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Incubo UE: dal “pilota automatico” europeista a quello atlantista

A pochi giorni dalle elezioni europee l’unica vittoria di cui si può essere sicuri è quella della superficialità e approssimazione. Il dibattito procede a suon di luoghi comuni e cliché, con la proposta politica che assume la serica consistenza di un libro dei sogni; si dibatte non in base alla realtà effettiva ma su quello che si vorrebbe essa fosse.
Non si tratta (solo) di carenza di elaborazione nei contenuti, ma di una strategia di cattura del consenso. Molto comodamente, basta enunciare qualcosa di coerente coi valori predominanti nel proprio elettorato (apertura, europeismo, cosmopolitismo, oppure identità, nazione, protezione) per far presa su di esso, a dispetto della effettiva e concreta applicabilitá.
Un reale orizzonte programmatico dovrebbe tener conto della struttura dell’Unione e dei problemi da essa generati. Nessuno di essi è stato risolto in questi anni. Anzi se ne sono aggiunti altri.
A cosa serve il voto europeo?
Prima di tutto andrebbe ricordato che il voto di giugno elegge il Parlamento europeo, che non è il legislatore della Ue. Il processo di approvazione delle misure (regolamenti e direttive) passa per tre soggetti: Commissione, Parlamento, Consiglio. L’iniziativa è esclusiva del primo di essi, una sorta di esecutivo nominato dai governi in carica all’inizio della legislatura: ogni Stato manda un Commissario. L’europarlamento non può proporre nulla, ma solo approvare o modificare quello che la Commissione propone.
Poi il testimone passa al Consiglio, composto dai ministri attualmente in carica. Questo può approvare o meno il testo, ed eventualmente rimandarlo indietro. Questo palleggiare una proposta è detto “trilogo”, perché si svolge fra tre soggetti. Di cui quello meno importante è proprio il Parlamento, che ha una composizione di membri proporzionale (più o meno) alle rispettive popolazioni (gli Stati più popolati mandano più rappresentanti), mentre ogni Stato, anche se microbico come il Lussemburgo, esprime un commissario e un membro del Consiglio.
Tutto ciò riduce fortemente l’importanza del voto di giugno: delle tre istituzioni che costruiscono gli atti della Ue ne eleggiamo solo uno e per giunta il meno importante. Ma apre anche interrogativi sulla sostanza di questa democrazia in salsa europea: se non l’eurocamera chi decide le politiche?
La gerarchia occulta e il “pilota automatico”
Occorre ragionare sul ruolo dei governi nazionali nella gestione della Ue, i quali com’è noto nominano la Commissione ed agiscono direttamente nel Consiglio europeo (capi di stato e di governo) e Consiglio dell’Ue (ministri “semplici”). Oltre alle riunioni intergovernative di dubbio profilo formale come l’eurogruppo (ministri delle Finanze solo dell’area euro), eurosummit (capi di stato e governo dell’euro zona). Se si considera la gestione della Crisi del Debito sovrano, non c’è nessun dubbio che i governi abbiano costituito l’attore principale della sua gestione. Ciò spinge a riformulare una posizione secondo cui gli Stati non valgono più nulla, risucchiati dal maligno organismo sovranazionale (e dalla globalizzazione) e divengono totalmente privi di sovranità. Quello che avviene è diverso: prima di tutto sono i parlamenti nazionali ad essere in buona sostanza annichiliti, non solo ad opera della burocrazia della Commissione, ma dagli stessi governi, che fanno uno sporco giochetto delle tre carte: approvano degli atti in Ue (da loro stessi nel Consiglio o dai Commissari da loro inviati) che arrivano ai parlamenti nazionali sotto l’etichettatura “europea” in modo tale da farli approvare a forza (“mica sarete così irresponsabili da non accettare quello che dice l’Europa no?”), anche nel caso di misure che avrebbero suscitato una opposizione irriducibile, o comportato un alto costo politico. Insomma giocare di sponda col processo comunitario serve a far “rientrare dalla finestra quello che si è cacciato dalla porta”, cioè a sbarazzarsi dell’opposizione e ridurre all’ubbidienza la stessa maggioranza. Le direttive comunitarie non sono opzionali, se non vengono attuate ci sono possibili sanzioni. Per cui possiamo dire che il “ce lo chiede l’Europa” non è la morte degli Stati, ma dei parlamenti – notiamo a margine che le situazioni in cui l’Esecutivo inizia a emettere provvedimenti infischiandosene dell’assemblea legislativa è sempre stato associato ad esperienze autoritarie se non fasciste.
In secondo luogo, è vero che la migrazione delle competenze verso la Ue diminuisce la sovranità di tutti i membri, ma gli Stati più potenti la recuperano controllando le istituzioni comunitarie; gli altri la perdono e basta. Il modo in cui i primi riescono ad amplificare la loro forza si riflette nella crescente divergenza centro-periferia sul piano economico così caratterizzante gli ultimi decenni dell’Unione, una sorta di integrazione subordinata che sbocca in una gerarchia non esplicita ma saldissima; paesi come la Germania sono ben capaci di usare la loro forza economica per spingere gli Stati più piccoli ad assecondare la loro linea. Niente è più chiaro del fatto che la Crisi del Debito sovrano del 2010-16 è stata la storia di come Berlino e Parigi, tirandosi dietro i paesi del nord Ue hanno imposto alla periferia (Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, Italia: PIIGS) un’agenda conforme ai propri interessi (o meglio: delle proprie oligarchie bancarie e aziendali), in specie l’austerità e il rientro del debito a favore delle loro banche, spalleggiate dalla BCE. Il modo in cui tali paesi sono stati obbligati a fare austerità sfida la nozione stessa di Stato sovrano, suggerendo un rapporto semicoloniale. Da ciò si desume che non solo gli Stati più forti sono riusciti a far valere il loro potere, ma agendo attraverso le istituzioni comunitarie lo hanno incrementato è amplificato.
A seguito delle elezioni italiane del 2013, nella conferenza stampa del 7 marzo venne chiesto a Draghi come si poneva l’esito del voto rispetto alla disciplina fiscale (cioè il rispetto dei malfamati parametri di Maastricht):
Domanda: Vorrei avere i suoi commenti sull’incertezza creata dalle recenti elezioni italiane, in cui la maggior parte degli elettori ha votato per partiti che rifiutano la disciplina fiscale da lei sostenuta.
Draghi: Nel complesso, i mercati sono rimasti meno impressionati rispetto ai politici e a voi. Bisogna anche considerare che gran parte dell’aggiustamento fiscale intrapreso dall’Italia continuerà con il pilota automatico.
Poche volte è stata enunciata in termini più chiari il fatto che alcune decisioni a livello Ue non sono influenzabili da alcun processo di espressione democratica. In termini eufemistici, questo è chiamato il deficit democratico dell’Unione. L’ex ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, ha asserito che è una espressione inadeguata perché negli organismi Ue non c’è nessuna democrazia: “c’è zero democrazia: zero è un numero radicale”. Alcuni la chiamano invece “dittatura del capitale”.
Ovviamente è difficile pensare che se la Germania decidesse di non seguire le indicazioni comunitarie esista qualcuno capace di obbligarla. Ma per molti altri (diremmo quasi tutti) resistere è difficile, in specie nell’eurozona, in cui le rispettive banche centrali si sono ridotte a centri studi: le decisioni le prende Francoforte, sede della BCE che secondo alcuni è il vero potere forte; del resto gli istituti a livello nazionale divengono delle quinte colonne capaci di colpire alle spalle i propri governi “dissenzienti”. I governatori delle banche centrali di diversi Stati (Italia, Cipro, Grecia, Irlanda) hanno molto chiaramente parteggiato non per il proprio governo e i loro cittadini ma contro di essi assieme a Commissione, Troika, e gli Stati più forti che dirigevano la musica.
“Oh mio Dio, vogliono distruggere l’Europa!”
Questo peraltro rende abbastanza risibili gli allarmi dei progressisti secondo i quali “le destre vogliono distruggere l’Europa”. I governi conservatori (Merkel e Sarkozy) hanno strumentalizzato le istituzioni Ue a meraviglia. Ma le forze più nazionaliste? Tanto il governo polacco che ungherese hanno fatto più o meno lo stesso. Sono questi stessi partiti che nella loro propaganda sventolano l’ideale del ripristino della sovranità, ma arrivati al potere non paiono né desiderosi né capaci di essere coerenti con essa. Nemmeno la Lega, bollata dalle anime belle come biecamente antieuropeista, ha mai fatto proposte concrete non diciamo per dissolvere la Ue, ma nemmeno per recuperare competenze perse dallo Stato. Le aspettative cataclismatiche dell’impatto delle destre più radicali sull’assetto comunitario sono più proiezioni emotive che argomenti solidi. Si basano sulla percezione della Ue come qualcosa di positivo, il delicato fiore del sogno europeo che rischia di appassire stritolato.
Ma visto da vicino questo bel fiore ha parecchie spine. Anzi non è nemmeno tanto bello, e sono più le spine che il resto. Fuor di metafora, la concorrenza e il mercato troneggiano nell’assetto Ue. E questi non solo caratteri accessori o accidentali ma l’essenza stessa di tale organismo. Finché l’Unione vivrà, tali saranno i suoi caratteri di fondo, che non sarebbero redimibili se non piallando il 90% dei trattati. Cioè distruggere completamente la Ue.
Nessuna forza conservatrice è ideologicamente contraria a tali tratti, vuole solo coniugarli con la propria agenda: restrizioni aborto e temi bioetici, contenimento immigrazione, famiglia tradizionale e simili.
Consiglio Ue e la democrazia
Abbiamo visto come i governi europei si impongano ai loro parlamenti ottenendo l’approvazione formale di quello che decidono attraverso la Ue. C’è un altro problema: come essi nella loro azione si svincolino da essi. Non sembra che tale questione abbia avuto grande attenzione, ma va considerata di entità tale da inficiare la stessa legittimità delle istituzioni comunitarie, al pari della autonomia della BCE (da considerare piuttosto come irresponsabilità di fronte ai cittadini) e alla postura tecnocratica della Commissione.
Il Consiglio dell’Unione (assieme al suo doppio maggiore, il Consiglio europeo, che comprende i capi di Stato e di governo) comprende i ministri degli Stati membri, e ha un ruolo centrale. Ma chi rappresenta? Ogni governo/ministro ha una legittimità conferita dal parlamento nazionale (o dallo stesso corpo elettorale, se il governo è nominato da un presidente eletto direttamente). Ma quando decidono unitariamente? L’autorità del Consiglio è superiore alla somma delle singole componenti nazionali, perché i suoi esiti sono vincolanti per tutti, e non si può modificare una direttiva o un regolamento in un secondo momento. Ovviamente un problema analogo si pone con la firma di trattati e accordi in politica estera, per cui a chi va a negoziare è concesso un margine di autonomia, ma il Parlamento ha la possibilità di rigettare il risultato finale. Il caso più noto è l’adesione del presidente Wilson alla Società delle Nazioni che il Congresso non ratificò. Ma col Consiglio Ue non si può: si decide in maniera irreversibile.
Per recuperare il legame col Parlamento esistono fondamentalmente due linee di proposta. Una, avanzata dall’ex ministro greco Varoufakis e dal suo movimento Diem25, è di rendere le riunioni del Consiglio più trasparenti, in modo da rendere pubbliche le proposte e i risultati delle votazioni interne. Un’altra è quella prescritta dalla legge 234 del 2012, che impone che il Parlamento venga tenuto aggiornato delle dinamiche comunitarie e debba esprimersi al riguardo.
In tal modo sicuramente esisterebbero più strumenti di controllo, ma non si affronta il problema principale: per quanto i parlamenti possano esprimersi e dare un orientamento prima della negoziazione, i margini nella discussione in seno al Consiglio possono essere assai ridotti per ottenere un risultato coerente con gli orientamenti assembleari, ed è molto difficile, ex post, capire se si poteva ottenere di più o meno trattando con altri 26 ministri. L’unico meccanismo realmente dissuasivo a non sfidare la volontà del Parlamento è la sua possibilità di rigettare il risultato finale. Ma questo non è previsto. Conclusione: il governo può aggirare il Parlamento grazie ad un nucleo di potere che si regge sugli esecutivi nazionali ma li oltrepassa, perché non subisce i loro vincoli.
Europa a una voce sola?
I problemi che abbiamo menzionati riguardano la democrazia in senso sostanziale. Nessuno di essi è stato corretto o ridotto. Anzi: si è aggiunta una nuova istituzione, il Meccanismo Europeo di Stabilità che è ancora più sbilanciato nel dare maggiore potere agli stati più ricchi.
Se guardiamo ai contenuti, è chiaro che l’assetto del sistema eurounitario ha portato tutto il continente verso il liberismo e la primazia del mercato. Non solo c’è il pilota automatico, ma la direzione da esso presa è ben precisa: l’art. 119 del TFUE disegna precisamente la centralità della concorrenza e del “libero mercato” come cardini del diritto Ue; e si deve citare il ruolo della Corte di Giustizia Ue nell’imporre il liberismo (si pensi alle sentenze Viking e Naval). La congiunzione dei due fattori (la antidemocraticità e l’orientamento filo-capitalista) è balzata all’occhio nel braccio di ferro con la Grecia nel 2015. Il crollo di Syriza ed il rovesciamento del suo programma elettorale, piegato dalla Troika, dovrebbe aver messo una pietra tombale sulle prospettive di imprimere alla Ue una caratura “sociale”.
Ma questo è ancora più rilevante alla luce della guerra all’Ucraina. Un ostinato luogo comune, partendo dalla constatazione della inconsistenza geopolitica Ue (c’è qualcosa di più svilente dell’appecoronamento della leadership europea?), se ne conclude che per sanare la incapacità di agire come soggetto unitario, “l’Europa delle “parlare con una voce sola”. Non è chiaro come si possa raggiungere tale risultato evitando che tale “voce sola” risulti l’espressione dei governi più forti e delle forze di mercato (per le ragioni sopra dette). Nelle politiche Ue un meccanismo fondamentale è la “cattura oligarchica” dei suoi vertici, assai permeabili alle lobby e agli interessi dominanti. Negli affari esteri a tali soggetti si associano gli Usa, che riescono a cooptare gli Esecutivi europei in maniera strabiliante. E in entrambi i casi solo una forte pressione dal basso può controbilanciare tale orientamento. I vertici comunitari parlano apertamente di economia di guerra e di riarmo contro la Russia, toccando punte di bellicismo così estreme da oramai far sì che l’unità europea come progetto di pace derivante da Ventotene (cosa peraltro falsa) sia ben oltre la soglia della più delirante menzogna, oltre il ridicolo. Nonostante la grancassa mediatica degna della Guerra Fredda, ci sono larghissime zone di dissidenza popolare dinnanzi a tali prospettive. Ma più i governi sono vicini ai loro pari, ai vertici Ue e NATO e agli Usa negli assetti istituzionali, meno avvertono le pressioni dal basso, presto bollate come “frutto della propaganda putiniana”. Insomma oltre al “pilota automatico” delle riforme mercatiste-liberista c’è pure quello del sostegno incondizionato al regime di Zelesnky (un regime che oltre ad un assetto profondamente neoliberista, modellato completamente dagli “alleati” occidentali manifesta l’assenza di qualsiasi criterio di democrazia interna, già manifestatasi prima della guerra, ma che oggi è degenerato in una dittatura aperta).
Una potente nemesi si è abbattuta sulla Germania, che giovandosi del primo “pilota automatico” (che l’ha portata a cannibalizzare la periferia europea) si è piegata al secondo subendone tutte le conseguenze: un allarmante declino economico. Spinta ad aderire alla guerra di sanzioni e a rinunciare al gas russo, la leadership tedesca appare assai appannata. Alla testa del continente c’è forse più la Francia se non la Polonia e il Regno Unito; di questi ultimi due paesi, uno è sempre stato marginale nelle politiche europee, l’altro addirittura non fa più parte della Ue, ma grazie al loro legame specificamente strategico-militare con gli USA hanno un rilievo che le loro non brillanti economie non consentirebbero.
Se l’impatto della Ue nella sfera economica è stato tale da generare i movimenti euroscettici cosa succederebbe se ubbidendo come bravi cagnolini i governi accettassero di innalzare le spese militari, secondando i desideri di Washington di coprire il fianco contro la Russia a fronte del disimpegno statunitense a favore di Medio Oriente e Cina? Non basterebbe certo il 2% del pil nel militare, ma spese tali da annichilire il welfare dei paesi europei (o quel che ne resta). Non sappiamo chi potrebbe giovarsi dell’energia politica derivante da tale situazione di scontento e lesione dei diritti; senz’altro non i soliti partiti asserviti al mainstream europeista-atlantico, ma più probabilmente forze identitarie come AFD o figure dal profilo socialista come Sahra Wagenknecht. In ogni caso allacciamo le cinture. Sarà un viaggio movimentato.
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