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La trinità dell’austerità


4 Apr , 2024|
| 2024 | Visioni

Se si raffigura il capitalismo come un organismo complesso, è consequenziale intendere il neoliberismo come il suo modus vivendi ottimale e l’austerità come il suo sistema immunitario. L’austerità è infatti, come insegna Clara E. Mattei nei suoi “Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo” (Einaudi, 2022) e “L’economia è politica” (Fuori Scena, 2023), un insieme di politiche volte alla salvaguardia dei rapporti di produzione capitalistici e atte a costringere il popolo a produrre di più e a consumare di meno; le misure di austerità sono propugnate da caste di economisti neoclassici, che mirano a condizionare la politica economica perseguita entro l’ordine politico e, quando riescono in simile intento, giungono a costituire una vera e propria tecnocrazia. “Produrre di più” implica accrescere la quota di plusvalore destinata al capitale, soprattutto quando questo imperativo è collegato a quello di “consumare di meno”, che presuppone il contenimento salariale e mira in ultima analisi a garantire la stabilità dei prezzi e dunque a evitare spirali inflative, così da garantire profitti ai risparmiatori-investitori. Si noti come il “produrre di più” è strumentale a garantire i profitti di chi investe in (e movimenta) capitale di rischio, cioè è titolare di azioni o comunque quote sociali, mentre il “consumare di meno” è funzionale a salvaguardare le rendite di chi investe in (e movimenta) capitale di debito, cioè obbligazioni (di Stato e non). Le misure di austerità incidono in tre distinti settori della politica economica: monetaria, fiscale e industriale.

L’austerità monetaria consiste in misure deflative (cioè di abbassamento dei prezzi) volte a rendere il denaro “caro” e l’accesso al credito difficoltoso: in pratica la banca centrale alza il tasso ufficiale di sconto, cioè il tasso al quale presta il denaro alle banche commerciali, provocando un innalzamento generalizzato dei tassi di interesse. Si noti che l’apprezzamento della valuta che ne deriva sembrerebbe dover rendere le merci nazionali poco appetibili sui mercati esteri, ma su questo punto torneremo in seguito. Quel che conta rilevare adesso è che gli investimenti vengono scoraggiati, l’occupazione cala e si tira appresso i salari: si ingrossano le fila dell’esercito industriale di riserva.

A livello fiscale, l’austerità si sostanzia, dal lato delle entrate, in una tassazione proporzionale (c.d. flat) se non regressiva: verranno quindi introdotte imposte proporzionali sui consumi, tanto più elevate quanto più tali consumi siano particolarmente diffusi tra i ceti popolari, e sarà rimodulata l’imposizione sul reddito delle persone fisiche, mitigando o azzerando la progressività: quest’ultima strada è percorribile sia mediante l’istituzione di una flat tax sul reddito complessivo delle persone fisiche sia assoggettando a imposte sostitutive, con aliquote più basse di quelle ordinarie, determinati redditi, in particolare quelli di capitale. Dal lato delle uscite, l’austerità fiscale si incarna nel vincolo del pareggio di bilancio e dunque nel taglio della spesa pubblica, che, oltre all’evidente effetto primario di diminuire il livello di soddisfacimento dei diritti sociali, ne comporta altri due da non sottostimare: in primo luogo, la perdita di posti di lavoro pubblico, con l’ingrossamento delle fila di chi offre il proprio lavoro al capitale privato e dunque delle fila dell’esercito industriale di riserva, e, in secondo luogo, la riduzione della domanda aggregata, che contribuisce a portare l’economia sulla strada della recessione: se lo Stato spende di meno, si riduce anche il relativo indotto, cioè il lavoro di chi vive di commesse statali e di forniture allo Stato. Spesso e volentieri, inoltre, lo Stato persegue il pareggio di bilancio privatizzando imprese pubbliche.

L’austerità industriale consiste invece nell’aumento della produttività, concetto distinto dalla produzione e indicante il profitto ritraibile da ciascuna unità produttiva. Per aumentare la produttività è possibile intraprendere tre strade: migliorare le tecnologie impiegate nei processi produttivi; intensificare i processi medesimi; abbassare i salari. È evidente che in un contesto di “denaro caro”, risultando i prestiti bancari molto onerosi, gli investimenti tecnologici sono scoraggiati e allora il capitale punterà sull’intensificazione dei ritmi di lavoro, magari ricorrendo alla sorveglianza (sempre che i suoi costi siano compatibili con i calcoli di efficienza), e soprattutto sulla deflazione salariale, perseguibile anche prolungando l’orario lavorativo a parità di salario e dunque riducendo la paga oraria. Completano il quadro dell’austerità industriale tutte quelle normative volte a deregolamentare il lavoro e a frapporre ostacoli alla militanza dei lavoratori.

L’applicazione della formula trina dell’austerità deprime l’economia, innescando disoccupazione e un andamento deflativo sia dei salari che dei prezzi. D’altro canto, aumenta il tasso di sfruttamento, cioè il rapporto tra la quota del reddito nazionale destinata al capitale e la quota del reddito nazionale destinata alla forza lavoro: questa variazione arride ai risparmiatori-investitori nel mercato del capitale di rischio, che vedranno incrementarsi gli utili societari; inoltre, la moneta si apprezza: potrebbero derivarne ripercussioni deleterie sull’equilibrio della bilancia dei pagamenti, cioè per il saldo dei rapporti commerciali con l’estero, ma il calo dei prezzi interni è tale non solo da compensare l’inasprimento del tasso di cambio della moneta nazionale ma anche da rendere appetibili le merci nazionali sui mercati esteri. La stabilità del valore della moneta (e dunque dei prezzi) è fondamentale per garantire rendite profittevoli ai risparmiatori-investitori nel mercato del capitale di debito, che non vedranno il denaro immobilizzato nei prestiti perdere potere d’acquisto e ne lucreranno gli interessi senza che questi siano erosi dall’inflazione.

Clara E. Mattei illustra come l’austerità presuppone la depoliticizzazione dell’economia, ovvero la rinuncia dello Stato a perseguire l’obiettivo della piena occupazione, la “sottra[zione delle] decisioni economiche allo scrutinio democratico, soprattutto istituendo e proteggendo istituzioni economiche «indipendenti»” quali banche centrali sollevate dai diktat governativi, e la configurazione dell’economia quale scienza oggettiva e neutrale, trascendente i rapporti di classe. Nella storia del capitalismo le misure di austerità fecero la loro apparizione al fine di contrastare le rivendicazioni avanzate dalle masse lavoratrici di Italia e Gran Bretagna durante il biennio rosso (1919-1920) successivo alla fine della Grande Guerra; l’esperienza della Prima Guerra Mondiale aveva infatti mostrato alle masse come lo Stato potesse intervenire per disciplinare l’economia “e quindi come fosse effettivamente possibile attuare importanti riforme redistributive, molto più di quanto il pensiero economico convenzionale ammettesse”. Le proteste operaie si erano spinte ben oltre le posizioni dei c.d. ricostruzionisti, cioè di coloro i quali, pur non volendo smantellare le gerarchie di classe, intendevano introdurre riforme sociali perequative (fra tutte, ricordiamo la costruzione di alloggi sociali in Gran Bretagna e l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria contro disabilità, vecchiaia e disoccupazione in Italia). I lavoratori erano infatti pervenuti a revocare in dubbio la proprietà privata dei mezzi di produzione e i rapporti salariali: non solo richiedevano aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro, ma anche la nazionalizzazione delle industrie e la partecipazione al controllo del processo produttivo, che avrebbe dovuto essere condiviso tra lavoratori e Stato (“[l]a nazionalizzazione in sé, infatti, non garantiva l’abolizione del sistema salariale”). Sia in Italia che in Inghilterra si diffusero esperienze di produzione co-gestita dai lavoratori, che avevano collettivizzato tra loro i mezzi produttivi: rispettivamente le cooperative e le ghilde (“guilds”), operanti in particolare nel settore edile; inoltre, in entrambi i Paesi durante il biennio rosso vi furono massicci scioperi, coordinati dai neocostituiti consigli di fabbrica, e in Italia anche numerose occupazioni di fabbriche, dirette a affermare “una produzione industriale libera dalle gerarchie e gestita dai lavoratori”.

La reazione del capitale non tardò a arrivare; nella liberale Inghilterra essa assunse le forme della tecnocrazia incarnata dalla Banca d’Inghilterra, istituzione indipendente dal governo e perciò “«libera» di imporre l’austerità senza mai doversi «spiegare», «rammaricare» o «scusare»”, mentre in Italia le vesti del fascismo.

Clara E. Mattei mostra l’inquietante connivenza del liberalismo inglese con il fascismo italiano: la dittatura di Mussolini non imbarazzò le classi dominanti britanniche, che vedevano nel Duce il pugno di ferro capace di imporre l’austerità con la coercizione; all’Inghilterra conveniva che – grazie alle politiche di austerità – la lira si apprezzasse perché l’Italia all’epoca era debitrice della Gran Bretagna, così come all’Italia giovava l’apprezzamento della propria moneta nella misura in cui avrebbe propiziato la disponibilità della Gran Bretagna a rifinanziare il debito; inoltre, la rivalutazione della lira avrebbe impedito all’Italia di invadere con i propri prodotti a prezzo ribassato il mercato britannico.

La mano violenta di Mussolini non incontrò nemmeno il biasimo dei liberali di casa nostra: gli economisti Umberto Ricci e Luigi Einaudi concertarono le politiche economiche fasciste assieme agli economisti, organici al regime, Maffeo Pantaleoni e Alberto De’ Stefani. Rimando alla lettura di “Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo” per una completa ricostruzione delle politiche di austerità messe in atto dal Duce e dalla sua conventicola di economisti, dalle privatizzazioni su larga scala (austerità fiscale) all’aumento del tasso ufficiale di sconto per tornare a adottare, nel dicembre 1927, un sistema monetario di tipo aureo (austerità monetaria) passando per la messa al bando dei sindacati indipendenti e l’istituzione delle corporazioni (austerità industriale).

La riflessione politica che si può trarre dalla ricerca di Clara E. Mattei è che la tecnocrazia non si fa scrupoli di quale sia l’ordine politico più adatto a rappresentare le sue istanze: basta che questo sia disposto all’applicazione delle misure di austerità, facendo leva sulla costruzione del consenso, mediante la diffusione mass-mediatica di una determinata narrativa, oppure sulla coercizione; nell’Italia degli anni venti del secolo scorso era giocoforza che intervenisse la coercizione, giacché la narrativa intesa a costruire il consenso intorno alle misure di austerità, imperniata sulla rappresentazione dei lavoratori come cicale e sulla retorica del sacrificio delle loro aspirazioni di ascesa sociale in nome del bene comune, non aveva attecchito. Oggi in Europa la tecnocrazia si è incarnata nelle strutture di governo dell’Unione Europea: esse hanno in più occasioni esautorato i governi nazionali dall’autonoma determinazione della propria politica economica, imponendo i diktat dell’austerità a popoli con cui non vantano rapporti di rappresentanza; si è così determinata la depoliticizzazione non solo dell’economia, ma anche dei ceti politici nazionali, degradati a meri esecutori di un disegno più ampio di quello inquadrabile nello Stato-nazione e prontamente rimpiazzabili dai tecnici.

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