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Quattro anni dopo il lockdown: depressione o rivoluzione?
Sono più di quattro anni da quanto è iniziato il primo lockdown, mentre la pandemia si diffondeva in Italia e poi in tutta Europa.
Sono sempre più convinto che quel virus, e soprattutto la gestione politica della pandemia, rappresentino un punto di rottura nella storia dell’umanità.
Ha prodotto conseguenze profonde sulla psiche e sulla società, essenzialmente deprimendole.
Abbiamo introiettato l’idea che tutto può essere sospeso, da un momento all’altro, per una decisione burocratica molto spesso opaca. Abbiamo introiettato l’idea che la nostra vita sia a disposizione di altri, e che quindi non merita di essere vissuta pienamente, in quanto non pienamente nostra. Una vita più simile a una fiction già scritta che a una cosa concreta, inedita, libera.
I dati confermano questa idea: crescita di depressione, soprattutto nei giovani, aumento di atti di autolesionismo, calo delle nascite.
Parimenti, la politica ha vissuto un blocco ematico da quel momento. Tutta la vivacità espressa negli anni 2011-2019 è stata drasticamente bloccata. Il Covid è stato usato come strumento di restaurazione, di potere puro, per bloccare la vivacità sociale e democratica, la partecipazione dei popoli che cercavano un cambiamento.
Mi sembra sempre più chiaro che questa guerra, questo insieme di guerre, non sarebbe stata politicamente accettabile senza la pandemia. Quel tempo è stato la condizione imprescindibile per una svolta militaresca e bellica del nostro mondo.
Mi ricordo, però, che nei primissimi giorni dopo il lockdown sentivo una strana energia nell’aria. Certo, già intuivo i rischi di ciò che sarebbe successo. Ma sentivo anche l’urgenza di un rilancio di vita, di relazione, di comunità, di famiglia, di politica. Proprio quando il mondo moriva, e molte persone morivano, mentre la socialità moriva, bisognava seminare, bisognava concepire, bisognava dare vita. Era un atto sedizioso, insurrezionale. Ma andava fatto. E scrissi una poesia che poi fu introdotta nel mio libro “Un volto da un vuoto”, come la seconda in ordine, e quindi in un posto molto importante.
E penso che quell’intuizione sia giusta. Oggi, ancora di più. Dobbiamo inaugurare qualcosa, dobbiamo sconfessare le voci di morte, dobbiamo isolare la solitudine, dobbiamo lodare. Certo, è opera di visionari, di pazzi, di poeti.
Ma oggi, o diventiamo tutti pazzi visionari, o finiremo male.
O manderemo in carcere o alle scuole primarie queste classi dirigenti criminali, o ci porteranno sul baratro della guerra e del puro nichilismo. Ecco, questa mi sembra la lezione radicale che dobbiamo imparare da questi quattro anni, in un atto di gratitudine ed eversione.
QUANDO L’EPIDEMIA
Quando l’epidemia inizia nella città
tu pianta un seme nel balcone.
Compra gli attrezzi più colorati
e nella terra che profuma di pioggia
scava un nocciolo di pesca
che hai gustato nella polpa e nella scorza.
Quando l’epidemia inizia nella città
fai l’amore con la donna che ami.
Fate un bambino e dategli un nome
da chiamare all’aperto che è già estate.
Quando l’epidemia inizia nella città
tu nella città inizia qualcosa.
E’ così che si sconfigge la morte:
scommettendo altrove.
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Gabriele Guzzi
P.S. Se poi ci rifletto meglio, nella pandemia io mi sono effettivamente sposato, ho concepito una figlia, che è nata, e si è chiamata Vittoria, e questa estate la chiamerò all’aperto.
Buon segno!
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