni senza don Peppe Diana


19 Mar , 2024|
| 2024 | Visioni

‹‹Sapeva bene che non sono gli uditori, ma i facitori della parola a essere giustificati davanti a Dio››[1]: forse questa affermazione è quanto di più fedele e pertinente si possa dire intorno alla carismatica figura di don Peppe Diana. Un uomo di azione, ma innanzitutto un sacerdote fedele al suo ministero, che fu barbaramente ucciso dalla camorra ormai 30 anni fa a Casal di Principe: il 19 marzo 1994, a soli sei mesi dalla morte di don Pino Puglisi. Di facitori della parola in talare la nostra storia è piena: già nel 1915, tra le macerie del terremoto della Marsica e alla presenza del re, un uomo pieno di energia, don Orione, spingeva sulle macchine dei carabinieri degli orfani che aveva trovato nella disperazione di quei giorni, per portarli poi a Roma. Non aveva alcun permesso e la cosa suscitò scalpore tra le autorità. Si rivolse, così, direttamente al re, convincendolo della bontà della sua azione. Nella folla ad assistere c’era anche uno dei futuri grandi scrittori del Novecento: Ignazio Silone, che si disse commosso davanti a un tale episodio di coraggio e di bontà. Ma andando più vicino ai nostri giorni, è ancora fresca la memoria della figura pedagogica di don Milani, che raccolse i ragazzi che oggi a scuola si etichetterebbero come “a rischio dispersione”, senza tentare di imbrigliarli in maniera tentacolare in un’istituzione che non faceva altro che mortificarli, per poi rigettarli rimaciullati e mortificati nella bassa classe di appartenenza. Lettera ad una professoressa è un grande tentativo di emancipazione, perché vuole dare voce al silenzio dei montanari. In quelle pagine è una nozione centrale, che però ‹‹è difficile da spiegare›› poiché non indica una remissività, la passività con cui si accettano le ingiustizie, una mancanza di coraggio, ma solo un’assenza di prepotenza.

È il silenzio delle classi subalterne il trait d’union dei facitori della parola: è a questo silenzio che loro cercano di dare voce e coraggio, ben sapendo che non si tratta di convertire, né di inventare chissà quali parole, ma solo di risvegliare, sabotare il circolo di violenza e di sfruttamento in cui sono immersi. Sabots: erano gli zoccoli che gli operai tessili licenziati utilizzavano per bloccare le macchine; i facitori della parola, però, usano altro: la parola per l’appunto.

Nicola Alfiero, sodale di don Peppe Diana, ha ben descritto il loro operato con un famoso detto del prete di Barbiana: ‹‹fare strada senza farsi strada››[2]. Il loro lavoro quotidiano di assistenza alla fragilità poneva al centro la rimozione degli impedimenti culturali, economici e sociali che determinavano condizioni di abiezione. Fare strada – implica innanzitutto un lavoro sul contesto in cui gli uomini si trovano a vivere. Ma qual era il contesto in cui ha operato don Diana? A tal riguardo sono preziose e icastiche le parole di mons. Raffaele Nogaro, già vescovo di Caserta e suo fedele compagno di lotta alla malavita:

‹‹La camorra in Campania, con la sua oppressione, impedisce prima di tutto le riforme strutturali, indispensabili per organizzare la speranza del futuro. E le prime vittime designate sono i giovani. Ancora, la camorra procura le dimissioni di ogni imprenditoria intelligente e produttiva, soffoca una politica che crei progetti, stabilisca obiettivi e dia la spinta alla soluzione dei problemi. A causa della camorra, una politica così concepita appare oggi del tutto impensabile. Una simile situazione provoca una serie di nefaste conseguenze sociali. Tra le prime, il bene comune che viene inevitabilmente confuso col bene privato, con la corsa individuale ai propri interessi, al proprio tornaconto, senza pensare a chi ha bisogno, al più debole; mentre il degrado, il sottosviluppo e la disoccupazione non fanno che incrementare l’emigrazione dei giovani volenterosi››[3].

Sulla povertà e sulla disoccupazione si consolidano mentalità clientelari e padronali che non è facile scalfire. L’una e l’altra si autoalimentano e si rinforzano. Ciò che, però, risulta dinamitardo per tale circolo vizioso è, secondo Nogaro, ‹‹l’imprenditoria morale›› e ‹‹l’organizzazione dei valori e soprattutto il coraggio dei volontari››. ‹‹Soltanto i grandi ideali possono maturare una controproposta alla malavita. E quando i grandi ideali si traducono in progetti di cultura della vita, di giustizia sociale, di promozione civile delle masse, allora le arroganze mafiose si intimoriscono e diventano barbaramente aggressive››[4].

Non è per velleità eroiche che don Diana si è opposto alla camorra, ma per restare fedele fino in fondo al suo ministero pastorale. Nel famoso manifesto Per amore del mio popolo non tacerò sono infatti le Sacre Scritture ad essere citate: ‹‹Il Profeta fa da sentinella – si legge – vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio››[5]. Non cedendo sulla propria missione, don Diana si è inevitabilmente scontrato con il potere criminale, poiché mortifero, ingiusto, ostile alla vita e ai dettami della fede.  

L’episodio che segna uno spartiacque nell’operato di don Diana è senza dubbio la morte di Angelo Riccardo, una giovane vittima di un agguato camorrista, senza alcuna colpa ed estraneo alle logiche di clan. Da quel momento in poi, don Diana pone come interlocutori privilegiati del suo messaggio evangelico i giovani: è con loro che riesce a stabilire un legame profondo e sono pressoché gli unici a pronunciare ad alta voce la parola “camorra” durante i suoi funerali. Don Diana donò loro il coraggio di chiamare le cose con il loro nome in un generale clima di omertà e paura.

Nel pieno della faida tra i clan De Falco e Schiavone, don Diana cerca di togliere il nettare vitale alla malavita: i giovani. Organizza incontri e attività, va nelle scuole, cerca di far capire loro che un altro futuro è possibile. Allo stesso tempo, toglie i sacramenti ai malavitosi: laddove intuisce che il sacramento è funzionale ad un processo di affiliazione e “consacrazione” alla gerarchia camorrista, don Diana fa sentire il suo forte – no.

Quello che nel corso degli anni don Diana mette in atto è un vero e proprio sabotaggio agli occhi della camorra. È sul campo dell’educazione che tutto ciò avviene. Afferma al riguardo mons. Nogaro: ‹‹Eravamo entrambi convinti che la camorra si poteva battere, a patto che ci fosse una sollevazione delle coscienze che avranno in mano il futuro della nostra società. Don Peppino ci credeva molto in questa nostra strategia della formazione, pur essendo consapevole di avere di fronte un nemico forte, spietato, senza scrupoli, che soffoca e blocca qualsiasi tentativo di sviluppo e di partecipazione››[6].

La morte di don Diana ha messo sin da subito sotto i riflettori nazionali l’area di Casal di Principe. La malavita è stata costretta a riorganizzarsi, ma non altrettanto è accaduto alla Terra di Lavoro, che è rimasta succube della sua povertà occupazionale. Nicola Alfiero scrive infatti: ‹‹Quello però che ci preoccupa tantissimo è che a questa pars destruens non è seguita una pars costruens attraverso l’impegno, per fare in modo che sul territorio ci siano delle realtà produttive, perché come può la popolazione uscire da questi problemi se non c’è progresso, se non ci sono alternative al lavoro edile che c’era prima?››[7].

Cinque anni fa Alfiero tornava sul problema: ‹‹Spesso ci si chiede: chi è venuto nel territorio ad aiutarci? A supportarci? A proporre investimenti produttivi? Di azioni di sviluppo non si sono viste tracce! Quale istituzione pubblica, a 25 anni dalla morte di don Peppe è venuta a offrirci aiuto o collaborazione per tirarci fuori dal sottosviluppo e dalla disoccupazione che sfiora il 70% della popolazione attiva? Il territorio ha urgente ed estremo bisogno di insediamenti produttivi per poter risorgere veramente e cambiare. C’è bisogno di risposte adeguate alle legittime domande occupazionali di giovani disoccupati. Diversamente, le azioni positive sul territorio non daranno buoni risultati in mancanza della possibilità di poter produrre autonomamente ricchezza››[8].

E ora, ci si chiede, a 30 anni della morte di don Diana: qualcosa è cambiato?


[1] R. Nogaro, Il ministero del sangue, in AA. VV., Terra di lavoro, a cura di A. Colletti e G. Fofi, Edizioni dell’Asino, Milano 2020, p. 24.

[2] Cfr. N. Alfiero, Fare strada senza farsi strada, in op cit., p. 121.

[3] R. Nogaro, op. cit., p. 37.

[4] Ivi, p. 25.

[5] Ezechiele 3,16-18.

[6] R. Nogaro, op. cit, p. 32.

[7] N. Alfiero, Fare strada senza farsi strada, in op. cit., p. 130.

[8] N. Alfiero, Don Peppino Diana 25 anni dopo, Rivista Gli Asini, n. 60. Disponibile al link: https://gliasinirivista.org/don-peppino-diana-25-anni/

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