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La logica dell’attacco iraniano a Israele

Il massiccio attacco iraniano lanciato direttamente sul territorio dello Stato ebraico la notte del 13 aprile ha portato lo scontro tra Teheran e Tel Aviv ad un nuovo livello d’intensità. Circoscritta per anni entro il perimetro delle rappresaglie indirette e delle provocazioni, la rivalità tra i due storici nemici minaccia di stravolgere ulteriormente il panorama strategico mediorientale post-7 ottobre.
In sette mesi lo scenario strategico del Medio Oriente è stato profondamente stravolto come non accadeva da diversi anni, almeno dal 2006 in occasione della seconda guerra tra Libano e Israele. Il pogrom del 7 ottobre pianificato dai miliziani del movimento islamista palestinese Hamas ha riacutizzato il decennale conflitto israelo-palestinese, scatenando la rabbiosa risposta militare israeliana che finora ha provocato la morte di oltre 30 mila civili a Gaza. Ma in Medio Oriente, una volta innescato, il domino degli eventi difficilmente si arresta; e così la situazione è ulteriormente precipitata con la discesa in campo del gruppo ribelle yemenita filoiraniano Ansar Allah – comunemente noto in occidente con il patronimico Houthi dal nome del loro fondatore – che in segno di protesta per i massacri di palestinesi nella Striscia di Gaza ha deciso di sparare razzi sulle navi occidentali e israeliane in transito nello stretto di Bab el-Mandeb.
In questo scenario estremamente complesso, un confronto diretto tra Tel Aviv e l’altro grande attore regionale, l’Iran degli Ayatollah, sembrava una eventualità difficilmente realizzabile. Le ostilità tra i due Paesi erano confinate nel tortuoso dedalo di una guerra ombra che da decenni vede contrapposte le tentacolari milizie filo-sciite armate da Teheran – gli Houthi in Yemen, Hamas e Jihad Islamica palestinese (Jip) a Gaza, Hezbollah in Libano e Kataib Hezbollah in Siria e in Iraq – alle forze armate dello Stato ebraico e ai suoi alleati occidentali, supportati negli ultimi anni da un pugno di paesi arabi (Giordania, Egitto e Arabia Saudita) sempre più preoccupati dalle pretese egemoniche della Repubblica degli Ayatollah.
Ma il raid a Damasco al consolato iraniano – ufficialmente non rivendicato da Tel Aviv e nel quale sono rimasti uccisi il generale di brigata Mohammad Reza Zahedi, alto comandante della forza Quds del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (Irgc) e il suo vice, il generale Mohammad Hadi Hajriahimi – è stato il superamento dell’ennesima linea rossa. La pioggia di missili e lo sciame di droni lanciati da Teheran direttamente contro il territorio dello Stato ebraico la notte del13 aprile nell’ambito dell’operazione True Promise, rappresenta il decisivo salto di qualità nel confronto, oramai non più indiretto, tra i due Paesi.
L’attacco dell’Iran a Israele, con più di 170 droni e 120 missili balistici, è la più grande dimostrazione di forza che Teheran abbia mai intrapreso contro lo Stato ebraico. E per quanto la Repubblica islamica non stia affatto corteggiando la guerra contro il suo storico rivale – per gli Ayatollah con l’operazione True Promise la faccenda potrebbe anche considerarsi chiusa – il rischio di un’escalation è tutt’altro che passato.
Con il respingimento del 99% dei missili iraniani, Tel Aviv ha già capitalizzato un importante successo politico, incassando l’appoggio degli Stati Uniti insieme a quello di Regno Unito e Francia; tuttavia, il Gabinetto di Guerra israeliano non intende rinunciare ad una controrisposta militare nei confronti di Teheran anche a costo di alimentare pericolosamente il circolo vizioso. La scelta di Israele di rilanciare con un’ulteriore dimostrazione di forza al simbolico attacco iraniano – annunciato ben due settimane prima e condito da vistose minacce agli alleati occidentali di Tel Aviv – risponde a ben due necessità. Anzitutto, il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu ha interesse che l’attenzione internazionale e dell’opinione pubblica interna dello Stato ebraico resti alta sullo scontro con l’Iran e lontana da quanto accade a Gaza dove dopo sei mesi di guerra le forze di difesa israeliane sono ancora impegnate a eradicare Hamas.
Inoltre, lo stato israeliano intende sfruttare questa fase di alta tensione con un nemico strategico come l’Iran per concentrare intorno a sé il sostegno internazionale, sia occidentale che arabo. La rappresaglia iraniana – giustificata da Teheran come legittimo esercizio all’autodifesa dopo il bombardamento di una sede diplomatica – ha infatti rafforzato la solidarietà degli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo nei confronti di Israele, percepito come un legittimo attore regionale. Per paesi come Arabia Saudita e Giordania – intervenuti anche nella notte dell’attacco iraniano per intercettare i missili diretti verso lo Stato ebraico – il regime iraniano resta l’attore regionale più impopolare oltre che una seria minaccia alla loro esistenza.
Riad e Amman non hanno alcuna intenzione di rinunciare allo scudo militare (e nucleare) di Israele per proteggersi dalle intimidazioni iraniane che aleggiano sulla casa di Saud dal lontano 1979 quando la rivoluzione khomeinista mise in dubbio la legittimità della dinastia regale saudita. Da parte iraniana, invece, il fuoco di sbarramento del 13 aprile ha permesso a Teheran di guadagnare una piccola quota di consenso tra i paesi musulmani avversari di Israele, scongiurando contestualmente una maggiore perdita di credibilità di fronte agli alleati del crescente sciita. Ma sullo sfondo di questa faida tra i due nemici esistenziali della regione rischia di aprirsi un abisso profondissimo rappresentato dalla guerra aperta. Se, infatti, Israele decidesse di rispondere attaccando direttamente il territorio iraniano la situazione potrebbe andare fuori controllo.
Per anni, l’Iran ha combattuto lo Stato ebraico adottando una strategia ribattezzata dagli strateghi israeliani come” anello di fuoco” e consistente in una guerriglia di attrito e di azioni terroristiche portate avanti meticolosamente da un insieme di attori non allineati tra cui troviamo i già citati Hamas, Hezbollah, e Jip. In risposta a questa alleanza messa insieme da Teheran, lo Stato ebraico ha condotto attività segrete sul suolo iraniano, comprese operazioni di sabotaggio a impianti per la ricerca e lo sviluppo di armi nucleari e attentati a scienziati ed esperti coinvolti nei progetti.
L’attacco sferrato dall’Iran pochi giorni fa ha lasciato in stand-by la logica dell’anello di fuoco, accelerando il cambio di paradigma nel confronto militare tra Teheran e Tel Aviv, innescatosi già con l’attentato compiuto da Hamas. Se, infatti, prima del 7 ottobre l’atteggiamento survivalista di Teheran ruotava attorno al principio della “pazienza strategica”, con l’estendersi delle operazioni delle Idf al Libano contro Hezbollah e alla Siria, adesso i sostenitori della linea dura del regime hanno iniziato a vedere in quella posizione attendista un segno di crescente debolezza.
Nonostante le continue allusioni di ricorrere ad armi non convenzionali nel caso di escalation con lo Stato ebraico, l’Iran non avrebbe alcun interesse ad entrare in guerra diretta con il nemico di sempre come dimostra la simbolica reazione di forza andata in scena il 13 aprile. Inoltre, l’approccio di Teheran focalizzato sul rispondere colpo su colpo agli israeliani, rischia di peggiorare la situazione dei palestinesi a Gaza. Fallito l’obiettivo primario di ripristinare la deterrenza con Israele, l’attacco iraniano può innescare un’ulteriore escalation anche sul fronte della guerra nell’exclave palestinese.
Dopo i fatti del 13 aprile, l’esercito israeliano ha deciso di sospendere l’operazione a Rafah fino a quando la rappresaglia nei confronti di Teheran non sarà portata a termine, ma non intende rinunciare a espugnare l’ultima città santuario della Striscia dove si trova gran parte della popolazione palestinese sfollata. Del resto, Netanyahu ha sempre ribadito che dietro ad Hamas e agli altri gruppi terroristici attivi nella regione c’è Teheran a manovrare; e l’attacco iraniano fornisce un ulteriore occasione a Tel Aviv per riaffermare il principio secondo cui l’esistenza di Israele non è una questione negoziabile in nessun contesto di guerra.
Infine, la rappresaglia di Teheran può rivelarsi piuttosto utile anche per lo stesso Primo Ministro israeliano che ha disperatamente bisogno di prolungare la propria personale sopravvivenza politica. L’attacco iraniano minaccia di coinvolgere sempre più direttamente gli Stati Uniti nella faida tra Teheran e Tel Aviv garantendo a Netanyahu i vantaggi politici e militari della difesa ad oltranza dello storico alleato d’oltreoceano, nonostante la sua reiterata e palese disobbedienza nella condotta della guerra contro i palestinesi a Gaza.
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