La Fionda è anche su Telegram.
Clicca qui per entrare e rimanere aggiornato.
Lettera a Pietro Barbera
Caro Pietro,
ormai mi sembra lapalissiano che gli autori di valore che un tempo sarebbero stati destinati ad Adelphi pubblichino con piccole case editrici, e abbiano notevoli difficoltà nel farsi recensire. D’altronde, una recensione alla tua silloge di racconti, Burocrazie del dolore (Ladolfi) è pressoché impossibile. Troppo complesso il testo, troppo difficile l’analisi di ogni singolo racconto, per esaminarla nel dettaglio ci vorrebbero davvero mesi di studio. Hai costruito un castello che mi ricorda quello di Kafka. Tu scrivi come venissi da un novecento ceco, austriaco, rumeno o francese. Ho pensato a Sebald, e al nostro amato Walser, ma poi ho pensato a Cioran, e indubbiamente a Houellebecq. Incanti è una prosa poetica pregevolissima e molto walseriana, la vera narrazione parte da Profili, e qui fa capolino Houellebecq, in realtà ho pensato a lui tutte le volte che parli di sesso, con quell’intreccio tra erotismo e medicalizzazione, tipo quando sardonicamente dichiari che ciò che una volta era chiamato impotenza oggi è definito disfunzione erettile. Mi piace questa dovizia di particolari medici, che trovo in ogni racconto, come una sottile stilettata foucaultiana alla medicalizzazione – soprattutto psichiatrica – che stiamo tutti subendo in quest’epoca velatamente dittatoriale. Mi piace l’esposizione nuda, oscena del sesso, priva di ornamenti erotizzanti. Detta così, sembra ci sia solo depravazione. Invece il tuo è un libro intenso, psicoanalitico, violento, talvolta insopportabilmente profondo, di quella profondità che fa dire alla gente: ma che vuole questo qui, perché mi vuole tirare fuori questi mostri da dentro? Che mi lasci in pace! Penso a Confidenze bordeaux, in cui a colpi d’ascia psicoanalitica postfreudiana demolisci l’illusione di una coppia: dall’amore al desiderio omicida. Perché finisce l’amore? Forse la vera domanda sarebbe: perché inizia? Perché ci illudiamo ogni volta che un amore possa darsi senza sminuirsi o dissanguarsi nel suo opposto? Perché iniziare? Perché non andare a prostitute? Perché non firmare un contratto a scadenza? Perché non pagare? Dal momento che la verità del desiderio e dell’amore è la vacuità di un’illusione del velo di Maya, per dirla alla Schopenhauer, non dovrebbe esserci scampo. I tuoi titoli sono di un’originalità che sta nel perfetto punto d’intersezione tra melanconia e sarcasmo: Viscosità epilettoide, Frutti di mare, Il sibilare, Un rastrello, Riabilitazioni estreme della bocca, Ordine terminale, Il giogo, Ora di punta, Gli ultimi giorni di Himmler, The fall, Frescura, Endogenus, Segni tangibili, Ispirazione stanca, Clinica del disfacimento. Quest’ultimo molto cioraniano, particolarmente legato al tema del suicidio, in correlazione con la via crucis e gli ultimi istanti di Cristo. Perché il popolo scelse Barabba, ti chiedi? Perché sceglierà sempre Barabba, perché il criminale va benissimo, è il santo a essere un problema, il sacro, il divino, il disprezzato, il suicida. Ho rivisto Burroughs nelle descrizioni dei flash tossici. C’è una tossicità incessante nella tua scrittura, che è allo stesso tempo un punto fermo magnetico che trascina lo scorrere dei fatti, senza un centro, o una significazione possibile. Nei tuoi racconti appare postmodernissimamente impossibile fare un unicum di significante e significato. Non sembra esserci un progetto unitario alla base, i testi non vengono fuori per illustrare una tesi, nascono spontaneamente. Eppure, un legame si ravvisa nel senso del non senso, i protagonisti si arrotolano su sé stessi: non si sfugge alla macchina, diceva Deleuze. Questa ineluttabilità è sia interna che esterna. È particolarmente evidente nella variabile di Himmler, in cui il protagonista deve convertire il dolore in un suo dolore fisico andando in bagno e facendosi dei tagli; poi arriva all’oltraggio, fino alla sostanziale violenza ai danni di una ragazzina. Tra i temi sicuramente è molto presente quello della prigione della coppia, è un tema, ma non è voluto fin dall’inizio, mi dici. L’aspetto stilistico è il deragliamento iniziale di ogni racconto; in Sibilare è un continuo svisare del ragionamento, che prende una direzione – una scrittura sull’atto di scrivere – poi imbocca naturalmente un sentiero narrativo, per certi versi casuale. C’è un racconto in cui il protagonista prende i preservativi di una prostituta e li getta davanti al Centro Aiuto. In ogni racconto vi è uno smarrimento iniziale, che si traduce nel trasmettere un senso di simultaneità o sincronicità; l’espressione che usi è quella della senescenza di un affresco, dell’impossibilità di comporre un affresco: non restano che macchie, esemplificazioni scollegate di un disfacimento. Clinica del disfacimento, più di tutti, dà una cornice di senso, però non è possibile rappresentarlo, mentre lo scrivi svanisce. Ne La gaia scienza Nietzsche diceva: vi racconto la storia dei prossimi duecento anni. La tua è tutta una didascalia di quella storia della perdita del cosmo. La compattezza stilistica si ravvisa nella perdizione del senso di unità. Sono racconti senza climax, ma la struttura narrativa è anche una struttura metafisica. Rastrello, Frescura sono al limite tra il racconto e lo sguardo poetico, dove il testo è un affresco che si cancella dà sé in questo svanire del mondo. È la pura bellezza del delirio dello scollamento. Sono gli attimi del ricordo di una vita un istante prima di morire, mentre gli astanti passano, aspettandosi un qualcosa con la q maiuscola, ma i tuoi personaggi si disprezzano a tal punto da rendere impossibile ogni maiuscola. È sempre un qualcosa di minuscolo che avviene e continua ad avvenire in una coazione a ripetere da incubo lisergico. E questo potrebbe fare di te un irredimibile nichilista, con una prosa nerissima e priva di vie di salvezza. Ma – qui forse mi tradiscono i miei studi – c’è sempre uno sguardo weiliano di pietà o compassione – ma in termini religiosi orientali – verso gli ultimi. Una scia luminosa s’intravede dai cassonetti sporchi, dalle fogne, dai bordelli, dalla mente sfatta di un tossico o di un suicida. È questa luce diafana gettata sulle rovine a fare di te uno scrittore, oserei dire con la esse maiuscola; e poi il sarcasmo, la sottile ironia cioraniana in cui sottotraccia dici cose terribili ma senza mai prenderti troppo sul serio.
La Fionda è una rivista di battaglia politico-culturale che non ha alle spalle finanziatori di alcun tipo. I pensieri espressi nelle pagine del cartaceo, sul blog online e sui nostri social sono il frutto di un dibattito interno aperto, libero e autonomo. Aprendo il sito de La Fionda non sarai mai tempestato di pubblicità e pop up invasivi, a tutto beneficio dei nostri lettori. Se apprezzi il nostro lavoro e vuoi aiutarci a crescere e migliorare, sia a livello di contenuti che di iniziative, hai la possibilità di cliccare qui di seguito e offrirci un contributo. Un grazie enorme da tutta la redazione!