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Lo spettro della filosofia


27 Mag , 2024|
| 2024 | Visioni

La filosofia. Un tempo potevamo incontrarla, la filosofia, in qualche corso universitario o in qualche aula di liceo, in qualche libro circolante tra la gioventù istruita o in qualche pubblica discussione. Oggi non più. La cultura socialmente riconosciuta è o iperspecialismo arido o chiacchiera infondata. Ciò che nelle università si chiama filosofia è, nel migliore dei casi, ermeneutica di testi o citazione erudita di pensieri, senza più domanda e responsabilità del vero, senza più comprensione significante dell’orizzonte storico. Nei licei in disfacimento le prime discipline di cui è collassato l’insegnamento sono state la storia e la filosofia. Il fatto è che una società plasmata dalla dinamica autoreferenziale dell’economia del plusvalore tende a spegnere ogni forma di autocomprensione e di strutturazione di significati, perché soltanto un’esistenza priva di riflessione e significato può sottomettersi alle modalità di vita imposte dall’economia, altrimenti invivibili.

Nella società odierna, quindi, non ci sono più luoghi che custodiscano la filosofia e possano trasmetterne lo spirito da una generazione all’altra. La filosofia è diventata socialmente introvabile. Tesori di una sapienza di cui ancora oggi, ed anzi ancor più oggi, avremmo bisogno per ritrovare la via dove l’esistere possa avere valore, giacciono sepolti nell’oblio di testi divenuti indecifrabili.

Un Socrate che tornasse a parlarci nelle nostre strade, come in quelle dell’antica Atene, non sarebbe ritenuto politicamente pericoloso, e non verrebbe costretto a bere la cicuta, perché sarebbe evitato da tutti come uno scocciatore un po’ fuori di testa, e finirebbe investito da un’automobile nel caos del traffico urbano. Un Platone redivivo non troverebbe un editore per i suoi dialoghi. Un Hegel che scrivesse oggi le sue opere non insegnerebbe in un’università (a meno che non sposasse la figlia di un cattedratico), e rimarrebbe un signor nessuno. Fortunatamente per il nostro futuro, Platone ed Hegel sono vissuti in altre epoche, che hanno consentito loro di entrare nel pantheon della storia della filosofia, cosicché la loro sapienza, come quella di altri giganti del pensiero, rimane almeno potenzialmente a disposizione dei nostri posteri.

Soltanto potenzialmente, certo, perché la cultura del nostro tempo ha talmente annichilito la dimensione filosofica del pensiero, e quindi l’ambito stesso di una considerazione filosofica della realtà, che la filosofia è scomparsa dal suo orizzonte. Non è che non ci sia più attenzione per la filosofia. Se ne parla ancora, ne sono incuriosite cerchie più ampie di un tempo, e si propone persino di estenderne l’insegnamento a tutti gli istituti della scuola secondaria superiore. Ma la filosofia di cui si parla, e quella di cui si vuole estendere l’insegnamento, è un contenitore dei più disparati saperi o pseudosaperi (psicologici, sociologici, etnologici, epistemologici ecc. ecc.), a cui manca proprio una considerazione filosofica della realtà. Al di fuori della dimensione propria del pensiero filosofico, del suo specifico spazio conoscitivo, d’altra parte, gli stessi grandi testi, tramandati al nostro tempo dalla storia della filosofia, non possono che essere fraintesi. Circolano così Platoni immaginari che credono negli iperurani, Hegel immaginari che considerano razionale ogni fatto storico, per non parlare di altri profondissimi filosofi, come Proclo ed Eriugena, Cusano e Jacobi, a cui nessuno attinge più nemmeno nominalmente. La filosofia è uno spettro che parla una lingua dimenticata.

Eppure anche nella situazione odierna è possibile, per una persona disposta all’impegno necessario, assimilare gli elementi teorici indispensabili a comprendere la filosofia. Ad un giovane che chiedesse cosa occorre aver compreso per considerare la realtà da un punto di vista filosofico, si può rispondere con verità che basta aver compreso, nella loro intrinseca articolazione, tre sole nozioni, quelle cioè di empirico, trascendente  e trascendentale. Esse rappresentano, per usare in modo metaforico una nozione matematica, gli elementi fondamentali dello “spettro” della filosofia, in base ai quali è possibile ricostruire l’articolazione conoscitiva delle diverse posizioni filosofiche. Infatti chi sa che cosa significa l’empirico, che cosa significa il trascendente, e che cosa significa il trascendentale, è in grado di comprendere ogni filosofia. Chi invece ignora, o non assimila, o apprende in una rappresentazione distorta, una di queste tre nozioni, non può, in virtù della loro intrinseca interconnessione, mettere precisamente a fuoco neppure le altre due, e nessuna vera filosofia gli sarà mai chiara.

L’empirico. Empirico è, nella sua nozione risultante dalla storia della filosofia, tutto ciò che è costituito come contenuto dell’esperienza percettiva, e che ha quindi una sua particolare posizione in riferimento alle coordinate dello spazio e del tempo. Il ciliegio di un giardino è un oggetto empirico, perché può essere visto e toccato posizionandosi in un determinato luogo dello spazio, quello appunto dove si trova il giardino, e in un determinato periodo di tempo, quello durante il quale il ciliegio esiste. Un sentimento provato in una qualsiasi circostanza è empirico, perché avvertito da una percezione della propria interiorità vissuta in un determinato momento del tempo. Un concetto è empirico quando la sua formulazione astratta rinvia, anche tramite altre astrazioni, ad un elemento percettivo.

Si è detto che le tre nozioni di empirico, trascendente e trascendentale devono essere comprese nella loro articolazione unitaria perché ciascuna di esse possa venir compresa nella sua specificità. Ciascuna di queste tre nozioni, cioè, può essere compresa in se stessa soltanto all’interno di una comprensione della sua intrinseca relazione con la totalità formata da essa e dalle altre.

L’empirico, infatti, se inteso empiricamente, non mostra di che cosa consista la sua empiricità, non si rende comprensibile come tale. L’empirico, cioè, può essere compreso come empirico soltanto in maniera non empirica. Come appare l’empirico, infatti, se viene inteso esclusivamente attraverso la sua empiricità? Appare come dato immediato della coscienza. Consideriamo un qualsiasi oggetto empirico, ad esempio il ciliegio della precedente esemplificazione. Esso sembra dato alla percezione: in condizioni ambientali normali, una persona dotate di normali facoltà percettive che si trovi nel giardino al cui interno cresce il ciliegio, e guardi nel posto dove esso si trova, non può che vederlo, e non può far agire la sua vista in modo da percepire, al suo posto, nello stesso luogo spaziale, una quercia o una casa. Esso sembra costituito nell’immediatezza: chi lo vede nel giardino, lo riconosce come albero nel momento stesso in cui lo vede, e lo riconosce come ciliegio non appena vede penderne i frutti dai rami.

Ma le cose non stanno come sembrano. Marx osserva ironicamente, nell’”Ideologia tedesca”, a proposito della certezza sensibile del dato immediato posta da Feuerbach a fondamento di ogni verità, che lo stesso ciliegio che ogni mattina si offre alla certezza sensibile di Feuerbach dal suo giardino, vi si trova solo perché i ciliegi sono stati trapiantati in Germania dall’Asia qualche secolo prima grazie ad un’espansione dei commerci, perché c’è precedentemente stata una trasformazione sociale che ha portato a tale espansione dei commerci, e così via. Senza questo sviluppo storico, Feuerbach non vedrebbe là dove lo vede il suo ciliegio, che perciò non è affatto un dato, ma un posto, ovvero una costruzione storica.

Ciò che è empirico viene chiamato anche fatto. Questo termine, benché sia usato come sinonimo di dato, ha una portata semantica più appropriata alla realtà di ciò a cui è riferito: in quanto participio passato del verbo fare, indica non una datità, ma il risultato di una costruzione della prassi. Il fatto, cioè, è fatto dalla storia, sotto un duplice aspetto: la storia ne produce il contenuto, e dalla storia derivano le costellazioni mentali in riferimento alle quali le percezioni ne ritagliano la configurazione dai suoi sfondi.

La storia, d’altra parte, sgorga dall’antropologia e vi si inscrive. E’ anche vero che l’antropologia è plasmata dalla storia e vi si inscrive. Questi due lati debbono essere contemporaneamente ammessi. L’uomo vive immerso nei fatti storici, ed è lui stesso un fatto storico. E’ anche il fare da cui i fatti, e lui stesso come fatto, sono fatti. L’empirico è il prodotto di questa dialettica antropologica. Al di fuori di essa, e di una appropriata comprensione di essa, l’empirico non si rende intellegibile nel suo spessore di realtà, la realtà che non empiricamente lo ha generato, e mostra soltanto la sua superficie percettivamente rilevabile. Questa superficie, proprio perché astratta dalla realtà di cui è l’ultima manifestazione, appare come datità. Assumerla come tale è la scelta originaria di ogni empirismo, una scelta che tuttavia non è empiristica, bensì metafisica. La scelta di prendere il fatto come dato di fatto non è un dato di fatto, ma è appunto uno scegliere, un fare, un oltrepassare la datità. La scelta metafisica dell’empirismo è di fare del fatto un dato, passivizzando rispetto ad esso il pensiero e la comprensione.

Il trascendente. Trascendente è ciò che trascende la dimensione spazio-temporale del mondo empirico, vale a dire ciò che sussiste oltre di essa. E’ dunque l’aldilà non raggiungibile, neppure in linea di principio, lungo la sequenza delle  concatenazioni fattuali.

La trascendenza così intesa è, sul piano logico, una contraddizione in termini. Il problema se la trascendenza esista o meno secondo la sua pura definizione, quindi, non si pone neppure. Una questione di fatto sull’esistenza o sulla non esistenza si pone infatti per tutto ciò la cui esistenza non sia incompatibile con la logica del linguaggio, E’ ad esempio molto improbabile che esista sul nostro attuale pianeta una città in cui durante lo scorso anno non sia stato commesso neppure un reato. Si potrebbe tuttavia ricercare se per caso esista, perché la definizione di città e la definizione di rispetto della legge penale non sono incompatibili. Non si potrebbe invece nemmeno cercare, senza cadere nell’assurdo, un triangolo quadrato. Ma la trascendenza è come un triangolo quadrato, che se è quadrato non è più triangolo e viceversa. Trascendenza è infatti ciò che è aldilà o al di fuori di ogni spazio. Ma queste espressioni sono contraddittorie, perché “aldilà” e “ al di fuori” sono determinazioni spaziali, e hanno senso solo se riferite a entità nello spazio. Si può essere “al di fuori di questa stanza”, “al di là del sistema solare”, non si può essere “al di là dello spazio”. Analogo discorso per ciò che è “al di là del tempo”. D’altra parte se la trascendenza non è “al di là dello spazio (e del tempo)” non è più trascendenza ma immanenza. La trascendenza è in ogni caso inconcepibile.

Come ha potuto essere allora concepita lungo tutta la storia umana fino ad oggi? Si è riusciti a pensare il trascendente solo perché lo si è concepito non in modo trascendente, che sarebbe impossibile, ma in modo empirico. Nella misura in cui è stato pensato, il trascendente è stato pensato come iperuranio, cioè come un sovramondo, immagine trasfigurata del mondo sensibile, una specie di attico nobile del grande palazzo dell’empirico. Il trascendente, in altri termini, non può essere posto che come raddoppiamento idealizzato dell’empirico, come un empirico del piano di sopra privo dei difetti dell’empirico del piano terra della nostra fattuale esperienza. Lo sapeva Platone quando, nel Parmenide (il suo dialogo destinato, a differenza degli altri, più ai dotti che alla divulgazione), mostra come le idee poste in modo trascendente vengano necessariamente o rese inintellegibili o rese intellegibili solo in modo empirico. Lo sapeva Hegel quando, nella sua Fenomenologia dello Spirito, mostra come la coscienza scettica, che non crede in nulla che non sia una particolarità empirica, e la coscienza duplicata, che crede nell’intrasmutabile, siano ciascuna l’altra faccia dell’altra, e si generino l’una dall’altra. Per chi è abituato alle ricostruzioni usuali della storia della filosofia, che attribuiscono a Platone la trascendenza delle idee e ad Hegel la logicizzazione della storia, le cose appena dette appariranno sorprendenti. Per sincerarsi che sono vere, però, basta leggere i testi di Platone e di Hegel a cui si è fatto riferimento. D’altra parte, il fatto che appaia generalmente incredibile un Platone negatore della trascendenza delle idee, così come un Hegel negatore del panlogismo dei fatti, non è che un aspetto della scomparsa della conoscenza filosofica.

Il trascendente, dunque, non è mai davvero concepito secondo la sua definizione linguistica, che è come tale inconcepibile, ma è sempre concepito come un altro empirico sovrastante il nostro empirico. Questo sovraempirico è riempito di esigenze antropologiche, sia ontologiche che psicologiche, storicamente non legittimabili su base immanentistica, ed è tale suo contenuto che gli assicura una solida consistenza storica. I contenuti psicologici proiettati sul trascendente, che trascendente non è se non come sovraempirico, veicolano privilegi classisti, chiusure sociali ed istanze repressive che hanno fatto la violenza crudele delle religioni. Ma sul trascendente sono stati proiettati anche contenuti genuinamente ontologici, che rendono così filosoficamente ricche di insegnamenti anche metafisiche compiutamente teologali, come, ad esempio, quelle di Agostino o di Eriugena. A questo proposito è particolarmente appropriata la tesi di Hegel secondo la quale certi saperi basati su assolutezze trascendenti non sono falsi saperi, nonostante che la trascendenza della loro assolutezza sia falsa, e non sono neppure veri saperi: sono piuttosto saperi apparenti, nel senso che un contenuto realmente umano vi appare nella forma illusoria di un ente extraumano.

Il trascendente e l’empirico, quando vengono contrapposti l’uno all’altro, costituiscono una falsa opposizione, perché l’empirico considerato solo empiricamente ha un vuoto di significato che rinvia al trascendente come unico suo possibile riempimento, ed il trascendente ha un vuoto di contenuto che rinvia all’empirico come unica sua possibile consistenza. Questo reciproco rinvio, d’altra parte, non è comprensibile che da un punto di vista che non sia né empirico né trascendente, ma trascendentale.

Il trascendentale. Approdiamo così a quella che può essere considerata la nozione più genuinamente filosofica, e per questo più comunemente oscura e più facilmente equivocabile e distorcibile. Darne una definizione rigorosa serve solo fino ad un certo punto a renderla comprensibile, in quanto tale definizione ha un significato soltanto nella dimensione aperta dalla filosofia, dimensione alla quale molti intelletti sono esistenzialmente estranei.

Partiamo comunque da una definizione formalmente precisa. Trascendentale è la condizione universale del manifestarsi della realtà come tale. Ovvero è la forma della rivelazione della cose nella loro compiuta realtà. Il trascendentale non esiste, nel senso in cui esistono gli enti, ma è l’essere di tutte le cose che esistono, cioè la loro verità.

Il tempo è trascendentale, perché gli eventi non si manifestano come eventi reali se non nella loro collocazione temporale. La libertà è trascendentale, perché gli eventi non si generano come tali, nella loro realtà, se non in quanto libere creazioni o assunzioni dell’uomo. La finitudine è trascendentale, perché le cose non si manifestano se non entro i limiti che, nel renderle finite, ne determinano le specifiche realtà. La giustizia è trascendentale, perché le cose umane si manifestano sempre in una reciprocità di relazioni la cui complessiva configurazione è sempre valutabile come giusta o non giusta.

Questi succinti perché, la cui esplicitazione argomentativa è il succo genuino della filosofia, sollecitano intanto una prima intuizione del piano su cui la filosofia stessa si svolge. Si tratta di un accesso meno lineare di quello ad altre discipline, in quanto, se è vero che per comprendere il significato della filosofia è necessario comprendere il trascendentale, è anche vero che per comprendere il significato del trascendentale è necessario rappresentarsi il piano della filosofia. Filosofia è esperienza del trascendentale.

Il trascendentale non è né trascendente né empirico, ed è la spiegazione del generarsi del trascendente e dell’empirico. Il tempo, ad esempio, non è certo trascendente, in quanto l’idea del trascendente è l’essere al di là del tempo, ed il tempo non può certo essere al di là di se stesso. Ma il tempo non è neanche empirico, in quanto non è un contenuto dell’esperienza percettiva, essendone la forma: non posso dire che lì c’è il tavolo, lì c’è la sedia, lì c’è la parete, lì c’è la finestra, e lì c’è il tempo, come se fosse un oggetto tra i tanti, e quindi empirico. Perché è la forma in cui tutti si dispiegano, ed è proprio per ciò trascendentale.

L’empirico è il prodotto del trascendentale, di cui però non esprime, empiricamente considerato, se non il riflesso (questo, detto incidentalmente, è il senso veritativo del mito platonico della caverna). Ad esempio: ogni oggetto empirico è temporalmente costituito, ma non manifesta la sua temporalità costitutiva ad una considerazione meramente empirica, cioè come datità sensibile. Il ciliegio di un giardino sta nel giardino durante un certo tempo, (non c’era, ad esempio, un secolo fa, ed un secolo fa non c’era nemmeno il giardino, anch’esso empirico e dunque temporale). Ma ciò che vedo e tocco del ciliegio sono le sue ciliegie, il loro colore rosso, le foglie, la legnosità del tronco, non certo il tempo del suo dispiegarsi. L’intuizione della temporalità costitutiva del ciliegio è una sua intuizione ideale, non empirica, è una intuizione della trascendentalità propria dell’empirico.

L’empirico, che è sempre formato dal trascendentale, non sempre, anzi raramente, lo esprime con una certa compiutezza. Ciò rende più difficile rilevare la presenza del trascendentale nell’empirico, e l’incapacità di rilevarlo è la sorgente generativa del trascendente. Il trascendente è posto infatti come un trascendentale al di là del trascendentale dell’empirico non riconosciuto come tale. Ma poiché non è logicamente concepibile un trascendentale al di là della forma trascendentale dell’empirico, i suoi termini sono sempre contradditoriamente tratti dall’empirico contenuto nel suo non riconosciuto perimetro trascendentale. E’ come se, non conoscendo la struttura scheletrica (il trascendentale) che tiene eretto un corpo (l’empirico), lo si immaginasse sorretto da grandi braccia invisibili (il trascendente), sul modello delle braccia visibili (l’empirico dal cui raddoppiamento trasfigurato si genera il trascendente) che sostengono gli oggetti.

Il nichilismo. Il rifiuto del trascendentale è il nichilismo. Nichilismo, infatti, è l’assunzione di un esistere senza essere. Ma, poiché l’essere dell’esistere è il trascendentale, in quanto condizione universale della realtà, quindi del suo essere (distinto dall’esistere), il nichilismo, una quanto negazione dell’essere dell’esistere, non è che  il rifiuto di assumere la realtà nella sua trascendentalità.

Esistere ed essere, che nel linguaggio ordinario sono sinonimi, non lo sono nel linguaggio filosofico, ed anzi la dimensione propria della filosofia è stata anticamente aperta da Parmenide proprio attraverso la distinzione tra esistere ed essere.

Esistere significa apparire nella dimensione empirica. Un albero, un fiume, una casa, una città esistono in quanto sono rinvenibili nell’esperienza. Essere è la permanenza ed il significato universali dell’esistere. Il nulla è il non essere, non il non esistere. Un asino con le ali non esiste, in quanto non rinvenibile empiricamente. Un’azienda che mira soltanto al profitto monetario, e che quindi non assicura alcuna stabilità ai suoi lavoratori, ritenuti sempre licenziabili, ed alcun significato umano al loro lavoro, fatto oggetto soltanto di sfruttamento, e che è instabile nel suo stesso assetto organizzativo e territoriale, rimesso sempre in gioco in rapporto alle convenienze di mercato, una tale azienda certo esiste, ma come nulla di essere.

Il nichilismo è quella condizione esistenziale e storica entro la quale l’essere è considerato nulla, in conseguenza del fatto che il nulla è stato scambiato per essere. La pseudofilosofia odierna, quando pensa al nichilismo, pensa a Nietzsche, per il quale il nichilismo nasce con la morte di Dio, si completa con la negazione dell’idealità sovrasensibile quale dimensione dei valori, ed apre così la strada al suo superamento nella trasvalutazione di tutti i valori attraverso il dire di sì alla vita sensibile. Secondo Nietzsche, inoltre, il germe remoto del nichilismo sta nella contrapposizione platonico-parmenidea del divenire, portatore del nulla, all’idealità sovrasensibile, paradigma dell’essere. Tale idealità, infatti, è destinata, non appena pensata in termini razionali, a dissolversi in un divenire non accettato come essere proprio perché originariamente concepito in riferimento ad essa, generando così la situazione del nichilismo.

Ma Nietzsche si sbaglia. L’adesione all’idealità trascendentale dell’essere, come viene argomentata nella tradizione filosofica a partire da Parmenide e Platone, è in realtà la configurazione non nichilistica dell’esistenza. Il germe nascosto del nichilismo sta invece nella credenza in entità trascendenti, che, destituendo di significato proprio l’immanenza antropologica, assume come essere di tale immanenza quelle nullità empiriche che, per tale credenza, rappresentano la trascendenza. Non dunque la morte del Dio trascendente apre lo spazio del nichilismo, ma, al contrario, proprio la sua vita nella credenza umana. Si è detto come il trascendente, costituito come riempimento di senso di un empirico che ne è stato svuotato perché assunto senza trascendentalità, sia tuttavia privo di ogni consistenza che non sia empirica. Per questo ogni divinità trascendente che compare nella storia vi si rappresenta non, per così dire, in proprio, ma attraverso un empiricissimo clero che la mette avanti come sua legittimazione. Ogni clero è un nulla (almeno nella misura in cui non si declericalizza esprimendo la trascendentalità), scambiato però dai suoi fedeli per essere, in quanto rappresentante dell’essere divino (un impensabile che trae pensabilità proprio dal clero che, nel rappresentarlo, lo fa consistere). Ma il nulla scambiato per essere è la vera base del nichilismo, di cui la riduzione dell’essere al nulla è una semplice conseguenza. E poiché ciò che fa scambiare per essere la nullità di ogni organizzazione clericale è la credenza in un Dio trascendente, è appunto la vita, non la morte, di questo Dio, ad aprire la strada al nichilismo.

La morte del Dio trascendente, d’altro canto, dilata la voragine del nichilismo, perché avviene storicamente non mediante un recupero dell’essere trascendentale, ma spostando il meccanismo dello scambiare il nulla per essere (scambio che è la sostanza del nichilismo) dal quel nulla che è rappresentato dal clero e dall’etica autoritario-repressiva, a quell’altro nulla che è rappresentato dal potere della ricchezza monetaria e dalla forza della tecnica. La genialità filosofica di Jacobi ha indicato la voragine del nichilismo, fin dall’inizio dell’Ottocento, nella concezione romantica che, dissolvendo la sostanzialità del reale nell’attività soggettiva, ha trasformato la soggettività in forza produttiva di sempre nuovi fenomeni attraverso l’annichilimento dei precedenti. Hegel, accettando la soggettività creatrice come spazio indispensabile alla libertà, ha indicato la via per mantenerla sostanziale, concependola non più romanticamente, ma logicamente, entro categorie che siano limiti  trascendentali al suo dispiegarsi. Ma la sintesi filosofica di Hegel è stata espulsa dalla prassi storica che, sfociando nel capitalismo e nella tecnica, è diventata demiurgia nichilistica.

Il postmoderno. L’epoca moderna, comunque se ne vogliano fissare i limiti cronologici sempre convenzionali, è caratterizzata dalla concezione della libertà come autodeterminazione della soggettività individuale (concezione diventata per noi ovvia, ma estranea alle epoche precedenti, che avevano inteso in altri modi la condizione libera), e dall’obiettivo di emancipare la soggettività individuale da tutte le autorità e le comunità capaci di soffocarne la creatività nel pensiero e nella prassi. La modernità è cioè come tale emancipatoria, e coincide nel suo concetto con i caratteri giuridici, politici, economici e scientifici della cosiddetta civiltà occidentale, distinta dall’Occidente come spazio geografico e come storia complessiva svoltasi entro tale spazio.

Da quando, nel 1979, Jean François Lyotard ha pubblicato il suo storico saggio “La condizione postmoderna”, ha cominciato a diffondersi la consapevolezza che la modernità è tramontata, e viviamo nel postmoderno. Ma che cosa deve intendersi per postmoderno? Lyotard, che ne ha in un certo senso coniato il termine sostantivo, traendolo da una aggettivazione data negli anni precedenti, a cominciare da Touraine, alla cosiddetta società postindustriale, lo ha concepito, in sostanza, come un nuovo statuto del sapere. Il sapere premoderno era costituito da quelle che lui ha chiamato “grandi narrazioni”, perché raccontano un senso complessivo e finalistico della storia umana, o “metanarrazioni”, perché erano riferite a molteplici narrazioni specifiche di fatti particolari come intepretazioni veritative di esse. Il sapere moderno si è legato alla potenza pragmatica di una nuova scienza capace di dominare l’empirico attraverso il linguaggio matematico e tecnico, la scienza moderna, appunto. Questa scienza si è all’inizio inscritta nell’obiettivo emancipatorio della modernità falsificando tutte le metanarrazioni premoderne soffocatrici della libera soggettività individuale, rivelando e poi creando nuovi fatti incompatibili con esse. Tale inscrizione è stata tuttavia opera di altre narrazioni, da quella baconiana a quella illuministica, da quella positivistica a quella popperiana, che hanno legittimato le scoperte scientifiche come epopea di disvelamento delle cose e di liberazione dell’uomo. Ma anche questa narrazioni si sono via via rivelate infondate. E’ così nata quella incredulità generale nei confronti della metanarrazioni che secondo Lyotard definisce il postmoderno. La caduta di ogni valenza legittimatoria delle grandi narrazioni cambia lo statuto del sapere. Il postmoderno è un modo di concepire il sapere oltre ogni metafisica, oltre ogni teoria di legittimazione, oltre ogni idea di formazione dello spirito, in cui il sapere diventa trattamento operativo delle informazioni.

Sviluppando queste considerazioni oltre Lyotard si può dire che il postmoderno è una forma di legittimazione del sapere attraverso la potenza produttrice delle cose. Esso giunge così agli antipodi del platonismo, che legittimava il potere attraverso il sapere del bene collettivo. Una volta distrutti i nessi coesivi della società dalla mercificazione capitalistica della vita, è scomparsa l’idea stessa del bene, degradato a utile particolare, e del sapere, degradato a potenza. Ciò che ha la potenza di imporsi, nella produzione, nella distribuzione e nella circolazione, e di fabbricare immagini collettive, diventa perciò stesso credibile. Le informazione stesse che lo sostengono sono fabbricate, mentre la potenza sistemica esclude dalla circolazione informazioni difformi.

La realtà scompare così nel compiuto nichilismo, che la sostituisce con l’effettività sempre flessibile, anche nell’esistenza umana. Postmoderno non è, insomma, che un altro nome per il nichilismo compiuto, che a sua volta non è che un altro nome per il capitalismo assoluto. La potenza nichilistica del capitalismo, d’altra parte, non ha dovuto superare grosse resistenze, perché le idealità che hanno preceduto il capitalismo assoluto, da quella cristiana a quella marxista, erano trascendenze già in loro stesse potenzialmente nichilistiche. Non è possibile, infatti, credere in un Dio che non impone alcuna lotta concreta contro le ingiustizie del mondo, ed essere poi in grado di lottare contro le ingiustizie che più hanno colonizzato le menti, quelle insite nella potenza del capitale. Non è possibile credere nell’identità tra storia e progresso, identità che è implicita nel marxismo storicamente esistito, e poi essere in grado di contrastare, almeno sul piano intellettuale e morale, il capitalismo assoluto, che è un portato della storia e una sua potenza effettiva.

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