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Democrazia o diritti?


20 Mag , 2024|
| 2024 | Visioni

 Che domanda! Ma democrazia e diritti. Potrebbe forse essere diversamente? La Repubblica democratica difende i diritti di tutti, in ogni dove, nell’orbe terraqueo. Ce lo ha spiegato il Presidente Mattarella, qualche giorno fa, nel suo discorso a La Sapienza. Tono alto, tono universalistico, anzi ecumenico. Lo scopo, anche comprensibile, è di non scontentare nessuno (senza riuscirci, tuttavia). Quel che conta è l’apparenza di un’unità che, in concreto, non esiste. E ha meno importanza se poi si fa confusione o se il dire è un poco ambiguo oppure inutile. Per i diritti l’Occidente ha fatto guerra più volte o no? E anche la Rettrice Polimeni ha i suoi diritti e ne ha esercitato uno quando ha accettato di far parte del comitato scientifico di Leonardo spa, gruppo industriale internazionale, che opera nei settori della difesa aerea e spaziale: cioè, armamenti. La questione o le questioni coinvolte sono però più complesse di quel che può sembrare dalle semplificazioni presidenziali.

 Diritti dappertutto e per tutti: è la nostra Costituzione, ci ha rassicurato il Presidente. Ma abbandoniamo il trionfalismo e la retorica di maniera e facciamoci qualche domanda. È sostenibile una democrazia ad alta intensità di diritti? È possibile garantirli e tutelarli tutti insieme? O talora è indispensabile fare delle scelte? Democrazia e diritti procedono sempre nella stessa direzione? In base a quale meta-principio certi Stati (occidentali) esigono il rispetto dei diritti da parte di altri Stati (che non li proteggerebbero)?

 Non so se il Presidente Mattarella o chi collabora con lui si siano posti domande del genere. Ma credo di sì e credo anche che si guardino bene dal formularle pubblicamente. Domande molto scomode, che fanno emergere, dal profondo, le contraddizioni dei nostri assetti politici. Però interrogativi del genere nemmeno emergono dal dibattito pubblico; e delle questioni sottese se ne parla poco o nulla anche nelle università. Proviamo qua a dirne qualcosa, molto sinteticamente.

 I diritti hanno storicamente una matrice individualista e rivendicazionista. L’archetipo è il dominium, la proprietà di diritto romano: archetipo espressione di egoismo. I diritti sostengono un agere rivolto alla soddisfazione di un interesse particolare, talora vitale o nobile, talora meno. Strutturalmente è come leggiamo in Rousseau: i diritti rendono gli individui arbitri di loro stessi e  negano la presenza  di «alcun superiore comune in grado di arbitrare tra essi e la collettività». I diritti generano la produzione di pretese verso lo Stato: «un gran mercanteggiare», secondo Cornelius Castoriadis. Sono esclusori: disposti cioè ad escludere l’altro che si opponga o che opponga il suo diritto. Nutrono l’immaginario collettivo: se l’individuo ha un corredo naturale, ma indefinito, di diritti, facilmente può convincersi di avere un diritto pur quando  non ce l’ha o è molto dubbio che possa averlo. È una metodica che può condurre all’intolleranza. Qualche settimana fa alla cassa di un supermercato un uomo pretendeva dal cassiere i sacchetti gratis perché per un guasto improvviso non era possibile scendere nel garage sotterraneo con il carrello: era convinto di avere diritto a quei sacchetti, il cassiere replicava che non avrebbe potuto darglieli gratuitamente, quasi ne nasceva una rissa. È un fatto vero.

 Intendiamoci, i diritti sono una gran cosa. Ma hanno natura giuridica e il diritto cosiddetto generale, l’ordinamento giuridico comune, ha istituzionalmente la funzione di regolarli, cioè di limitarli. E qui spuntano le contraddizioni: chi ha o pensa di avere un diritto può non accettare, anche in buona fede,  di essere trattenuto nel suo slancio rivendicazionista, nemmeno da una disposizione giuridica .

 Per esempio, l’art. 21 della Costituzione attribuisce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Non pone alcun limite. Ma è lecito occupare, al fine di esercitare la libertà di pensiero, una scuola o un’università? L’art. 21 protegge anche queste modalità di esercizio del libero pensiero? O tra manifestare e occupare c’è una frattura giuridicamente rilevante? Le discussioni, talora molto accese, che in questi giorni si sono agitate in alcuni atenei italiani e nel dibattito pubblico circa le occupazioni studentesche hanno un background del genere. Ma si è preferito oscurarlo e può essere  che sia stata, nella contingenza, la scelta corretta, per evitare ulteriori, pericolose, tensioni. Sbagliato è, però, non affrontare la questione in sede teorica e politica, per opportunismo o calcolo: perché introdurre la questione del limite dei diritti è certo sgradevole e probabilmente implica, per chi la introduca, il rischio della marginalizzazione o dell’isolamento.

 Va comunque introdotta. Penso che abbia ragione chi, in sede teorica, ci ha provato, pur senza seguito, sostenendo che nella società dei diritti (e dei consumi) è tramontata la visione aristotelica dell’uomo e che gli uomini d’oggi parlano principalmente per loro stessi e per i loro gruppi, quasi mai a nome dell’intera collettività. Ma qua sta la ragione e il cuore della democrazia, la cui disposizione è verso l’interesse comune, con la conseguente prevalenza dei legami comunitari. Tutelare qualunque diritto a prescindere e, anzi, moltiplicare i diritti rende arduo, talora impossibile, assicurare la causa della democrazia che sta nella tutela della massa: questa parla, e si impone, attraverso decisioni democraticamente assunte, cioè a maggioranza. Diversamente come può uno Stato democratico assicurare l’ordine se non attraverso il prevalere del principio maggioritario? I diritti, qualunque diritto, hanno la pretesa di imporsi sulla maggioranza. Ma si capisce che deve essere trovato un equilibrio e non si può consegnare diritti e loro modulazione alle sole sentenze dei giudici: questa non è la via democratica che, invece, ha come strumento suo proprio la legge. Dobbiamo avere paura delle leggi democraticamente assunte? Può essere che esse dispiacciano a qualcuno, a certi gruppi, a certi interessi. Può pur essere che siano malfatte. Resta però che la legge, se non è inquinata dalla corruzione (e lo possono essere anche i gruppi che rivendicano i loro diritti), è l’unico strumento attraverso cui far valere l’interesse comune, della maggioranza, talora della larga maggioranza.

 Allora, tornando al caso della Rettrice di Sapienza, sarebbe impropria una legge che, sì sacrificasse il suo diritto, e però imponesse, nell’interesse comune, a chi avesse una responsabilità di governo accademico, e in genere al docente universitario, di non essere parte, anche solo al livello della consulenza scientifica, di qualunque istituzione pubblica e, a fortiori, privata che persegua interessi particolari? Gli studenti occupanti si lamentavano con riferimento a Leonardo spa; e penso che avessero ragione perché da un accademico in genere ci si attende che sia e appaia indipendente.  Ma avevano ragione quando impedivano nei fatti il regolare svolgimento delle lezioni? O piantando una tendopoli nel cortile cinquecentesco di una delle università più antiche di Europa?

 Ubriachi di individualismo e di egoismo, non riusciamo più a percepire la valenza, e la presenza, dell’interesse comune. E i nostri Stati occidentali strumentalizzano democrazia e diritti per perpetuare, con un linguaggio retorico e falsificante, la loro antica pretesa alla supremazia nel mondo. Ecco perché non sono d’accordo con quanto ha scritto ieri su Il Secolo XIX Maurizio Maggiani: il Presidente Mattarella avrebbe una marcia in più perché capace di dire la verità ai giovani. Credo che in genere i nostri dirigenti politici preferiscano non dire la verità, specie ai giovani. Ce ne sarebbe tanto bisogno. Prevale l’interesse all’immobilismo.

Di:

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